BIBLIOGRAFIA DI ROSARIO MASTRIANI

    Buona parte della seguente biografia su Francesco Mastriani è stata realizzata prendendo come riferimento le notizie riportate sul libro del figlio Filippo Cenni sulla vita e sugli scritti di Francesco Mastriani. [1]

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   Francesco (Giovanni, Raffaele) Mastriani nacque in Napoli – città dalla quale non si è mai allontanato nel corso della sua vita – il 23 novembre 1819, in via Concezione Montecalvario n° 52, da Filippo e Teresa Cava.

   Da un documento in nostro possesso, risulta esser nato Francesco Mastriani non in via Concezione a Montecalvario n° 52, bensì in Vico Figurella Montecalvario n° 10; è probabile che Teresa Cava, madre di Francesco, andò a partorire nella casa di suo padre Filippo Cava, che abitava appunto in quel luogo.

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   Per capire l’amore grande che Mastriani portava per la sua città Napoli e ai suoi concittadini, riportiamo ciò che scrisse nel romanzo Eufemia.

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   «Io non ho che a rari e brevi intervalli lasciato Napoli, mio paese nativo, al quale sono avvinto da un amore stragrande, ed al quale ho consacrato tutto il mio povero ingegno. Ho studiato il mio paese coll’amore di un figlio, di un innamorato, di un artista. Nelle lunghe e inaudite sofferenze che ho durate e duro tuttavia nella spinosa e sterilissima via delle lettere, unico conforto al mio cuore è la stima de’ miei concittadini e la soddisfazione di avere, nella sfera delle mie facoltà, contribuito a spargere qualche lume di civiltà e di progresso tra le classi del nostro popolo che la mala signoria avea tenute asservate nella ignoranza e nella barbarie».[2]

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.. Anche nella Prefazione dei Misteri di Napoli, nell’edizione dell’editore di Napoli Gaetano Nobile, del 1869, lo scrittore osserva il particolare che in vita sua non si è mai allontanato dalla sua città natia:

  «La benigna accoglienza fatta da’miei concittadini a questi miei lavori e la rapida diffusione di essi mi animava a imprendere novelli studi su la società in generale e su la nostra Napoli in particolare, dalla quale non mi allontanai giammai insino a questo tempo della mia vita».

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    In un articolo, pubblicato sul suo giornale La Domenica, il 23 giugno 1867, Francesco Mastriani, rispondendo ad una lettera che aveva ricevuta da un suo lettore, pure manifesta il suo rapporto particolare con la sua Napoli:

   «Mi permetta ch’io rispondo non aver Lei afferrato, per così dire, il vero concetto di quel mio articolo. Nissuno più di me ama il mio paese, al cui bene ho consacrato da molti anni il mio povero ingegno. Tutti gli scritti miei fanno testimonianza di questo caldissimo amore che ho alla mia terra nativa; amore al quale ho sacrificato i miei più vivi interessi e forse il benessere della mia famiglia. Ma, lontano dalle adulazioni d’ogni sorta, siccome dal vituperare senza ragione, io non lodo mai ciò che non è degno di lode; e biasimo solo quando può derivarne un bene allo stesso oggetto ch’io biasimo. Posto ciò, Napoli è certo una delle prime città del mondo per l’ingegno de’suoi abitanti, per la bellezza del suo cielo, per la dolcezza del suo clima, pe’suoi classici monumenti, per la storia delle arti, per le gloriose falangi de’suoi martiri politici […]».

 

   L’articolo a cui fa riferimento Mastriani, fu pubblicato altresì sul suo giornale, la settimana antecedente, ovvero il 16 giugno 1867, dal titolo Disinganni, e lo si può consultare nella pagina di questo sito «Teatro e Giornalismo».

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 Anche nel romanzo Giambattista Pegolesi, dell’editore Giosuè Regina, Napoli, 1874, a pag.154, il narratore fa riferimento del suo attaccamento alla città natia: « Ma… trista condizione fu sempre del poeta, del letterato e dell’ artista in un paese, che pur tanto ama la poesia, le lettere e le arti!

Nessuno più di noi ama questo cielo e questa terra di Napoli, alla quale abbiamo consacrato tutte le forze del nostro povero ingegno, e per la quale operosamente ci affaticammo in sudati volumi. Ma noi non l’adulammo giammai; ed al cospetto de’su­oi vizi la ponemmo perché di tal vista si giovasse a proprio cor­reg­gimento.

E così francamente le diciamo ch’essa uccide i suoi figli più cari, i più eletti ingegni, la gloria stessa del suo suolo, lasciandoli languire negli stenti e nella inedia.

Per carità del suolo natio, noi non tesseremo la dolorosa storia de’ tanti illustri che, a premio delle loro opere immortali, si ebbe­ro le croci infinite della povertà, per non dire, della miseria.

A che giova lo innalzare monumenti e statue agl’illustri de­funti, quando i loro giorni furono amareggiati dalle umilia­zio­ni che seco adduce la povertà, e che sono mille volte più crudeli ad un’anima che sente la propria dignità e la propria grandezza?

Benvero, quelle umiliazioni dovrebbero piuttosto far salire il rossore su la fronte del governo e del paese dove un grand’ uomo languisce nel tristo bisogno.

Il Tasso, il Giambattista Vico, il Poliziano, il Camoens ed altri mille morti nella più squallida indigenza sono macchie indelebili che deturpano la civiltà e il paese in cui quelli ebbero cuna.

Nell’aureo libro dello Smiles[1] noi troviamo queste parole ch’egli attribuisce a Washington Irwing:

«Tutto ciò che si dice del merito modesto obbliato non è trop­po spesso che un pretesto, di cui le persone indolenti ed ir­re­solute si servono per imputare al pubblico la loro oscurità… L’ingegno maturato dallo studio e ben disciplinato è sempre sicuro di trovare un campo aperto, purché voglia darsi un po’di pena, e non abbia la pretesa che si venga a cercarlo».

Noi non neghiamo che la indolenza e la irresolutezza e, più che tutto, la poca brama di arricchire sono forse le precipue ca­gioni per cui il più de’ sommi ingegni furono e sono poverissi­mi; ma è innegabile che la modestia, e talvolta la timidezza, non si com­pagna giammai dal vero merito, il cui posto è occupato inve­ce dalla tracotanza e dalla presunzione. La società avrebbe l’obbligo di prendere per un braccio queste due spudorate e respingerle indietro per dar libero il passo allo ingegno modesto ma non ignoto; ed ecco dov’è la colpa degli uomini, della socie­tà, de’ governi. Non tutti hanno la fibra per essere importuni, arditi e audaci; e, sventuratamente, il mondo ap­partiene a costoro

[1] Chi s’aiuta Dio l’aiuta.

E a pag.31:«Napoli era in quel periodo sotto il dominio tedesco […] Con tutto ciò, Napoli non era certamente la Terra di Diemen o una regione della selvaggia Cimbelasia. Napoli era nel secolo de’Vico e de’Filangieri, era sempre, per la bontà del suo clima e per l’amenità de’suoi colli, il ritrovo di ragguardevoli viaggiatori».

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   Ma quel che non possiamo in coscienza menar buono allo esimio scrittore si è parlare de’Napolitani con quella leggerezza onde ne parlano gli stranieri. Per conoscere i Napolitani, bisogna esser vivuto in mezzo a loro per una vita intera; bisogna averli attentamente studiati in tutte le classi.

   Non vogliam citare i brani dell’opera del signor Dumas, ne’quali troppo recisamente egli pronunzia duri giudizi su questo popolo; ma siamo sicuri che la cavalleresca nobiltà d’animo dell’autore del Montecristo e dei Moschettieri farà, quando gliene venga il destro, generosa ammenda di quei pregiudizi che il signor Dumas ha comuni co’suoi compatrioti, i quali, attraversando in carrozza le strade di Toledo e di Chiaja, credono aver preso bastante conoscenza di Napoli e de’ Napolitani.

   (Estrapolato dall’ articolo scritto sul giornale La Domenica del 7 luglio 1867, « La storia de’Borboni di Napoli».

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,   Teresa Cava sposò in prime nozze Raffaele Giardullo, ed ebbe due figli: Vincenzo e Gennaro; in seconde nozze sposò Filippo Mastriani, ed ebbe altri sette figli: Giuseppe, Ferdinando, Francesco, Giovanni, Raffaele, Marianna e Rachele. Fin dalla più tenera età Francesco Mastriani dimostrò un ingegno vivacissimo; e per la sua costante passione di dedicarsi allo studio, si acquistò il nomignolo di Storione, aggettivo paragonabile all’odierno secchione!

   Nell’aprile dell’anno 1825 andò per la prima volta a scuola, nell’Istituto di don Raffaele Farina ed ebbe come compagno di studi l’illustre Pasquale Stanislao Mancini (Castel Baronia 1817 – Napoli 1888. È stato un giurista e politico italiano).

   Uscì dall’Istituto Farina nel 1832; per qualche mese fece lezione con Luigi Marchese, dove cominciò ad imparare la lingua francese. Dopo un anno il padre lo mandò con il fratello Ferdinando all’Istituto Vinelli, dove studiò il latino, il francese, l’italiano, l’aritmetica, il disegno e la calligrafia. Quando poco appresso il fratello Ferdinando fu impiegato in uno studio di commercio, Francesco con l’altro fratello Raffaele passò nell’Istituto di Raffaele de Antonellis. In questo istituto studiò con molto profitto, tanto da dettare lezioni di letteratura italiana, latina e francese, di filosofia, di geografia e poesia. In questo istituto fu amato e stimato da tutti e quando nel novembre del 1834 andò via, il de Antonellis pianse come un ragazzo, e gli scrisse la seguente lettera « Mio caro don Ciccillo, quantunque sia dolente della perdita del primo filosofo del mio istituto, pure mi è grato che vi elevate a cose più sublimi, e vi auguro di tutto cuore ogni bene. Siate sicuro che conserverò inalterabile l’affetto che vi ho dimostrato, e quantunque non sia nel caso di giovarvi, pure sarò sempre lo stesso. Comandatemi, salutatemi tutti di casa e credetemi ».

   Cominciò poi lo studio del diritto romano con l’avvocato Antonio Fedele, avendo l’intenzione di abbracciare la professione legale, non trascurando pertanto di coltivare la lingua francese col maestro Lopez dal quale ebbe le prime nozioni degl’idiomi spagnolo e portoghese. Lo studio delle lingue divenne poi in lui una vera passione e molte egli ne apprese in seguito senz’alcun maestro che lo guidasse.

   Allo studio della filosofia (e fu della scuola del Galluppi con il quale ebbe affinità di parentela: Francesco Galluppi, figlio del celebre filosofo Pasquale, sposò Luisa Bucci, sorella della madre di Concetta Mastriani) egli accoppiò quello della letteratura. Nell’anno 1835 lesse tutta la biblioteca del suo maestro di lingua francese Lopez, composta da circa 400 volumi di classici francesi e spagnoli. I libri che lesse moltissime volte furono tra gli altri: La nouvelle Eloise di Rosseau; i Martiri di Chateaubriand; tutti i romanzi di D’Arlincourt, la Matilde di Sophie Cottin, la Divina Commedia di Dante, le tragedie di Shakespeare e di Alfieri. Ma un altro volume che ebbe sempre tra le mani, come cristiano convinto, fu la Bibbia, e le massime di quel codice eterno si trovano diffuse in tutti i suoi scritti, poiché egli ebbe sempre di mira di dimostrare al popolo, per il quale specialmente scriveva, come il rispettare quei divini canoni basterebbe a scongiurare ogni manomissione del diritto e per conseguenza ogni ragione di lotta contro il dispotismo del potere e dell’oro.

   Nell’anno 1836, per volere di suo padre fu impiegato presso la Società Industriale Partenopea, diretta dal Principe di Satriano, e nel settembre dello stesso anno ricevette la prima gratificazione di ducati 5. Nel primo capitolo del romanzo Eufemia, descrive questo avvenimento importante della sua vita: «Alla età di sedici anni, io venni da Carlo Filangieri, principe di Satriano, impiegato nella Società Industriale Partenopea, impiego che mi occupò fino all’anno ventiquattresimo della mia età, e che fui costretto a lasciare come sterile, faticoso e senz’avvenire alcuno »

    Ma in quell’ anno 1836, si aprì la prima pagina dolorosa della vita di Francesco Mastriani: la morte della sua diletta genitrice che colpita dal terribile male, il colera; e a soli 60 anni, nel vigore della sanità, la notte del 28 novembre di quell’anno 1836, in poche ore esalò l’ultimo respiro. Col cuore lacerato dal dolore, Francesco Mastriani scrisse Un sospiro alla memoria di lei, una poesia che dedicò alla sua estinta genitrice e che fu in pratica il suo primo lavoro che diede alle stampe, all’età di 16 anni. Il padre Filippo, non sopravvisse alla moglie che 6 anni, infatti la sera del 21 aprile 1842, egli riposò per sempre accanto alla moglie.

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   «Mia madre lasciava le sue mortali spoglie, colpita dal fiero morbo nella sua prima invasione del 1836; e mio padre, cui la perdita dell’amatissima compagna fu piaga che lentamente menò a morte anche lui, ottenne (l’unico forse non estinto di colera che riposi nel camposanto colerico) esser sepolto a fianco di colei, che per tanti anni gli avea accresciuto le brevi gioie e scemato i lunghi affanni, eredità di quanti veggono la luce di questo mondo». [3]

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   Nell’anno 1837, mentre cominciava a dare alle stampe qualche articoletto nei giornali Gli animosi e La Lanterna magica, e non trascurando la sua occupazione presso la Società Industriale Partenopea, per dedicarsi ad una professione, cominciò a studiare anatomia col dottor Ippolito Nunziante nell’Ospedale degl’Incurabili e la fisiologia col dottor Raffaele Folinea.

   Nel 1838 essendosi abbastanza addestrato negli idiomi francese ed inglese, cominciò a dare lezioni private di tali lingue, ma nello stesso tempo continuò a collaborare con i giornali letterari La Galleria del SecoloIl Sibilo, L’interprete, Il Salvator Rosa.

   L’orologio della sua mente fu caricato: la locomotiva della sua immaginazione fu spinta a tutto vapore, e non si fermò che dopo cinquant’anni, senza una giornata di tregua, un’ora di riposo, un minuto di respiro.

   In mezzo secolo di lavoro Francesco Mastriani ha dato alle stampe 105 romanzi, 263 tra novelle e racconti, 248 articoli diversi, 49 poesie tra serie e giocose, 40 tra commedie, drammi e farse e poi conferenze, dissertazioni discorsi funebri ed accademici per un totale di circa NOVECENTO lavori.

   Due giorni prima di esalare l’ultimo respiro, Francesco Mastriani, dolente per l’estrema debolezza in cui era caduto il suo povero corpo, pronunziò queste parole: «se avessi le membra forti e vegete come ho la testa in questo momento abbozzerei altri dieci romanzi!».

    Nel romanzo La poltrona del diavolo è interessante il seguente pensiero di Mastriani sul suo metodo nel raccontare gli avvenimenti dei suoi lavori:

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   «Ci corre ormai il debito di rischiarare i nostri lettori su tutti gli straordinarii avvenimenti che abbiamo svolti nelle tre parti precedenti di questo racconto, e segnatamente per ciò che riguarda la improvvisa riapparizione dello estinto Federico Marcelli. Giovandoci di tutti gli elementi immaginosi che ci offre il nostro racconto, non presumiamo che i nostri personaggi facciano di qui miracoli che fanno la guerra la buon senso. Ci piace nelle nostre narrazioni attenerci al naturale, al vero. Servendoci degli elementi storici che troviamo nelle cronache del nostro paese, e colorandoli col pennello della immaginazione nello interesse della morale e della civiltà, non ci sbizzarriremmo nel campo fantastico che nei limiti assegnati dalla ragione».[4] 

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   Nel 1840 tentò il lavoro drammatico, e in collaborazione con un suo amico Francesco Rubino scrisse un dramma Vito Bergamaschi che il 25 agosto di quell’anno fu rappresentato per la prima volta con enorme successo al Teatro dei Fiorentini e nel gennaio dell’anno seguente ne scrissero un altro, Biancolelli, che pure fu rappresentato con successo. Il padre Filippo, vista la straordinaria inclinazione del figlio per i lavori dell’ immaginazione e delle scene gli consigliò di abbandonare il suo impiego presso la Società Industriale Partenopea, per dedicarsi anima e corpo ai lavori dell’ ingegno, e Francesco non se lo fece ripetere due volte, ed ebbro di gioia si liberò dai legami dell’impiego per dare ampio sfogo alla prepotente passione che gli ardeva le vene. Diventò collaboratore dei giornali letterari L’InnominatoLa TolettaIl Proscenio e Il Narratore. Ma poi tornò ad impiegarsi presso la Società Industriale Partenopea che gli aumentò lo stipendio a ducati 9. Nel 1842, dopo la morte del padre traslocarono dalla casa in cui era nato e si trasferirono alla Salita Infrascata 211, dove continuò a vivere con gli altri fratelli, tra cui Gennaro ammogliato, e le sorelle.

   Nel luglio di quell’anno 1842, andò a far visita al cugino Raffaele, e rivide la costui figliuola Concetta Mastriani, i due si innamorarono. Francesco chiese al cugino la mano di sua figlia, la domanda fu accettata con entusiasmo e il 4 agosto del 1844 venne data parola di matrimonio e nell’ottobre dello stesso anno fu celebrato il matrimonio, tra Francesco Mastriani e Concetta Mastriani Non fu questo l’unico matrimonio consanguineo nella prosapia Mastriani; anche il padre di Francesco, Filippo, sposò una cugina di secondo grado. E il figlio di Francesco, Filippo sposò Chiara, la figlia di suo zio Giuseppe Mastriani. Francesco andò ad abitare nella casa del suocero-cugino alla Salita Pontecorvo n° 54.

   Essendosi cresciuto il numero dei suoi allievi, lasciò di nuovo l’impiego presso la Società Industriale Partenopea per darsi interamente alla professione di maestro di lingue estere.

   Il 27 aprile del 1846 Concetta mise al mondo una bambina a cui fu dato il nome di Sofia.

   Nel gennaio del 1847 fu impiegato presso la direzione del quotidiano Il Tempo, con lo stipendio mensile di ducati 30 e fu adibito specialmente alla traduzione dal francese e dall’ inglese. Per essere più libero e indipendente si separò dal suocero e andò ad abitare con la sua famigliola nella Strada Teatro Nuovo n° 54, ma in seguito ad una nuova gravidanza di Concetta, su insistenza della suocera, tornò nella loro casa alla Salita Pontecorvo.

   La fantasia e l’immaginazione di Francesco Mastriani non spaziavano abbastanza nei ristretti confini della novella e del racconto, così in quell’anno 1847 cominciò a scrivere il suo primo romanzo Sotto altro cielo, che vide la luce nell’anno seguente 1848, e nel novembre di quello stesso anno, Concetta mise al mondo Filippo. Il Tempo gli aumentò lo stipendio a ducati 35, ma lui continuava a collaborare con altri giornali, tra i quali Il lume a gas, che fu poi chiamato semplicemente Il gas.

   Essendo cresciuta la famiglia, lasciò la casetta al Teatro Nuovo perché troppo piccola ed andò ad abitare alla Salita Tarsia n° 18, e in quest’abitazione cominciò a scrivere il suo romanzo più famoso La cieca di Sorrento.

   Nell’aprile del 1850, il direttore de Il Tempo, soddisfatto dell’opera che prestava nel giornale, gli aumentò lo stipendio a ducati 40 e nell’ottobre dello stesso anno la direzione del giornale venne affidata allo stesso Mastriani, con un compenso mensile di 45 ducati.

   Purtroppo nel dicembre di quello stesso anno 1850 la pubblicazione del giornale cessò completamente. Cominciarono le ristrettezze economiche, dovute pure alla famiglia che aumentava. La vita di Francesco Mastriani fu da allora un continuo sacrificio:

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   «Lottò sempre contro l’avverso destino e con la costante fatalità che ha sempre perseguitato tutti i Mastriani».

   «Ebbe ingegno vivace e colto, comune a tutti i Mastriani la costante avversità di fortuna»

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   Nelle due precedenti citazioni Filippo faceva riferimento a suo padre Francesco e al fratello Edmondo. È probabile che lo stesso Filippo non ebbe una vita facile «Dov’era una sventura là correva Filippo, in una parola fu buono ed il Signore gli fece la grazia di una morte rassegnatissima nonostante che lasciasse cinque figli senza pane e senza tetto». Così scrisse di lui la figlia Sofia il 7 febbraio  1925. [5]

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   «Se Dio mi concederà agio e salute di scrivere le mie Memorie, dirò cose della mia vita che parranno il più maraviglioso romanzo ch’io abbia mai scritto. Nessuno scrittore fu più operoso di me; come nissuno ebbe a lottare con più costante avversità di fortuna. Se la simpatia de’ miei concittadini fu largo compenso alle mie sudate fatiche, non fu pertanto meno penoso il calvario, in cui mi lasciarono quelli che aveano l’obbligo di ricordarsi di me». [6]

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   Nel gennaio del 1851 dal direttore di polizia, il terribile Gaetano Peccheneda, fu nominato compilatore del Giornale delle due Sicilie e del giornale Ministeriale L’ordine. Non gli fu assegnato alcun compenso in principio! Dopo circa tre mesi ricevette una gratificazione di 30 ducati. Questa nuova occupazione gli rubava gran parte del suo tempo, ma non lo distoglieva dai suoi lavori prediletti e verso il maggio di quell’anno 1851 terminò il suo capolavoro La cieca di Sorrento. Questo romanzo venne drammatizzato dal De Lise e fu rappresentato al Teatro Fenice per 123 serate di seguito. Nel seguente mese di giugno Concetta si sgravò di un terzo figlio a cui fu dato il nome di Edmondo.

   I successivi romanzi Il mio cadavere (che in seguito è stato definito il primo romanzo giallo della letteratura italiana) e il suo seguito Federico Lennoisebbero diverse ristampe, anche in altre città d’Italia.

   Nell’ottobre dell’anno 1853 le ristrettezze economiche aumentarono perché la famiglia si accrebbe di un’altra testa, un maschio al quale fu dato il nome di Adolfo. Per sopperire ai bisogni della famiglia, nel dicembre di quell’anno chiese ed ottenne di fare un esame col prof. Palmieri per essere facoltato a dare lezioni private. Fece anche l’esame di catechismo per essere facoltato a dare lezioni e nel febbraio del 1854, S.M. il re con Real Rescritto consentì che egli tenesse scuola privata di lingua inglese.

   Nel 1854 ci fu un’altra invasione colerica a Napoli, in quel periodo gli cominciò una malattia viscerale. Nell’ agosto di quell’anno fu chiamato dal principe di Ottaiano ad assisterlo negli affari del Supremo Magistrato della Salute. Seguitando la sua terribile malattia, i medici gli consigliarono di cambiare aria e così nell’ottobre di quell’anno ritornò nella casa del suocero con tutta la famiglia. In quel periodo la fortuna fu per arridergli, ma non ne seppe approfittare; anche a causa della dissuasione dei parenti, rifiutò un impiego presso la casa editrice dei Rothschild di Parigi. Nel mese di dicembre fecero ritorno nella loro casa a Santa Teresella degli Spagnuoli, ma ai principi dell’anno 1855, Concetta infermò gravemente, per cui fecero ritorno dal suocero. Il 7 febbraio ricevette dalla cassa del Ministero il primo stipendio di ducati 12, relativo al mese del gennaio precedente, dietro vive premure del Direttore Orazio Mazza, che mal tollerava che uomini d’ingegno, che facevano parte della redazione del Giornale Ufficiale delle due Sicilie, prestassero la loro opera al governo senza alcuna retribuzione, che in seguito fu portata a ducati 15. Le molte occupazioni e le cure della famiglia non gli fecero dimenticare la passione per le lingue, e nel 1856, sempre senza maestri cominciò a studiare l’idioma portoghese. Nel maggio del 1857 il figlio più piccolo, Adolfo, si ammalò gravemente e spirò il 18 maggio di quel mese nella tenera età di tre anni e sette mesi, e dopo solo 7 giorni d’infermità. E con la morte nell’anima, con le lagrime che gli affluivano sul ciglio, continuava a lavorare. La sua vita si può riassumere in due prepotenti affetti, il lavoro e la famiglia .

   Continuando sempre a far parte della redazione del Giornale delle due Sicilie, dal primo ottobre 1858, fu incaricato dal Ministero della Polizia Generale della revisione di vari fogli letterari; e nel mese di luglio  del 1859, dal ministro degli interni e Polizia Generale, Liborio Romano, sempre in qualità di compilatore del giornale ufficiale, gli venne aumentato lo stipendio a ducati 25. Il 4 settembre del 1860 si allontanò dalla sua famiglia per indossare la divisa di guardia nazionale, fedele al suo principio che prima di essere marito e padre è cittadino e che ama la patria con lo stesso tenerissimo amore onde ama la propria famiglia «… e sono felice se, dopo avere ad essa consacrata venti anni di studii e di letterarii lavori, io possa rischiare per essa la vita».

   Nell’aprile dell’anno 1861 essendo l’unica figlioletta di suo fratello Gennaro gravemente inferma e bisognosa di cambiamento d’aria, lo zio Francesco gli offrì la sua casa e nello stesso mese lui e a sua famiglia si stabilirono di nuovo dal suocero che abitava in Via san Mandato n° 78.

   Il 1° maggio 1862 cessò la compilazione governativa del Giornale di Napoli, ed egli rimase aggregato alla stamperia Nazionale, e il 24 settembre fu collocato in aspettativa insieme agli altri impiegati dell’ex Giornale di Napoli, con l’intero stipendio, e nel luglio del 1863 fu messo in disponibilità insieme ai suoi colleghi compilatori dell’ex Giornale delle due Sicilie.

   Al 4 maggio del 1864 con la sua famiglia andò ad abitare al Largo Petroni alla Salute n° 7. Nell’ottobre di quell’anno terminò il suo quindicesimo e importante lavoro I Vermi,  opera storica sociale che fu tradotta pure in francese e che fu in seguito considerata la prima opera della trilogia socialista, di cui fecero parte anche Le Ombre (1868) e I misteri di Napoli (1869-70).

   Nel 1865 cominciò per Mastriani la terribile malattia genito-urinaria, che unitamente alla bronchite cronica e il catarro intestinale, lo accompagnarono fino alla morte.

   Il 17 aprile 1865 ebbe una straordinaria provvidenza che diede un certo assetto alle sue finanze e che lo fecero respirare più liberamente per qualche mese. Ricevette dal Ministero dell’Interno, a titolo di ultimo compenso, per aver rinunziato ai diritti come impiegato di disponibilità, la somma di L.1142,20, corrispondente ad un’annata di stipendio, netta di trattenute. Il 4 maggio, passato con la sua famiglia ad abitare al Vico Nocelle, la sua malattia urinaria si ringagliardì. Nell’agosto di quello stesso anno 1865, fu nominato Direttore del foglio in 5 lingue intitolato Pubblicità Universale. Ma la vita di questo giornale durò appena un mese. Lo stato economico di Francesco Mastriani in quell’anno fu disastroso, tanto che il giorno 16 settembre 1865 scrisse in un libricino in cui segnava tutte le date memorabili della sua vita, le terribili parole: Privazioni, debiti, miseria, FAME!

   Nel 4 maggio del 1866 cominciò a dettare lezioni di letteratura, di storia e di geografia alla 1ª e 2ª classe ginnasiale del 3° Real Educandato Principessa Margherita. Occupazione che durò pochi mesi, dacché egli fu chiamato a quel posto temporaneamente a sostituire il fratello Giuseppe che era infermo.

   Nello stesso anno 1866, l’11 novembre, cominciò a pubblicare un giornale settimanale, col titolo La Domenica, di cui egli era l’unico scrittore. Egli scriveva l’articolo di fondo, il romanzo in appendice, la cronaca, le notizie teatrali, le biografie, i fatti vari e perfino sciarade. Ma si trattò di una breve esperienza, che si concluse il 27 ottobre 1867.

   Nel 1867 andò ad abitare alla strada Tarsia, nel Fondo Avellino. La causa principale di tali sloggiamenti continui era che il continuo lavorio in cui era la sua mente, lo rendeva intollerante a qualsiasi rumore, anche il più leggero, basta dire che certe notti gli dava noia e fastidio anche il lievissimo battito dell’orologio da tasca sospeso al suo capezzale.

   Cambiava domicilio sperando sempre di migliorare, ma spesse volte andava a peggiorare.

   Nel 1868, seguitando sempre le angosciose ristrettezze economiche, scrisse l’altro romanzo sociale Le Ombre. Questo lavoro che fu certamente uno dei suoi più importanti, e del quale furono fatte moltissime edizioni in Napoli e fuori, fu da lui scritto quasi tutto nella Tipografia di Luigi Gargiulo, sopra un tavolino con tre gambe! Scriveva tenendo l’orologio davanti, per trovarsi a tempo per le lezioni dai suoi allievi. In quel tempo abitava nell’Emiciclo a Capodimonte, nelle così dette case degli operai.

   Nel settembre del 1870 una grande gioia e un grande dolore erano riservati a Francesco Mastriani: il matrimonio della figlia Sofia e l’allontanamento di lei dalla famiglia. La separazione dall’adorata figlia fu crudele, straziante, indescrivibile. Dopo pochi mesi di matrimonio Sofia s’ammalò gravemente e l’altro figlio Edmondo cominciò a soffrire di catarro intestinale. Nuove ristrettezze ed angustie dolorose. Tutto fu pignorato.

   Nel 1874 fu nominato professore di letteratura italiana, di storia e di geografia per la 1ª classe liceale, nel ginnasio Cirillo di Aversa. Occupazione che svolse per pochi anni perché per la sua già acciaccata salute, non resisteva allo strapazzo di dover uscire di casa, anche in inverno, alle 5 del mattino per poter prendere il primo treno per trovarsi all’ora stabilita all’Istituto.

   Alla fine dell’anno 1875, altra mortale ferita al cuore del povero scrittore: la morte del figlio Edmondo dopo sei mesi di malattia, che furono per il povero narratore, sei mesi di palpiti, di trafitture quotidiane. Alle sofferenze morali si aggiunsero anche quelle fisiche, essendosi la sua malattia alla vescica terribilmente inasprita. La morte del figlio pose il suggello al deperimento di Francesco Mastriani.

   Al figlio Edmondo deceduto dedicò una breve dedica sul libro La rediviva:

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ALLA CARA MEMORIA

DEL MIO DELITTISSIMO FIGLIO EDMONDO

I CUI OCCHI BEATI

ORA VEGGONO DIO [7]

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   Nel 1876 iniziò la sua collaborazione col giornale Roma, che pubblicò il suo primo lavoro in appendice: il romanzo storico Nerone in Napoli, che fu da lui stesso drammatizzato e rappresentato con successo per molte sere al teatro Rossini.

   Dal 1876 al 1891, anno della sua morte, i suoi romanzi furono quasi tutti pubblicati sulle appendici del Roma, meno 4 o 5 che videro la luce nei giornali di Roma Il MessaggieroIl Popolo RomanoIl Capitan Fracassa. Secondo il critico d’arte e letterato Achille De Lauzières (Napoli 1818-Parigi1894) Francesco Mastriani, avrebbe pubblicato sul giornale Il Secolo di Milano, i romanzi Homuncolo e La catalettica.

   Nell’anno 1878 morì a solo 33 anni, di meningite, l’adorata sua figliuola Sofia, e non rimase che il solo Filippo dei quattro suoi figli.

   Nel 1879 le condizioni di salute di Francesco Mastriani peggiorarono. Nel 1880 morì il suocero-cugino Raffaele. Quest’ultimo, come quasi tutti i Mastriani, pubblicò diverse opere.

   Il 20 febbraio di quell’anno in occasione della morte di re Vittorio Emanuele, fu incaricato di scrivere un elogio funebre da lui stesso letto nella Chiesa dell’ Annunziata in Aversa, dove vennero celebrate le solenni esequie.

   Nell’anno 1881 passò ad abitare nella Strada Fonseca n° 80, poco discosto dal fratello Giuseppe, che in quell’ anno fu colpito da repentino male che in tre ore lo trasse al sepolcro.

   Nell’anno 1883 passò ad abitare al palazzo d’Agostino alla Sanità n° 97. In questa luogo finalmente trovò un po’ di quella tranquillità, di quel silenzio, di quella pace, tanto necessari ai suoi studi. In questa casa trascorse qualche anno meno travagliato, dacché alla solitudine del sito, alla salute migliorata, si aggiunse la vicinanza della nipotina Sofia, figlia di Filippo. In quel periodo le due famiglie vissero di nuovo insieme.

   Un’altra dolorosa pagina di Francesco Mastriani iniziò verso la fine dell’anno 1884, quando cominciò a manifestarsi un’altra sua terribile infermità, quella degli occhi. La sua vista, stanca, logorata dal continuo lavoro s’indeboliva di giorno in giorno: la cateratta si formava nei suoi occhi. Nessuna delle mille contrarietà subite nel corso della sua vita ebbero la potenza di abbattere l’ animo suo come in quel periodo durato otto nove mesi e segnatamente negli ultimi tre, che furono di perfetta cecità. Durante tale periodo dettava i suoi romanzi un po’alla moglie, un po’alla nipotina Sofia, un po’ all’amico Luigi Stellato. Venne operato il giorno 6 maggio 1885 dal professor Francesco Morano, proposto dai colleghi giornalisti del Roma. L’operazione riuscì perfettamente e al termine di essa, il medico disse con un pizzico di soddisfazione: «un calabrese restituì la vista alla Cieca di Sorrento e un calabrese la restituisce all’autore della Cieca » . Nel tempo in cui fu privo della vista, il Roma non mancò mai delle sue appendici ed iniziò pure una periodica pubblicazione col titolo Lacrime e riso.

   Dalla casa al palazzo d’Agostino andò ad abitare al principio della Salita Scudillo  n° 4. Si separò dal figlio Filippo perché la casetta prescelta non era capiente per due famiglie. Da lì passò alla via di Capodimonte e per ultimo andò ad abitare vicino la figlio nel maggio del 1889, alla Penninata San Gennaro dei Poveri n° 29.

   In questa casa non riuscì ad assuefarsi al continuo baccano che facevano dei ragazzi nel cortile dove sporgevano le sue finestre. Gli venne detto che su al Moiariello a Capodimonte c’era un grazioso quartino in luogo solitario ed ameno. Andò a vedere la casetta, gli piacque e concluse il fitto per il 4 novembre. Ma in quel sito, vuoi per il clima umido della campagna, vuoi che quell’inverno fu rigidissimo, le condizioni fisiche di Francesco Mastriani si aggravarono, all’antica malattia dei bronchi e all’altra più recente della vescica, si era aggiunto un ostinato catarro intestinale, ribelle a qualsiasi rimedio. Nel maggio del 1890 fece ritorno nella casa alla Penninata di San Gennaro dei Poveri. Il più dei giorni non si alzava dal letto, e dettava alla moglie il romanzo I delitti dell’eredità, per il quale per scriverlo impiegò un anno, mentre per l’addietro in tal periodo scriveva 2 o tre romanzi.

   Nel mese di agosto gli fu proposta l’aria di Portici e grazie all’aiuto del direttore del Roma, il professor Lioy, gli fittarono in quella cittadina, un bel casinetto dove si trasferì con la moglie il 22 agosto. Quel cambiamento d’aria all’inizio gli fece bene, ma quella miglioria non fu che l’ultimo guizzo di luce di una lampada che sta per spegnersi, e il 5 ottobre di quell’anno 1890 fece ritorno a San Gennaro dei Poveri, e dal 15 dicembre non poté più lasciare il letto. Il 3 gennaio del 1891 dietro sua richiesta ricevette i santi sacramenti. Il 5 gennaio alle 20 entrò in agonia. Mancavano dieci minuti per la mezzanotte di quel triste e piovoso giorno 5 gennaio allorché l’anima benedetta di Francesco Mastriani volò in grembo al Signore.

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                              ROSARIO MASTRIANI

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[1]  FILIPPO MASTRIANI, Cenni sulla vita e sugli scritti di Francesco Mastriani, Napoli, L. Gargiulo, 1891.

[2] FRANCESCO MASTRIANI, Eufemia, Napoli, L. Gargiulo, 1868 Cap. XXII. p. 198.

[3] FRANCESCO MASTRIANI, Angiolina, Napoli, Tipografia dell’Industria 1859. «Prolusione» p. 10.

[4] FRANCESCO MASTRIANI, Il figlio del diavolo, Napoli, G. Salvati, senza anno, Parte Quarta, cap.I «Barabba» p.133

[5] Manoscritto conservato la Sez. Lucchesi-Palli della Biblioteca Nazionale di Napoli.

[6] FRANCESCO MASTRIANI, La rediviva. Napoli, G. Regina, 1877. Vol. III cap. XVIII p. 27.

[7] Ibidem