FRAMENTO. D’UN DISCORSO SULL’ALLATTAMENTO MATERNO

 

 

                                                            Quod est enm hoc contra

                                               naturam imperfectum, aique

                                               dimidiatum matris genus,

                                               peperisse, ac statim ab sese

                                               abjecisse?

                                                                AULO GELLIO. LIB. XII. CAP.I

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   Oh il tenero spettacolo che presenta una madre, che allatta il suo pargoletto! Oh la piena de’ giocondi affetti, che ne desta il cuore!

   In quell’atto si dimenticano i falli tutti d’una donna; la si risguarda come un essere sacro; la stessa maldicenza non oserebbe in quell’istante addentarla; ed il più impudente giovinastro torcerebbe da essa dispettoso lo sguardo profanar non volendo d’un pensiero che casto non fosse l’atto più augusto, onde abbellir puossi una donna.

   Eppure quanto raro è addivenuto questo spettacolo nei nostri giorni! Un abuso inveterato, un ostinato pregiudizio dell’alta classe sociale, una malintesa libertà di vita, un barbaro amor proprio, ed una smodata civetteria, luttano tuttora contro le grida di tanti secoli e di tanti popoli, contro la più imperiosa legge di natura, e contro i lumi sempre crescenti d’una semplice e natural filosofia.

   Basta egli mai l’aver generato un figliuolo, perché una donna dir si possa madre? E il capriccio d’una sventata, un momento di debolezza, od una stupida sbadataggine, costituiranno il più sacro carattere di natura? Basta egli per dirsi madre l’aver cacciato fuora un uomo, come la terra una pianta? Ma la terra alimenta i suoi prodotti e non li lascia in balia d’una straniera nutrice.

   In questo secolo, in cui l’educazione è un uso, tostochè il fanciullo alle prime aure di vita vien tratto è dalla madre respinto, e posto nelle braccia d’una donna straniera, la quale abbandona sovente la sua famigliola per vendere un latte, ch’ella ha rapito a’ suoi stessi figliuoli. E una siffatta donna potrà esser mai temperante e pudica! Quante volte, dopo smodati esercizi, darà ella a poppare al fanciullo un latte acro e corrotto? Quante volte sfinita dagli eccessi d’una sregolata intemperanza, abbandonando le orgie d’un banchetto, porgerà ella al tenero bambino una poppa carica d’un principio venefico, anzi che d’un fluido nutritivo? Quante volte dalla fama del guadagno portata, nudrendo ella molti fanciulli, sarà obbligata di opprimere il delicato stomaco d’alcuno di loro di panate indigeste? Quante volte non l’agiterà ella violentemente nella cuna per soffocar le sue grida importune, ed agitando a segno il molle tessuto nervoso di lui da disporlo in seguito ad epilettiche convulsioni? E chi può tutt’i disordini numerare, di cui l’ignoranza, o la prava indole delle nutrici esser possono cagione? Uno però de’ più grandi inconvenienti è forse ancora il troppo amore delle nutrici a’ fanciulletti loro affidati. Ben diceva il filosofo ginevrino La ou j’ai trouvè les moins d’una meme je dois l’attaccament d’un file. Quel purissimo amor filiale, il più dolce infra gli umani sentimenti non sarà tutto alla madre rivolto; un istinto imperioso ci porta ad amare coloro che presero cura della nostra fanciullezza; ed in tal caso, vediamo se il fanciullo amerà la madre o la nutrice? Qual è per lui la madre. Forse colei che lo defraudò delle sue ineffabili carezze?

   Ma quella donna che riscusò il suo seno al suo figliolino senza una giusta ragione ben presto sentirà i tristi effetti d’un tanto colpevole abbandono.

   Madri snaturate, che affidate alle cure di mercenarie nuttrici il primo indispensabile dovere, che la natura v’impone, non crediate che immuni andrete dal vostro fanatico errore.

   Ben tosto il disamore dei vostri figliuoli, la diversa indole di costoro, e le molte infermità cui andranno eglino soggetti, l’indifferenza de’ vostri consorti, il disprezzo degli uomini saggi, e finalmente il vostro stesso fisico e moral decadimento faranvi accorte, che la natura non lascia mica impunita la trascuranza delle inviolabili sue leggi.

                                                                                                   Francesco Mastriani

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   Fu pubblicato sul giornale La Formica il 20 maggio 1845