FRANCESCO MASTRIANI: UN GRANDE SCRITTORE DAL PASSATO AL FUTURO

   È destino dei personaggi più prestigiosi e famosi, in questo caso Francesco Mastriani, essere continuamente rivisitati nella centralità ed essenza delle loro opere (in questo caso nella sua vastità di scrittore poligrafo), ma anche nella “periferia” di esse o negli spazi meno appariscenti della rispettiva esistenza: per valutarne peso e modernità, ma anche per verificare che non sia soltanto un azzardo instaurare “somiglianze” e, perché no, virtuali “affinità elettive”.

   Da Recanati a Napoli

   Un puro “divertissement” intellettuale allora, e senza mancare di rispetto a nessuno dei due, accostare Francesco Mastriani e Giacomo Leopardi? I dati culturali e anagrafici li indicano oggettivamente “distinti e distanti”. Quando Mastriani nasce a Napoli (23 novembre 1819 sui Quartieri spagnoli), Leopardi (nato nel 1798 a Recanati) ha 21 anni e vive, quasi da prigioniero, nel “selvaggio natio borgo” maceratese: il soggiorno napoletano avverrà pochi anni prima  della morte (1837) grazie al “sodalizio” creatosi con il “fraterno amico” partenopeo Antonio Ranieri.

   Quando Leopardi chiude (vico Pero alla salita santa Teresa degli Scalzi) la sua stentata esistenza, Mastriani ha appena 18 anni: difficile pensare che, per quanto spiccata fosse la sua precoce sensibilità letteraria e creativa, abbia minimamente potuto sentir parlare del “poeta dell’Infinito”. E dai suoi 18 anni in poi? Mastriani vivrà fino al 7 gennaio 1891.

   Sarebbe interessante scoprire, da una ricerca accurata di tipo storico-semantico-filologico, che pur senza contatti diretti o risonanze specifiche qualcosa di leopardiano si sia “insinuato” nella vastissima, e perfino sterminata, produzione mastrianea.

   Vite opposte ma non troppo

   Può risultare, invece, una interessante curiosità scoprire “involontarie analogie” dovute ai casi della vita. Leopardi nasce in una famiglia nobile e facoltosa. Ma la madre è severissima, molto poco affettiva. Il padre pensa solo, per il figlio, a un’educazione severa di stampo clericale-conservatore. Il giovane Giacomo ha di che soffrire. La biblioteca di famiglia è un rifugio. Vi entra e, come dice Francesco De Sanctis, ne esce “cittadino del mondo”. Mastriani, al contrario, nasce sì in una famiglia agiata, ma subito deve vedersela da solo e per la sua formazione può contare esclusivamente sugli “scaffali” di un istituto religioso. Per Giacomo la biblioteca è studio, molto erudito “matto e disperatissimo”.

   Per Francesco è conoscenza dei vicoli, fondaci e bassi di una città che si dispera per la sopravvivenza. Alla sua morte Giovanni Bovio dirà “aveva visitato i tuguri e il popolo si riconosceva in lui”.

   Mondo antico e moderno.

   In comune la passione per le lingue, la civiltà e le forme di scrittura. Leopardi si concentra, da specialista, sul mondo antico, prevalentemente greco-romano. A 15 anni si muoveva già a suo agio tra ebraico, lingue classiche e moderne fino a praticarne sette. Francesco predilige la contemporanea linguistica europea; impara francese, inglese, spagnolo e tedesco. Tutti e due, però, più che con la didattica ufficiale del tempo, si formano sulla base di una forte propensione all’autodidattismo. Ognuno verifica, in piena autonomia non priva di orgoglio e con notevole sacrificio, attitudini e vocazione.

   Diffusa incomprensione

   Li accomuna la distanza dai pedanti ambienti intellettuali che prevalgono e fanno il bello e il cattivo tempo. A Napoli, dal giorno che vi arriva (a partire dal 1833-34), Leopardi è, pubblicamente, addirittura oggetto di scherno, guardato con sufficienza da chi era ben inserito nel potere dei giornali e delle case editrici. Mastriani non ha voluto mai integrarsi né nella cultura borbonica né in quella postunitaria, pagando così a caro prezzo la sua dignitosa e ferma equidistanza (Benedetto Croce: “Ebbe come lettori tutta Napoli, all’infuori della gente letterata”).

   Pessimismi diversi

   Breve la vita per Leopardi (39 anni), più lunga per Mastriani (72). Entrambi non possono non avercela con la natura (“matrigna che non rende poi quel che promette prima” per Giacomo); struttura e condizione geografico-sociale “che condanna alla miseria incolpevoli strati popolari” per Mastriani.

   Pessimismo filosofico-cosmico e dolore universale per Giacomo; ribellione antropologica e umana, che si esprima con voce narrativa dolente e partecipativamente accorata per Francesco.

   I caffè dell’amicizia

   C’è qualcosa, tra privato e pubblico, che fa un po’ sorridere e che, a distanza, accomuna i due: il gelato. Leopardi ne è smodato, nevrotico consumatore, Mastriani – mentre sosta ai caffè Italia e Aciniello – anche abile descrittore. Di Leopardi un testimone ha raccontato che “una sera di ottobre del 1835”, alle due di notte, entra nel “poco elegante” caffè De Angelis in via Toledo.

   Mentre chiede un gelato, sente un forte mormorio interrotto da risate. Seduto sul divano c’è un uomo “molto piccolo di statura, mal conformato, con la testa grande, magro, pallido” che con avidità “divora tre gelati messi uno sull’altro, a piramide”.

   Da qui la grande ilarità che finisce solo quando entra di corsa Antonio Ranieri. Il fraterno amico, concitato dice ad alta voce: “Ma sapete, voi, che colui che state deridendo è il grande poeta Giacomo Leopardi?”. Allora tutti zitti.

   Mastriani, invece, con tono compiaciuto e ironico, chiede ai suoi lettori: “Credete forse che i gelati, i sorbetti e le limonate siano dolcezze ignote al monello e al lazzarone? V’ingannate”. Il gelataio-sorbettiere, scrive, è il “rinfrescatore dell’umanità lazzaresca” che sceglie le ore canicolari, la controra, e talvolta il mattino.

   I suoi campi di spaccio son il Largo della Carità, il Largo del Castello, il Largo del Mercatello ed altri larghi e piazze, “abbenchè non raramente s’incontra sopra i cosiddetti quartieri ov’egli gode fama e credito estesi”.

   Giornali e libri come destino

   Mastriani un “martire della penna”. Così lo classifica Matilde Serao. Lo vede costretto a scrivere molto per sostenere sé stesso e un nucleo familiare oggettivamente di peso. La via che gli consente di buttar giù pagine in continuazione, come una fontana che non ha chiave di arresto, è quella dei feuilleton: i romanzi di appendice che consentono di essere sciolti nella scrittura, estemporanei e “fluviali”, senza pesantezze erudite e giri vorticosi di parole. La trama si sviluppa secondo le pulsioni quotidiane e un’attenzione costante agli strati più marginali e subalterni in una città come Napoli dove (avrebbe detto Montesquieu) “in tanti non hanno niente e il popolo è ben più popolo che altrove”. La sua scrittura diventa documento di come la stessa “nuda sopravvivenza” diventi una faticosa conquista.

   Dal feuilleton alla fiction

   A Napoli, per tutta la seconda parte dell’Ottocento, è soprattutto il “Roma” che, specie la domenica, pubblica gli scritti a fondo pagina dando appuntamento alle puntate successive. Mastriani (e anche la Serao) fa quello che con altri giornali sono impegnati a fare scrittori come Salgari, De Marchi, Collodi, Guido da Verona, Carolina Invernizio. Nessun turbamento per nessuno se, nell’arco dell’800 (i manuali di Storia della Letteratura ne sono pieni), il romanzo d’appendice non smette di essere “preda ambita di giornali e lettori”.

   Del resto il genere “appendicista” aveva successo in tutta Europa dopo che Louis-Francoise Bertin l’ebbe “inventato”. Popolare in Francia (Balzac, Hugo, Sue, Gautier, Dumas padre, Flaubert, Zola) in Inghilterra e in America (Poe), in Russia (Tolstoi, Dostoevskij). Con il secondo Novecento, il romanzo d’appendice cede il passo a cinema, foto e teleromanzi, fiction e soap opere.

   Piena immedesimazione

   Un filone, quello della “scrittura popolare” (ma mai populista), che non ha impedito, a chi ne faceva uso, di rivelare la propria cifra narrativa e il retroterra socio-culturale che la sostanziava. Tra naturalismo e verismo, tonalità più aspre o più attenuate dall’incalzante romanticismo (alto o basso), Mastriani manifesta con chiarezza la propria scelta: dalla realtà delle sofferenze quotidiane non si prescinde e non vi si sfugge. Scatta invece una partecipazione emotiva e passionale che arriva perfino a somatizzare inquietudini  e sofferenze.

   Per le fasce popolari più colpite questa realtà non può essere un tunnel senza uscita. C’è fiducia nelle istituzioni – pur vistosamente carenti di volontà e di immedesimazione, spesso oggetto di dure critiche – ma soprattutto si confida nell’opera salvifica della scuola, dell’istruzione e della cultura, nel recupero dei valori legati alla ricomposizione delle famiglie finalmente liberate dall’assedio dei bisogni (“lasciate che il popolo si istruisca, lasciate che s’informi dei suoi diritti e dei suoi doveri e Napoli davvero si alzerà a livello delle più civili sorelle italiane”).

   Sempre presente a se stesso

   Abbia scelto come forma espressiva un filone culturale o un altro, Mastriani “sfugge a ogni scolastica omologazione” (Francesco d’Episcopo). È sempre fedele e coerente – più per vocazione umanitaria che per ideologia – con sé stesso. E questo è il filo conduttore del suo piccolo, grande universo creativo, ben visibile tanto nella produzione meno famosa quanto in quella che gli ha dato notorietà: dalla “Cieca di Sorrento” alla “Medea di Porta Medina”, alla “trilogia socialista” che è un articolato romanzo sociale.

   Qui lo scrittore si avvale di un retroterra fatto di studi storici e sociologici, nella visione di un socialismo che non ha come obiettivo la lotta di classe, ma la rappresentazione oggettiva e partecipe di quelle condizioni ambientali napoletane in cui “è la vita che manca alla vita”.

   Con questo spirito nascono “I vermi” (Studi storici sulle classi pericolose di Napoli); “Le Ombre” (Lavoro e miserie sullo sfruttamento delle donne); “I misteri di Napoli” (Studi storico-sociali): tutti ambienti in cui si agitavano “le classi inferiori” e dove la miseria e la colpa (lo rilevava bene il meridionalista irpino-napoletano Pasquale Stanislao Mancini nel 1878 ministro della Giustizia) “reclutavano numerose legioni di vittime”. Mastriani non era cattolico praticante. Il suo socialismo di impronta cristiana sembrava connettersi più a Gesù della storia che a quello della fede.

   Molti conti da saldare

   La storia della letteratura italiana, in particolare la critica, non ha ancora sciolto tutti i nodi (e i debiti) riguardanti la figura di Mastriani. Sospeso il giudizio di Francesco De Sanctis (non ha visto in lui un fiancheggiatore dell’unità d’Italia per cui in certe pagine sembra freddo e in altre ne apprezza la scioltezza narrativa?). Dichiaratamente favorevoli sia Matilde Serao (quanto deve a lui per il suo “Ventre di Napoli”?) che Benedetto Croce (sempre pronto ad applicare il metodo delle “distinzioni”: una cosa la classificazione di un’opera, altra il valore contenutistico che gli appare fuori discussione.

   Uno studio da completare riguarda, invece – accanto a quelli sugli autori, italiani e non, presenti nella formazione di Mastriani – gli scrittori che dalla sua opera hanno tratto motivi di riflessione e di ispirazione. Come dire: ci sono eredi? A parte Salvatore Di Giacomo (si pensi ad “Assunta Spina” oppure ai sonetti del “Funnaco verde” con tutti quei vicoli-scarrafunere privi di luce e di aria). Vicino al mondo di Mastriani, e per certi aspetti suo “continuatore”, è certamente Domenico Rea che con il romanzo “Ninfa plebea” ‒ la ragazza che, nonostante violenze e abusi subiti, non ha perso innocenza e “verginale” dignità – ha conquistato il Premio Strega.

   Un pensiero, sul piano della continuità dei temi trattati da Mastriani, incrocia inevitabilmente anche Pirandello e il mondo di Eduardo De Filippo diventando laboratorio inesauribile per altri scrittori nostri contemporanei.

   Napoli luogo e missione

   Mastriani dalla vita povera stentata? Certamente sì. Eppure apprezzamenti “monetari” non gli sono mancati. Ha 25 anni quando il direttore de “Il Sibilo” gli scrive che, volendo potenziare il giornale, lo invita a continuare la sua collaborazione che “sarà meglio compensata”. Certo, erano tempi in cui difficilmente “litterae caban panem”, specie per chi non era integrato e non era disposto a barattare la propria autonomia di giudizio e di visione delle cose.

   Mastriani aveva fatto una scelta che lo portava naturalmente in rotta di collisione con il sistema dominante. Quasi con “fatale accettazione” ne subiva le conseguenze. Così come per l’impossibilità di andare via da Napoli: al Nord avrebbe avuto sicuramente maggiore fortuna; a Parigi, dove pure era stato richiesto, avrebbe aggiunto il suo nome a quello dei grandi scrittori che avevano narrato i misteri e i bassifondi ai piedi della Torre Eiffel. Ma il suo destino era quello di dover rimanere a Napoli come oggi accade ancora a tanti giovani che, pur molto dotati di cultura e capacità, non possono mettersi compiutamente alla prova trasferendosi altrove.

   Questioni per “grandi”

   “Il mio destino è scrivere sempre sempre”, diceva di sé Matilde Serao. Quanto più questo destino è stato di Mastriani “Scriveva anche da moribondo”, si è detto. I numeri fanno rabbrividire: 900 lavori che contengono tutto: romanzi e racconti, poesie e commedie, tragedie e saggi storico-eruditi. In 72 anni di vita, oltre 50 di lavoro estenuante e ininterrotto, per necessità ma anche per vocazione. Ai più prestigiosi e poligrafi scrittore succede anche questo, che il proprio nome diventi “una questione”. Così esiste una questione “omerica” e una “shakespeariana”, insinuando il dubbio che un solo autore possa aver prodotto tutto quello che va sotto il nome di Omero o di Shakespeare. Una “questione” di questo tipo anche per Francesco Mastriani? Sicuramente no. Ma il fatto stesso do poterlo pensare, rende bene l’idea dell’ampiezza e della profondità di uno scrittore di grande attualità che ricostruisce il passato e che ci proietta nel futuro.

   Discendenti ammirevoli

   Dalla costituzione del “Comitato per il bicentenario della nascita” ad oggi, tante manifestazioni sono servite per rivisitare la figura di Francesco Mastriani e riproporlo come caposaldo della letteratura, non solo napoletana o “regionale”, dall’Ottocento in poi. Merito dei suoi “nuovi discendenti” come Emilio che, lungo il familiare e frondoso albero genealogico, hanno sentito forte il richiamo dell’illustre “antenato” quasi rivivendone, oggi, profondamente il respiro.

                                                ERMANNO CORSI