IL CENCIAIUOLO

   L’uomo nasce vestito: invito tutti i filosofi ed economisti a meditar meco su questo altissimo e importante subbietto. L’uomo adunque, innanzi di essere abbandonato alle cure materne, è abbandonato a’CENCI. È questo, direm quasi, il primo bisogno che sente l’uomo non sì tosto messo il capo in questo mondo, per cominciare, secondo il Leopardi,

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  Quell’affannoso e travagliato sogno

Che vita nomiamo.

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     I CENCI s’impossessano dell’uomo insin dal momento che vien fuora dal sen materno e non l’abbandonano mai più, neanche quando lascia la felice notte a’parenti e agli amici per andare a dormire l’eterno sonno.

   I bambini sono abbandonati alle pezze, in cui si ravvolgono come piccole mummie. Le pezze sono il primo tormento, la prima angustia, la prima di quella interminabile schiera di grandi e piccole miserie, compagne inseparabili della vita umana. L’uomo futuro, il cittadino in erba, il candidato alla vita è stretto, pigiato, premuto, soffocato nelle pezze bianche, ne’topponcini, ne’pezzini, nelle fasce: egli è un batuffolo di panni che grida, succhia e fa colori naturali.

   Fatto più grandetto, cessa la prigione delle fasce e comincia la tirannia delle camicine, del gonnellino. Ecco l’età di quell’altra tortura infantile, a cui l’impero de’ cenci sottopone l’uomo, vale dire, la tortura delle falde, per le quali il bambino viene sostenuto dalle madri o dalle balie quando comincia a dar passi falsi.

   Arriva poscia l’età in cui l’uomo è consegnato di peso in mano ai sarti. Ma pria di toccare di questi despoti della moda e della loro classe in Napoli, ne piace tessere brevemente la storia del primo vestimento che indossa l’uomo, la camicia. Formerà questo un importante episodio della fisiologia del cenciaiuolo, di cui abbiamo tolto a parlare. Si sono scritte tante belle cose sulla cravatta bianca, sulla calzetta di seta, e financo sulla spilla, tratto d’unione d’ogni acconciatura, che non dovrà parer molto strano che io scarabocchi milensamente due ciance sulla camicia in un tempo in cui tutte le vive immaginazioni de’creatori della moda sono rivolte verso questi piccoli e fini tessuti di subalterno vestimento. Che sì che la camicia debbe avere il suo posto d’onore tra gli articoli di mode, anzi le si dovrebbe a rigore assegnare il primo posto, sendo essa il primo vestito che l’uomo indossi. Voglio prender però la cosa ab ovo, e schiccherare qualche cosarella di dottrina su questa pudica Vestale.

   La parola camicia viene dal latino o dallo spagnuolo cama (letto), perché, come sapete, è la sola cosa che si tiene addosso quando si va a letto, tranne alcuni casi di eccezione. Non sapremmo dirvi da chi fu inventata, ma egli è certo che i Romani e i Greci non la conoscevano: era loro però necessaria la frequenza de’bagni per nettarsi dalle immondizie che soglionsi apprendere a quelle parti del corpo più spesso esposte al contatto dell’aria.

   L’invenzione della Camicia par che debba rimontare a’principi del decimo terzo secolo. Le prime camice furono di saio, e quelle che servivano alla consacrazione de’re di Francia erano di seta aperte e guarnite di cordoni. Pare che la camicia di lino non fosse ancora introdotta al ‘400, perché sappiamo che soltanto la moglie di Carlo III ne avea due di questa stoffa. Nel medio evo si chiamava camicia una specie di vesta di lino a maniche corte.

   Sotto Errico IV e suo figlio Luigi XIII di Francia la camicia diventò importante, e, laddove per lo innanzi la vita di questo vestito era stata oscura e vergognosa, sotto i raffinés cominciò a mostrarsi nel suo vero splendore. I bellimbusti di que’tempi usavano di farla uscir dal pourpoint (corpetto), tra quest’abito e l’haut-de-chausses (calzoni), formando così una specie di fascia ricca e a grandi sgonfi sul basso del petto. Da questo tempo in poi, la camicia fu veduta a poco a poco affacciarsi sulle sommità del petto e ad ornarsi di eleganti gale di merletti, secondo che l’occasione e l’uso richiedevano.

   La camicia inviluppa, circonda, ricopre i misteri della bellezza o della bruttezza corporale; essa è discreta come un’amica strettissima, come una compagna indivisibile; la sua maggiore o minore bianchezza vi dinota la posizione più o meno felice dell’individuo che la porta. Il termometro è giusto, esatto, e non isbaglia quasi mai. La finezza del suo tessuto e le gale onde la puossi abbellire costituiscono poi l’aristocrazia di questo vestito.

   I diversi modi di portare la goletta della camicia vi palesano il carattere, gli abiti e le consuete occupazioni degl’individui. A mò d’esempio, lo studente non porta mai la goletta piegata sulla cravatta, perché la sua camicia fa il servizio d’una settimana: l’avvocato e il medico portano la goletta alta e ben insaldata: l’artista la porta rovesciata sull’orlo d’una piccola cravatta nera: l’uomo d’affari, l’impiegato, il diplomatico, e quasi tutta la nobiltà portano la goletta distaccata (faux cols) piccola, tonda e ugualissima; e finalmente il militare, vestito alla civile, di rado si vede con la goletta sporgente.

   Oggidì la camicia varia di moda come la veste; la sua importanza è giunta a tale che sembra aver voluto gareggiare con l’importanza della cravatta bianca. Come questa, la camicia ha avuto i suoi fautori e i suoi avversari; ha subito le più atroci rivoluzioni della effemeride moda, ma in oggi la può dirsi all’apogeo della sua gloria, nel punto più luminoso della sua carriera. Oggidì le maniche da cui pendono due grossi bottoni, rivelano tutto il genio delle cucitrici e il loro amore verso questa parte importante del vestimento.

   Ma a bastanza ci occupammo di questa modesta figlia dell’indigenza e del pudore, la cui fattura è abbandonata esclusivamente al debil sesso. Slanciamoci ora a toccare le sommità artistiche che rivestono di giubbe e di calzoni i figliuoli di Adamo. Che cosa è la donna senza i sarti? Che cosa è l’uomo senza la mano portentosa che il veste? Non osiam definirli, chè troppo umiliante sarebbe ogni, benché larvata, definizione.

   In Napoli, vi sono sarti di ogni abilità, per ogni stato e condizione: vi son di quelli che abitano in sontuosi appartamenti e di quelli che si accomodano in anguste botteghe e che riuniscono al tempo stesso diverse industrie. Nominiamo con rispetto, nella classe aristocratica de’sarti, i signori Lennon, Plassenel, Casamassimo ec. ec. i quali han raggiunto la perfezione e l’altezza del genio. Londra e Parigi s’inchinano reverenti innanzi a questi colossi dell’ago, a questi Michelangeli del soprabito.

   Ma a fianco di queste glorie, dobbiamo porre altre più modeste, ma non meno celebri, intendiam parlare di que’proprietari di stabilimenti dove si vendono vestiti confezionati, come dicono coloro che hanno sempre il miele e lo zucchero francese in bocca. Sì, signori, in questo secolo in cui non si ama di perder tempo, in cui tutto è celerità febbrile, velocità di vapore, in questo secolo in cui le distanze spariscono e non rappresentano che punti matematici, non si vuol più aspettare che un sarto ti porti un abito dopo un mese dal tempo che ti prese la misura. Tu corri un bel mattino da Tesorone o da Pacilio, ed esci di là vestito come per incanto, e, quel che è più sorprendente, vestito così attillato come se gli abiti fossero stati tagliati e cuciti addosso alla tua persona. Senza parlare di quella sensibilissima economia che si fa, non pur di tempo, ma di danaro, però che una giubba, un paio di calzoni, un corpetto ti costa presso a poco la metà di quel che ti sarebbe costato se l’avessi fatto fare al tuo sarto parigino, siciliano o tedesco.

   È una curiosa osservazione a fare, che al presente i sarti, i calzolai, i cappellari ed altra gente di somiglianti mestieri hanno ad essere parigini, siciliani o tedeschi. Che la moda richiegga da lungo tempo le cose e le persone di Francia per ciò che risguarda il vestire e il cucinare, è noto e stabilito; in questo la Francia si gode a buon dritto la supremazia, e nessuna nazione al mondo ha mai preteso di contrastargliela. In fatto di cuffie e di pasticcetti la Francia ha il primato, e buon pro le faccia!

   Ma tornando agli opifici di vestiti belli e fatti o confezionati, se vi garba, ne abbiamo al presente parecchi in Napoli, e più ne avremo, non ostante la guerra che fanno ad essi tutt’i sarti. Ma che volete, signori miei? Persuadetevi che il denaro è denaro, e il tempo è tempo; e chiunque risolve il gran problema di economizzare l’uno e l’altro rende un gran servigio alla società.

  Non si creda per altro che l’introduzione di questi stabilimenti di abiti fatti sia nuovo e recente nella nostra capitale. Da moltissimi anni noi avevamo ed abbiamo un gran numero di botteghe nella strada de’Guantai, al vico Travaccari (volgarmente detto vico de’Baraccari) [1] e alla strada Medina. Gl’industriosi proprietari di queste botteghe non affettano lusso e magnificenza, perché il loro modesto guadagno deriva in gran parte dal basso popolo e dal ceto medio: barbieri, tessitori, calzettai, calzolai, lustrastivali, banderai, tintori, farinai, beccai, trippaiuoli, pizzicagnoli, fruttaiuoli, droghieri, muratori, imbianchini, magnani, ramai ed altre mille specie di costoro che esercitano arti meccaniche, come eziandio studenti, impiegatucci, pittori, flebotomisti, esattori ed altri moltissimi vengono a rifornirsi di vestimenti in queste botteghe a prezzi discreti e ragionevoli. Attraversate il viso Travaccari o la strada di Fontana Medina e vedrete a dritta e a manca sospesi e pendenti sulle botteghe calzoni, giubbe, mantelli, ferraioli, corpetti, giacche di ogni dimensione, di ogni misura, di ogni qualità. E se andate a dimandare un soprabito, il negoziante trarrà da uno stipo enorme un’enorme cassetta, e schiererà a’vostri sguardi un batuffolo di soprabiti; ve n’è un centinaio; scegliete: la vostra scelta paleserà il vostro stato, la posizione sociale che occupate, le vostre tendenze, la vostra età, il vostro gusto.

   Ci è una scala graduata di venditori di vestimenti, da Tesorone fino all’ambulante venditore di robe vecchie, di cui offriamo l’immagine ai nostri lettori con la figurina che accompagna questo articolo. Vedetelo, sovra un braccio ei stringe tutta la sua merce, il suo capitale; e nell’altra mano tiene aperti e ritti vari cucchiai ed altri utensili di stagno per cucina, oggetti di libero scambio che ei dà per qualche panno vecchio e sdrucito. [2] Nella strada di Fontana Medina vedesi ancora la penultima espressione dell’industria di vestiti, vale a dire le venditrici di robe vecchie. Queste industriose danno la mano all’ultimo anello della graduazione di questa industria che è per lo appunto il CENCIAIUOLO.

   Pochi giorni fa stetti quasi un’ora a contemplar questo rispettabile industrioso che cammina mezzo mondo per procacciarsi l’obolo quotidiano: la sua merce è un po’ di sapone e alquanti lupini, e talvolta eziandio un pugno di carrubbe. Egli non vende la sua mercanzia, ma la dà bensì in iscambio di pochi cenci vecchi e logori. Vedetelo: sospesa a un braccio ei recasi la cesta che deve raccogliere gli stracci, e appeso all’altro il paniere in cui contengonsi gli oggetti che ei deve spacciare. Tra gli oggetti che il cenciaiuolo prende in cambio della sua merce notansi anche talvolta vecchie masserizie di casa, tra le quali antiche dipinture e quadri di un merito molto ambiguo e dubbioso.

   Non vi è strada romita e solitaria che sia, nella quale il cenciaiuolo non faccia udire la sua voce rauca e stanca pronunziando alla distesa la parola sapone. I fanciulletti del popolo, i furbi monelli gli corrono dietro offrendo chi un avanzo succido di moccichino, chi un lembo di grambiale, chi un canovaccio di mille colori, chi uno straccio di pezza; e tutti vogliono i lupini, le carrubbe e i pastorelli, cioè bambocci di creta che si pongono nel Natale su i presepi; e questi bambocci sono la merce principale ch’ei mette in commercio. [3] Il cenciaiuolo ha davvero una seria faccenda per le mani, quando ha da contentare parecchi di que’diavoletti ghiottoncelli i quali non sono mai soddisfatti della porzione che dà loro l’onesto industrioso. Le donne poi gli offrono cenci più sani, più bianchi e più fini, e dimandano in compenso un buon cartoccio di sapone pel bucato. Il cenciaiuolo, comechè di naturale flemmatico e poco espansivo, ha nonpertanto sempre garbatezza e riguardi per le donne, cui non manca di dir talvolta un motto di galanteria, e si fa lecito puranche non poche volte di stringer la mano a qualche bella lavandaia o stiratrice, nel porgerle il cartoccio di sapone. L’ho veduto anche regalar graziosamente un pastorello o un dieci lupini a qualche povero monello che non avea neanche la propria camicia da dargli per cencio.

   Tra le tante innumerevoli piccole industrie delle vasti capitali, quella del cenciaiuolo è la più innocente, la più disinteressata e la più popolare. Egli non mira intrinsecamente al valor delle merci che gli sii danno in cambio de’ suoi lupini e delle sue carrubbe: ogni maniera di cencio fa al suo caso; ogni qualsiasi frattaglia aumenta la massa del suo capitale a due grana il rotolo: egli non bada né a’ colori né alla finezza de’tessuti che stiva nella sua cesta. La fanciullaglia che gli si accosta per barattar con lui, si parte sempre contenta del cambio ricevuto, tranne che si rovi tra que’ tristanzuoli qualcuno più seccante, più lecconcello che gli va dietro lunga pezza, chiedendo due altri lupini o un altro bamboccio. Il cenciaiuolo scevera la sera i cenci che gli si sono dati nel corso del giorno, scompartisce la tela dalla mussolina, e fa tante sezioni per quante sono le diverse qualità di tessuti capitategli. Ma tali scompartimenti e sezioni nulla gli fruttano di più, imperciocchè il suo capitale vien considerato in quantità e non in qualità.

   Il cenciaiuolo gitta il primo elemento della civiltà delle nazioni: senza la sua industria non potrebbero esserci que’ tanti magazzini in cui si fa spaccio di quella pallida figlia del progresso, la carta. Dalla cesta del cenciaiuolo nascono, come la farfalla dal bruco, que’sommi volumi dove sta scritta la storia de’popoli, e dove l’ingegno dell’uomo ha fissato i suoi meravigliosi e altissimi voli.

   L’andatura del cenciaiuolo è lenta e pensosa: raramente egli ride, raramente si mischia al gaudio delle feste popolari. La sua vita è trista e solitaria. Benché ignaro dell’alta missione che la società gli affida, egli ne sente per istinto l’importanza, ed è però il più grave e malinconico di tutt’i vagabondi industriosi.

   Il cenciaiuolo è il vero cinico della nostra società: egli guarda con occhio indifferente e spregiatore i be’palagi de’signori, le seriche cortine de’balconi, i fastosi damaschi e i magnifici tessuti de’magazzini di moda: contempla con ischerno la seta e il raso onde si covrono le dame del gran mondo, e grida con ironia: Chi tene i pezze, u pasturiello! Con queste parole egli intende dire: o voi che possedete seta ed oro, voi non siete che creta e cenere! ovvero ei pronunzia il suo motto dileggiatore sapò (sapone) col quale significa a’vanitosi del secolo come ogni cosa bella e sontuosa dovrà pure alla fine ridursi in miseri cenci da scambiarsi con poco sapone. Alcuni pretendono, e forse non senza qualche fondamento di ragione, che quando il cenciaiuolo fa udire la prolungata parola sapone, egli intenda l’Omnia vanitas vanitatum, cioè che tutto non è che bolle di sapone, le quali andate in aria, risplendono di tanti gai e brillanti colori, e che poscia un lievissimo soffio annienta e riduce a misera goccia d’acqua.

                      FRANCESCO MASTRIANI

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[1] I baraccari han lor botteghe disposte in via del Castello, e precisamente lungo la strada Medina, e Guantai nuovi. Vendono eglino non pure roba adoperata, ma nuova eziandio, e talvolta se ne trova di buona. Il ceto non agiato né assolutamente sprovvisto ha quivi onde provvedere convenevolmente al suo bisogno, e se grossolano è il lavoro vien compensato dal comodo. Talvolta vi si trovano anche abiti tali che ogni gentiluomo può valersene per uso ordinario, quando eleganza non vi ricerchi né precisione.

E, notisi bene, noi qui non deffiniamo altro che i baraccari quali s’intendano generalmente, perché in Napoli, ove nulla manca al bisogno al comodo ed al lusso, da qualche anno a questa parte si son posti de’magazzini ove vendesi roba a nuovo bella e cucita, si che non occorre altro che adattarsela in dosso; la quale non pure è di buona qualità, ma anche di una certa eleganza abbenchè veggasi disposta allo stesso modo di quella de’baraccari propriamente detti.

Nulla diciamo poi, degli splendidi e magnifici siti nelle strade principali della capitale, messi sul gusto delle nazioni più incivilite, e con lusso veramente asiatico, ove tutto si ritrova che faccia al bisogno, alla più squisita eleganza congiunto.                                                                                                                                                              (Nota dell’edit.)

[2] Vedi figura 1

[3] Vedi figura 2

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                                      Figura 1

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                                                        Figura 2