IL FIGLIO DELLA SVENTURA

   Abbiamo letto il primo volume del romanzo del giovine Francesco Zappalà col titolo Il figlio della sventura.

   Benché non si possa portare adeguato giudizio su un lavoro qualunque se prima esso non è compiuto, ciò nondimeno ei ci sembra scorgere nel sig. Zappalà una abitudine non comune a questa difficilissima branca della letteratura. Il romanzo qual si conviene all’indole dei tempi nostri, non può più limitarsi alla gretta narrazione di fatti immaginarii o storici. È d’uopo che lo scrittore dipinga al vivo le passioni, e s’interni nelle scure latebre del cuore umano, e colla sintesi del filosofo e del moralista svolga il gran dramma della vita nei personaggi che formano la tela del suo racconto. È d’uopo che lo scrittore, sotto la favola da lui immaginata, imprenda a rialzare un gran principio di morale sociale o ad abbattere un vizio radicale dei tempi! posto ciò, crediamo non essere il romanzo opera da giovine ventenne, per quanto ci si abbia buona dose d’ingegno, fervida immaginazione e gran corredo d’istruzione; imperciocchè lo studio dell’uomo, del cuore, della società non si perfezione su i libri, ma col volgere degli anni e con un’indefessa osservazione degli uomini e delle cose.

   Ciò dicendo non intendiamo scuorare il nostro giovine scrittore sig. Zappalà in questo suo primo lavoro, nel quale veggiano un abile magistero nella orditura della tela, che promette un interesse sempre crescente, una certa spontaneità nei dialoghi, ed una spigliatezza nel racconto, nella quale pertanto ci pare di scorgere una fretta di scrivere non giustificabile in un giovine che tenta i primi passi in questa arduissima carriera letteraria.

   Il lavoro del sig. Zappalà è una bella promessa per lo avvenire, ma ha il difetto di essere nato troppo presto. I caratteri, le passioni mancano della sintesi di cui più su abbiamo parlato, e che il sig. Zappalà acquisterà cogli anni, colla esperienza e collo studio. In quando alla lingua ed allo stile, avvegnachè corretti abbastanza, hanno ancora d’uopo della lima, e risentono ancora di quello abbandono a cui si lascia andare facilmente la penna di un giovine scrittore che si sente pieno del suo subbietto.

   Accolga il nostro giovine amico queste nostre franche parole, e le ritenga come figlie del desiderio vivissimo che abbiamo di vederlo un giorno annoverato tra i più reputati novellieri del nostro paese.

                                             FRANCESCO MASTRIANI