8 GENNAIO 1891

  Il  «Roma» di Napoli

    I funebri. Il tempo era triste: parea che anche il cielo partecipasse al lutto di questo popolo che il Mastriani aveva amato sin dall’infanzia, con tanto ardore.

   Alle 5 precise, il feretro mosse, lentamente, dalla povera casa dello illustre estinto, senza rappresentanze officiali, senza pompa, senza alti onori. Lo accompagnavano soltanto, raccolti nella mestizia, i figli del lavoro ed i fanciulli delle scuole municipali

   Molti giornali erano rappresentati ed anche parecchi circoli operai e politici.

   Innanzi alla salma di un uomo che visse lavorando e morì povero, è muta la voce di parte e subentra il sentimento umanitario. Notammo le bandiere del Fascio operaio, della lega dei figli del lavoro, dei sarti, del Circolo Socialista L’emancipazione Sociale, del sodalizio universitario, dell’Associazione Repubblicana, e una rappresentanza del Circolo Galeazzo Caracciolo, di cui Mastriani era socio.

   Le esequie erano modeste, ma imponenti.

   Le note della marcia funebre riempivano gli animi di tristezza.

   Quattro ceri, nel carro, ardevano sulla bara, e quelle fiamme, in quell’ora di malinconia e di raccoglimento, producevano un non so che di sinistro.

   Dalla salma pendevano quattro corone: una della redazione ed amministrazione del Roma, un’altra dagli artisti del Teatro S. Ferdinando, la terza della famiglia dell’estinto, la quarta del Circolo l’Emancipazione Sociale.

   Era l’ultimo tributo d’affetto dei compagni, degli amici, dei congiunti, degli operai all’indefesso lavoratore, caduto nel cammino della vita, puro e immacolato, fra tanto rovinio di coscienza e di caratteri.

   Sul feretro nessun elogio. Era desiderio dell’estinto e fu dal figlio fatto rispettare.

   Battevano alla vicina parrocchia i rintocchi dell’Avemaria e il funebre carro si affrettava alla volta del cimitero.

   Quell’onda di popolo che lo seguiva mandò lo estremo saluto all’estinto e il corteo si sciolse silenziosamente.

   Pubblichiamo intanto qui appresso le parole che il nostro amico e collaboratore Avv. Francesco Lo Sardo, ignaro dell’ultima volontà dell’estinto, dovea pronunziare a nome nostro, innanzi al feretro:

   «Il plauso muto di un popolo memore e mesto giunge a questa bara riparatore di molta ingiustizia.

   L’anima di popolo egli ebbe, e però la sua vita fu quanto mai travagliata, e gli onori postumi, alla bara giungono non all’uomo.

   Quando altri, pescatori di sillabe leccate, scioglievano inni a potenti, e a lui, povero, essi gaudenti, volsero rimprovero di forma scorretta, ei, che del popolo e pel popolo scriveva, non volle la sua penna infangare di servo encomio.

   Preferiscono gli artefici di cesarei periodi le grazie e i favori di chi sta in alto, alla onesta povertà di Francesco Mastriani; ma essi non avranno giammai il consentimento di dolore che accompagna questa salma.

   Magro e illusorio conforto pei tempi che corrono; ma che costituisce la meta più aspirata di chi si eleva ai nobili ideali della vita!

   E solo quel conforto può lenire le ambasce, le privazioni, gli stenti di chi il suo cervello distilla su fredde e improduttive carte, lottando pel trionfo del bene.

   Io non dirò che Francesco Mastriani abbia toccato le più eccelse cime dell’arte; ma certo che egli, quando si arcadeggiava nel più vuoto e inefficace idealismo, si tenne alla realtà e si volse allo studio del popolo nostro di vizi ricco e di virtù.

   E da allora, da quando questa via prescelse, la sua vita doveva essere e fu circondata di amarezze, di stenti, di miserie.

   Ed egli mai se ne dolse. Anche quando la numerosa e non agiata famiglia a lui si volgeva pei bisogni più impellenti della vita, non perdè il suo bonario sorriso, effetto di sapiente rassegnazione.

   Né si dolse in vedere create lucrose sinecure, per scrittorelli pedanti e grammaticuzzi smascolinati. Pago di tutto se stesso dedicare all’arte del popolo di questa città gentile. Non ebbe aspirazioni ambiziose, né desideri smodati, che, anzi, sempre grato mostrossi a chi gli ultimi anni di vita resegli meno amari.

   Nella sua modesta bonarietà, quando dimesso e quasi sconosciuto andava per via, area ripetesse i versi dell’immortale e sdegnoso Parini:

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      Me non nato a percotere

       Le ricche e dure porte

       Nudo accorrà, ma libero

       Il regno della morte.

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   E nudo la morte lo accolse; ma tal nudità onorata com’è da preferirsi alle malfatte ricchezze di chi ogni idea sommette al mal talento del guadagno!

   Ed ora, dopo il saluto riverente che gli ho dato in nome mio e dei miei egregi compagni del Roma, componetelo nella sua bara, avvolgetelo nel suo onesto lenzuolo funebre, ed in mano mettetegli quella penna che fu testimone amica delle sue sofferenze.

   Egli, se potesse per un momento rivivere, sarebbe assai lieto, e superando quella modestia che vivendo ebbe, ci additerebbe ad esempio la sua bara lagrimata.

   Va, o Francesco Mastriani, la tua vita fu degnamente spesa e la tua morte insegni che i potenti per ingratitudine obliano, non il popolo riconoscente e giusto».

   Il corteo funebre, giunto al Reclusorio, fece sosta. Colà il giovane studente Alfano con belle parole definì il Mastriani vero socialista del pensiero, come risulta dai suoi scritti.

   Conchiuse offrendogli l’ultimo saluto da parte della democrazia che soffre quanto egli soffrì.

   Il professore Ciccarelli rilevò il letterato e l’apostolo del pensiero, quale risulta dalle sue opere.

   Il corteo si sciolse, e solo il figlio con alcuni amici accompagnarono la salma al camposanto.

   Quivi la salma venne trasportata in una Cappella Municipale, ove ebbe luogo la cerimonia

   Indi venne deposta nella Cappella della Carità di Dio, ove ricevè l’ultimo bacio dello afflitto figliolo e l’ultimo saluto dai suoi amici.

   Degli studenti universitarii fu ieri affisso un manifesto nel quale leggevasi:

   «La vita di Mastriani fu tutta dedicata ad educare il popolo. Egli mise a nudo la malvagità dei potenti, le vergogne dei preti, la bassezza dei poliziotti.

   I giovani di questo Ateneo accorrendo numerosi alle esequie, affermeranno una volta di più la loro solidarietà con i combattenti per l’ideale.

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     Il  «Fortunio» di Napoli

   È morto, dopo varii anni di sofferenza, cieco, misero, maltrattato dalla sorte e dagli uomini.

   Eppure ebbe i suoi meriti grandi e speciali. E i suoi primi lavori come la Cieca di Sorrento, seguita dalla Contessa di Montès meno giustamente fortunata della prima, il Mio Cadavere, entusiasmarono i buoni napoletani prima del 1860. I Vermi, Le Ombre, ch’ebbero grandi ammiratori e denigratori accaniti, sono una prova del suo ingegno forte, delle sue attitudini al romanzo sociale, pel quale potrebbe dirsi che emulò Eugenio Sue: Aveva una grande facilità nello scrivere e nel concepire; se fosse nato e vissuto in Francia, sarebbe stato un Montepin, ricco e ammirato. Qui ha dovuto ogni giorno lottare con la necessità. Aveva un animo mite, pieno di affettuosità vera e cordiale. Il buon popolo napolitano, che lo amava assai attraverso le appendici a tinte forti del Roma, ne piangerà lungamente la perdita. E il pubblico aristocratico degli scrittore anche. Un compianto unanime lo accompagna nella tomba.