INTRODUZIONE

   Francesco Mastriani (1819-1891) ‒ certamente il più significativo esponente del cosiddetto “Basso Romanticismo” – è stato prolificissimo autore di romanzi d’appendice a sfondo sociale, un genere diffuso in Italia a partire dagli anni Cinquanta dell’Ottocento, in seguito all’enorme successo della traduzione italiana de I misteri di Parigi di Eugène Sue, avvenuta nel 1845 pressochè contemporaneamente a Milano e a Napoli. La straordinaria fortuna di Sue e di Dumas, che diverranno modelli ispiratori della letteratura popolare, determinerà il proliferare – in Lombardia, ma soprattutto a Napoli – di questa produzione, caratterizzata da un susseguirsi di torbide ed efferate vicende ambientate in sordidi quartieri cittadini, in cui agisce un’umanità reietta e miserabile, dominata dalla superstizione e dalla brutalità; atti di crudeltà e generosi interventi benefici, teatrali colpi di scena, sparizioni e ritrovamenti improvvisi sono i principali motori dell’intrigo romanzesco, già ampiamente sperimentati dal genere gotico, a Napoli ben conosciuto attraverso i romanzi di Anna Radcliffe. Ricollegandosi a questa produzione, Mastriani introduce in alcune opere – è il caso di Ciccio, il bettoliere di Borgo Loreto e della Medea di Porta Medina – elementi legati al giallo e all’inchiesta processuale, oltre ad inserire numerose riflessioni contro la misera condizione delle classi popolari napoletane.

   Modesto impiegato del Dazio, Mastriani conosceva perfettamente inglese, francese, spagnolo e tedesco e, essendo un lettore voracissimo, si formò una profonda cultura che mise a frutto nella sua enorme produzione letteraria, la cui vastità è documentata dal figlio Filippo in Cenni sulla vita e sugli scritti di Mastriani. In essa si contano circa 900 lavori, tra romanzi (ne scrisse 107), pezzi di costume, racconti, strenne della Napoli borbonica, lavori teatrali e articoli per vari giornali.

   Collaboratore, dal 1838 al 1848, a diversi periodici, tra cui «Il Sibilo» e il «Roma»[1], per i quali scrisse racconti e novelle, nel 1848 lo scrittore napoletano pubblicò il suo primo romanzo, Sotto altro cielo, cui seguirono, nel 1852, La cieca di Sorrento ed Il mio cadavere, che ottennero un notevole successo. In essi lo scrittore evita qualsiasi banale schematizzazione, riconoscendo virtù e difetti a tutti gli strati sociali ed attribuisce qualità positive anche a personaggi brutti e deformi, guardando l’umanità dei bassi con occhio lucido e realistico, ma sempre con partecipazione e senza disgusto. La straordinaria vividezza dei personaggi e il suo stile fluidi e appassionato contribuirono certamente a farlo amare dai lettori napoletani.

   Negli anni ’60, dopo l’Unità, esce la cosiddetta “trilogia socialista”: I Vermi, Le Ombre e I misteri di Napoli. Essa rappresenta nell’ambito della produzione dello scrittore napoletano, una decisa svolta nel senso di una più scoperta critica degli abusi e delle connivenze con la camorra dei Borboni e un’accorata denuncia delle ingiustizie sociali. L’impegno politico di Mastriani gli fa concepir il romanzo ben al di là del mero intrattenimento: il racconto è arricchito infatti da numerosi interventi dell’autore, che affronta importanti questioni sociali e politiche con accenti protestatari nutriti di istanze socialiste mai condivise dagli intellettuali napoletani suoi contemporanei, sebbene siano da segnalare il riconoscimento postumo tributatogli da Matilde Serao e da Benedetto Croce.

   Alla trilogia seguirono numerosi altri romanzi – tra i quali vanno almeno menzionati Il barcaiuolo d’Amalfi (1883), La Medea di Porta Medina (1881), La sepolta viva (1889) e a quest’ultima, matura stagione della produzione narrativa di Mastriani appartiene Ciccio, il bettoliere di Borgo Loreto, pubblicato nel 1880. Si tratta un feuilleton al quale l’omicidio del piccolo Fafele, il trovatello dell’Annunziata adottato controvoglia da Ciccio, e il processo intentato contro quest’ultimo, conferiscono un andamento giallistico.

   Fin dal titolo, la precisa individuazione del quartiere definisce con realismo il contesto nel quale si svolge la torbida vicenda, ambientata nel cuore antico di Napoli, in una delle sue zone più sordide, nel 1836, vale a dire negli anni precedenti allo Sventramento. Già nell’incipit l’autore fa riferimento all’intrico di viuzze che costituivano la struttura urbana della città, quando «il Corso Vittorio Emanuele, non stava, nel 1836, neppure in mente Dei […]» e la descrive come un groviglio di rampe e vicoletti che collegavano la zona collinare con quella portuale e nei quali era possibile con facilità eludere qualsiasi sorveglianza ed operare ogni genere d’illegalità: un intricato labirinto nel quale si muove un’umanità abbrutita, primitiva e brutale.

   I personaggi di questo sottobosco sociale sono infatti tutti negativi: le donne sono generalmente presentate come delle erinni dedite alla maldicenza, sguaiate nel comportamento e trasandate nella persona. Tra queste figure femminili emergono quelle della vecchia fattucchiera, dall’orribile testa simile ad un teschio che, al colmo dell’orrore, conserva ancora tutti i denti in bocca; della sigaraia, detta la Guappa, la bella del quartiere, ma che ha il volto butterato dal vaiolo e quello della sua rivale Orsola, donnone pingue e non più giovane che prima ricorre alla fattura per sposare Ciccio e poi finisce per umiliarlo e col fare la civetta con un giovane dragone. Anche i personaggi maschili sono, quasi senza eccezione, miserabili e lo stesso Ciccio, che fa invaghire di sé sia Filomena sia Orsola, è un individuo stupido, tutt’altro che attraente, «sciancato ed ernioso», del quale durante il processo è data una descrizione lombrosiana. Gli altri personaggi – tra cui spiccano il camorrista, detto il Bue, Tore il macellaio e il giovane dragone, il cui temperamento vizioso è appena celato dai modi urbani – sono anch’essi dipinti a tinte fosche, così come sono evidenziate la cortigianeria e l’ipocrisia dei potenti nei confronti del re. Unica figura positiva di tutta la storia è quella del prete che, commosso dall’infelice destino di Ciccio, decide di perorare la sua causa presso la corte per ottenerne la grazia.

  La narrazione dell’intricata storia è costruita come se si trattasse di una rappresentazione teatrale, nella quale lo scrittore, sfruttando sapientemente le consuete tecniche romanzesche, attraverso anticipazioni e rallentamenti, sollecita la partecipazione emotiva del lettore. Notevole è inoltre il massiccio ricorso alla digressione: vi è infatti una lunga prolusione contro la pena di morte ed ampi riferimenti al darwinismo e alla teoria dei rapporti umani regolati dalla forza. In altri luoghi Mastriani denuncia un potere che fomenta l’illegalità e se ne fa complice.

   Ma al di là delle digressioni, lo scrittore ricorre frequentemente all’ironia per smascherare costumi e pregiudizi di una realtà sociale degradata; bersagli polemici sono la religione vissuta come superstizione (si veda l’episodio della fattura, con la puntuale descrizione delle arti magiche della megera, ma soprattutto l’ipocrisia nel linguaggio di Orsola e delle comari, nonché i commenti dell’autore all’usanza di celebrare le messe per l’esecuzione); la denuncia della diffusa mentalità delinquenziale (si pensi alle pratiche camorristiche per riscuotere il pizzo, al delitto d’onore, alla connivenza tra camorra e polizia, all’atteggiamento tra l’infantile e il capriccioso di re Ferdinando); la riprovazione verso la disposizione della folla ad inveire contro il presunto colpevole o a commuoversi con altrettanta facilità (emblematici, in questo senso, sono gli atteggiamenti della folla durante il processo di Ciccio); la critica nei confronti della polizia e la sua grottesca tendenza a voler a tutti i costi trovare un capro espiatorio.

   L’intento didascalico in Mastriani appare evidente anche nella costante modalità esplicativa circa il linguaggio e le usanze popolari: pur usando un italiano «fatto di mescolanze arbitrarie e disarmoniche, ma fluido, tenuto a freno da una buona grammatica […]» [2], l’autore adopera spesso termini dialettali, che assumono la valenza di espressioni tecniche, impossibili da rendere se non in dialetto.

   Di conseguenza per il lettore contemporaneo, oltre al piacere del racconto, l’interesse del romanzo è dato anche dalla presenza di numerosi motivi di carattere “antropologico”, per la fedele rappresentazione di un universo sociale estremamente variegato, con codici di comportamento che Mastriani conosceva profondamente e che ha saputo rendere con crudo realismo.

                          PATRIZIA DI MEGLIO

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[1] Con il «Roma» Francesco Mastriani cominciò a collaborare nel 1875. Il giornale fu fondato nel 1862 (nota di Rosario Mastriani).

[2] Iermano T. – Palermo A., La letteratura della nuova Italia, tra Naturalismo, Classicismo e Decadentismo, in AA. VV., Storia della Letteratura Italiana, vol. III, Roma, Salerno Editrice, 1999, pag. 590