LA MESSA VOTIVA [1]

   Appo quasi tutti i popoli della terra, qualsivoglia sia la loro religione, sonosi levate al cielo preci e voti per ottenere grazie. Quando ogni umano conforto vien manco, l’uomo nella sventura si volge per istinto al suo Creatore e ne implora l’assistenza; e, come se non osasse direttamente alzar le sue preghiere fino alla maestà di un Dio, cerca il più delle volte l’intercessione di quelle creature che Gli sono più accette. La Religione Cristiana, la più consona a’bisogni dell’uomo, offre nella Santissima Madre di Dio la più possente interceditrice di grazie; ed Ella innumerevoli ne ottiene ogni giorno dal trono dell’Altissimo a pro de’suoi divoti. Venerata dall’orbe cattolica sotto diverse denominazioni a seconda de’tanti privilegi di che Dio volle colmare questa Prediletta fra tutte le creature, ed a seconda di alcune particolari circostanze di tempi e di luoghi. Ella spande i tesori delle sue grazie a tutt’i suoi figliuoli indistintamente che con vera fede a Lei si volgono.

   Se presso tutte le cristiane genti la divozione alla SS. Vergine è quasi un bisogno del cuore e dello spirito, massima lo è presso i Napolitani. Basta gittar lo sguardo ne’ nostri templi per vedere quasi in tutte le Immagini della Madre di Dio circondata da’ così detti voti, che sono tante dipinture colle quali vien rappresentato a’riguardanti quel caso particolare di malattia o di altra sciagura, a risanar dal quale si fa il voto alla Madonna. A questi quadretti si congiunge pel consueto una effigie in cera di quella parte del corpo che è stata soggetta a infermità, a ferita, a percosse e simili. È costume de’nostri popolani andar raccogliendo dai pietosi vicini le limosine per far dire la Messa votiva che in dialetto domandasi Messa pezzuta.

   Le chiese dove maggiore è l’affluenza de’voti sono Santa Maria del Carmine presso le porte della città, S. Brigida, la Chiesa alla Sanità e S. Vincenzo alla Sanità, Montevergine e la Madonna dell’Arco.

   La chiesa di S. Maria del Carmine, poco discosta dalla piazza del Mercato, fu edificata da’ d’Angiò, e racchiude un convento che è de’più famosi di Napoli. Per lo addietro, questa chiesa non era che una semplice cappella col nome di Santa-Croce che venne distrutta, e poscia rifabbricata e magnificamente arricchita dalla madre dell’infelice Corradino Svevo, decapitato in quella piazza del Mercato ed il cui sepolcro si vede dietro l’altare maggiore. Nel 1767, la chiesa venne restaurata nel modo come ora si vede. Oltre di una bellissima Immagine di Nostra Donna, antica dipintura greca, vi si venera un Crocifisso, il quale, narrasi che nell’assedio di Napoli del 1439 avesse piegato il capo per iscansare una palla di cannone. Non è a dire di quanta divozione è compreso il popolo Napolitano da questo Crocifisso, che tiensi ricoperto tutto l’anno, eccetto che nella prima festa di Natale, giorno in cui un grandissimo numero di abitanti e il Corpo della Città si reca a venerarlo.

   Riguardo alla Chiesa di Montevergine, già se n’è parlato con apposito articolo nel primo volume di quest’opera. In quanto alla Madonna dell’Arco, se ne scriverà un articolo per la descrizione della festa che vi si fa. La chiesa di S. Brigida fu edificata nel 1610 da una spagnuola per nome Giovanna Queveda.

   Or ci piace raccontare un fatto che meglio farà conoscere questo particolar costume della Messa votiva.

   Non è gran tempo da noi discosto che in quella ertezza addimandata la Salita di Tarsia, che pon capo sul colle amenissimo dell’Infrascata, e propriamente un poco prima di giugnere a quella piazzetta che dalla chiesa di S. Antonio toglie il suo nome, due donne abitavano in un fondacuzzo piuttosto oscuro che vedesi a sinistra nel salire – Erano una madre e una figliuola.

   Tutt’i villeggianti che nella bella stagione traevano in sul Vomero o nelle adiacenti campagne, nel salire o nello scendere per quella scoscesa di Tarsia, vedean sempre in sulla soglia di quel fondaco starsi a sedere una donna di non grave età, comechè non potea dirsi più giovine; la quale con un rosario tra le mani recitava avemmarie in tutte le ore del giorno. La poveretta non potea meglio spendere il suo tempo quando non si occupava a filare; giacchè da molti anni mancavale il senso più necessario al lavoro, la vista – La sì Giuditta, madre di Concetta la insaldatrice [2], era cieca.

   Eppur, con quanta cristiana rassegnazione ella avea portato sì crudele sciagura! Quando la misera donna ebbe certezza di non poter più ricuperare i suoi occhi che una violenta e ostinata oftalmia avea per sempre acciecati, non versò una lagrima, non mise un lamento; ed altro non disse che: ‒ Non vedrò più la mia benedetta mia figlia!

   Quelli che si ostinano a non veder nell’uomo che una malvagia creatura, han negato incontrarsi nel cammino della loro vita gli atti della più eroica virtù o i più inauditi sacrifici di annegazione, senza por mente che gli eroi ed i martiri della virtù non son rari specialmente allorché si cercano tra i poveri, tra i sofferenti, tra i rassegnati.

   Per quale sciagura o infermità la madre di Concetta perdesse il godimento degli occhi, mal sapremmo noi dirlo, né giova alla commovente istoria che abbiamo a narrare. Ben possiamo dire che dal dì ch’ella orba rimase della luce del cielo, l’unico scopo di sua vita parve aver concentrato nell’affetto tenerissimo che aveva alla sua cara figliuola, l’unica sopravvanzatale di cinque nati. Era vedova da parecchi anni.

   Nel tempo di questa istoria, Concetta non avea più di diciotto anni. Se dicessimo che ella era d’una sorprendente bellezza, si crederebbe che ciò diciamo per quella specie di consuetudine de’novellatori di dipinger belle tutte le donne che entrano ne’loro racconti. Ma noi ce ne appelliamo a tutti quelli che ricordano la Concetta di Tarsia, dieci o undici anni or sono. Il più accigliato Senocrate non potea salir per quella via senza gittare uno sguardo nel fondacuzzo dov’era la Concetta. Non sapremmo far meglio il ritratto di questa fanciulla che col rassomigliarla alla più gentil donnina di queste d’alto lignaggio. Avea carnagione assai fina e dilicata, due occhi neri di quelli che pigliano i cuori d’assalto, e un bocchino aggraziato, sul quale un sorriso tra il mesto e l’ingenuo vagava quasi sempre come un vezzo incantatore.

   Or, questa Concetta, che per quanto bella era buona, esercitava il mestiero d’insaldatrice per essere di alcun pro alla povera mamma che, ella amava con una tenerezza impareggiabile. Non ci era famiglia mezzanamente agiata su per quella via di Tarsia o per l’altra parallela di Pontecorvo, che non desse i suoi panni lini a stirare alla Concetta, la quale era valentissima, soprattutto a dar la salda alle camice per uomini, alle maniche delle quali dava tante graziose pieghette. Il sabato era giorno d’inferno per la povera insaldatrice: era un compito di sette o otto ore di buona fatica che avrebbe spossato Ercole stesso o Achille quando filava accanto alla sua bella. Il sabato, bisognava vederla, quella gioia di figlia curvata in su un gran tavolo, ricoperto da un lenzuolo piegato in quattro! Con che garbo e lestezza ella spiegava in su quel tavolo l’un dopo l’altro i panni che aveva a stirare! Con quanta grazia intingeva dapprima le sue dita ben affilate in un piattello colmo d’acqua e ne spruzzava i siti lisci de’panni; indi, tuffato le rosee punte delle sue dita in altro piattello dov’era l’amido, dava a’colli, a’petti, a’polsini delle camice la giusta misura di salda!

   Come quella miniatura di visino si colorava di leggiadrissimo incarnato pel calore de’ferri caldi e pe’vapori che da’panni bagnati esalavano sotto l’azione de’ferri. Come quegli occhi inverniciati luceavano vie più su quelle guance d’alabastro e di minio! Non poche volte nel ritirarmi alla mia dimora, la possanza di quella bellezza m’incatenava dappresso a quella bottega, né sapea discostarmene che quando gli occhi di quella fata si levavano pieni di maraviglia su me, e le sopracciglia leggermente aggrottavanlesi! Fin d’allora io promisi a me stesso che di questa vaga fanciulla avrei fatto l’eroina di qualche mio racconto; ma, lasso! ch’io non sapea quale sciagura avessi a narrare della meschina!

   Un bel dì, salendo alla mia dimora, trovai chiuso il fondaco dov’era la Concetta, e in sull’alto dell’uscio, incollato l’appigionasi.

   Quel dì non era il quattro maggio, in cui da’Napolitani costumasi mutar le abitazioni; perché forte ne maravigliai e della cagione di quella novità richiesi una donna che ogni mattina solea, poco discosto dall’uscio della Concetta, porsi a vendere ballotte, noci, pinocchi ed altre frutte. Costei mi disse; quella notte la sì Giuditta (che era la madre cieca) aver fatto rintronar quella via di strida acutissime però che le avean rapita la figlia sua; esser venuto nel corso della notte una donna a lei ben nota, la quale avea chiesta che le si aprisse l’uscio per carità, per amor di Dio, giacchè ella fuggiva dall’ira dell’ebbro marito che volea quella notte stessa spacciarla per l’altro mondo per mali sospetti e gelosie – Soggiunse la cieca che non sì tosto avea aperto l’uscio che si sentì afferrar di dietro e serrar la bocca come da un panno ben stretto; indi, non aver udito altro che un gran trambusto, un gemer sordo; e poi nient’altro; esser corsa al letto dove la cara figlia era a riposare e non avervela ritrovata!

   La donna che mi dava queste notizie aggiunsemi che da alquanti giorni ella vedea transitare continuamente per quella salita un barbuto, che sofferma vasi a riguardar la Concetta, e che precisamente il dì avanti, quel brutto ceffo era quivi ristato a confabulare con certi altri tristanzuoli all’aspetto, siccome in quel volger di tempo se ne vedevano di molti. Queste novelle nel suo ingenuo linguaggio mi sfoderava la buona donna, aggiugnendomi che, quando la mattina si era alzata, avea trovato chiuso l’uscio della sì Giuditta, e appiccatovi l’appigionasi. Di che non sapea dar contezza veruna, ma credea che l’autorità si fosse messa in sulle peste del mal fatto.

   Varie voci e congetture si erano sparse intanto su questo straordinario avvenimento, che mi facea ricordar de’Promessi Sposi del Manzoni; e ognuno dicea la sua e spiattellava sentenze, allorché un dopopranzo, erano scorsi un cinque o sei mesi, si suonò all’uscio della mia abitazione, e mi vidi innanzi la Concetta e sua madre. La giovinetta era pallida, vestita a nera con cordellina bianca alle costure della veste, con le sole calze, ma senza scarpe, co’capelli scarmigliati e con un vassoio nelle mani dov’erano pacchi di torchietti da chiesa, un quadro rappresentante una donna ferita da un colpo di stile alla spalla destra, e che sembrava invocasse l’aiuto della Madonna del Carmine, la cui Immagine, poggiata su gruppi di nubi e di angioli, era sull’alto di quella dipintura. Era sul vassoio puranche una spalla di cera con in mezzo un solco dipinto a rosso simulante la ferita [3]. Qui cade in acconcio osservare che l’abito di voto non si abbandona da chi lo porta se non quando è ridotto nello stato di non potersi più usare.

   Concetta facea, come più su abbiamo detto, la questua per la Messa votiva, per un voto che avea fatto a Nostra Donna del Carmine, qualora risanata ella fosse dalla grave ferita avuta all’omero.

   Ella mi narrò il fatto. Un bricconaccio ch’era di un paese straniero avea da qualche tempo gittato gli occhi su lei; parecchie infami proposizioni le avea fatto fare, alle quali ella avea risposto con isdegno. Lo scellerato pensò di ottenere a viva forza ciò che non avea potuto con tutte le arti infernali. Avea subornata una donna assai familiare della Concetta e della madre; rasi quella notte introdotto in casa di lei, per mezzo di quella donna, con altri malviventi; aveale impugnato al collo uno stile e costretta a vestirsi in fretta e seguirlo. Una carrozza ben chiusa aspetta vali su alla piazzetta di Tarsia.

   Quasi morta di spavento e di cordoglio ella fu strascinata ben lungi.

   Si arrivò ad un sito ch’ella non conosceva. Si smontò dalla carrozza. Un fanale dava luce alla strada. La Provvidenza vegliava sulla innocenza della povera giovine. Nello smontar di carrozza, ella ebbe da lungi veduto appressarsi un gruppo di persone; attinse coraggio nella propria disperazione; gittò un grido acutissimo e chiamò al soccorso. Nel mettere il grido ella si sentì ferita alla spalla, e, invocando la Vergine del Carmine, cadde priva di sensi. La mattina dopo si trovò appo una famiglia onesta e caritevole che l’avea soccorsa, e dove era rimasta, in compagnia della buona madre, per tutto il tempo necessario alla sua guarigione, di che ella era debitrice ad un miracolo della Santissima Vergine; che le avea pur sì prodigiosamente salvata l’innocenza.

   Le lagrime solcavano le guance della giovinetta nel raccontarmi questo accaduto.

   Non mancai di porre una moneta bianca nel vassoio. Un sorriso incantevole di quella cara fanciulla mi ringraziò nel suo ingenuo linguaggio.

                                                                                        FRANCESCO MASTRIANI

 

[1] Detta volgarmente la Messa pezzuta.

[2] Detta volgarmente in Napoli stiratrice.

[3] Vedi figura 1

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                                                    Figura 1