LA SVENTURA

   Fino a quando la sacra parola SVENTURA sarà prostituita da un labbro menzognero? E fino a quando sopportar dovremo l’abuso che si fa delle lagrime? Cessino una volta l’impudente vanità, la stupida ignoranza, e l’insazievol cupidigia di lagnarsi di chimeriche sofferenze, che pur troppo ci assordano alla voce timida della vera sventura. Mancano forse gli affanni ed i triboli alla vita, perché d’uopo abbiamo di crearne altri fittizi? La prostituzione delle lagrime è l’ultima abbiezione, in cui cader possa il cuor dell’uomo. Le lagrime di un fanciullo non commuovono; presto o tardi quelle dello sventurato sfurieranno appena le nostre orecchie. Un uomo che piange è da tutti riguardato con maraviglia; imperocchè tutto è mistero nelle lagrime, tutto è sacro nel pianto; e perché dovunque gli occhi portiamo, non vediamo che il riso della frivolezza, il riso della impudenza, il riso dello scherno, il riso della vendetta, il riso della satira infame; ma se il pianto addiviene del pari comune, ben presto ascolteremo i gemiti di un infelice con la stessa indifferenza onde ascoltiamo le grida di un fanciullo. Vi sono alcuni barbari che bene spesso confondono e rendono sinonimi sventura e colpa, sventurato e colpevole, senza por mente che se così non fosse, i nostri occhi non sarebbero del continuo contristati dallo spettacolo del vizio esaltato e della virtù oppressa. Oh queste parole muovonmi a sdegno contro la piccolezza della mia mente che giunger non può a comprenderle!.. come pesa il mio cuore il dover riunire quei sostantivi e quegli aggettivi, che par sono bastanti a far crollare l’edifizio delle più dolci speranze. Non ci illudiamo alle apparenze. Colui che presenta un volto ridente, sovente volte reprime una lagrima di dolore; e colui, il cui volto malinconico ti annunzia il malcontento nell’anima, nasconde la più dolce allegria, la più tranquilla gioia. Nei primi anni dell’età mia, quando uscivo appena dall’innocente ignoranza della fanciullezza; quando mi compiaceva della tinta pittoresca, che io stesso aveva sfumato il deserto della vita, il dolore e la sventura erano per me idee vaghe, indefinite come il rimorso della coscienza, come la morte; e se qualche volta l’altrui miseria svegliava nel mio petto una generosa e calda pietà, e componeva la mia anima ad una soave tristezza, era tanta la illusione, di che io rivestiva ogni sentimento, che pur fortunato mi sarei tenuto nel formare l’obbietto della universal commiserazione. Allora io non sapeva che lo sventurato non è che un ente abbandonato a sé stesso, da tutti fuggito come un incognito misterioso, straniero nel vasto regno della natura, debolmente da alcuni sovvenuto  per vanitoso orgoglio; da molti ipocriti compianto, da poche fredde anime ascoltato, deriso dei più e forse molte volte benanche temuto qual essere da cui la Provvidenza abbia ritirato il suo braccio; allora non sapeva che il più intenso dolore è quello che meno dell’estremo traspare; che lagrime di una dilicata sensibilità sono da questo mondo basso e carnale disprezzato e dileggiato come leziosaggini di teste puerili, e capricci di romanzesche donzelle. Osserva nei pubblici spettacoli quell’allegra gioventù, sfavillante di seta e di oro, quelle avvenenti donzelle, tutta voluttà negli sguardi, tutt’amore nel sorriso, quella numerosa folla che si spinge innanzi per entrare, quei volti ridenti, quei lussuosi abiti, lo splendore di tanti lumi, e i melodiosi concerti della musica. Ecco la prima idea del mondo, il primo fantasma della vita. Certo, tu mi dirai: dov’è colà il dolore? dov’è lo sventurato? O mio lettore, vedi là in fondo di quel palchetto, quel giovine pallido, emaciato, consunto; ei si covre gli occhi con la palma della mano. Che fa egli? Piange, per nascondere le sue lagrime cerca il buio; per non far udire i suoi singhiozzi cerca lo strepito dell’orchestra. Vuoi tu vedere ora l’oggetto che cagiona il suo pianto? Quattro passi da lui discosto osserva quella leggiadra donzella col sorriso del piacere in sul labbro, col fuoco di un caldissimo amore in sul volto dolcemente intrattenersi con quell’altro profumatuzzo giovinastro che le sta vicinissimo, che sembra cogli occhi divorarla!.. Dov’è lo sventurato? tu mi domandi!. Puoi tu penetrare tutta l’intensità del suo dolore? Sai tu, come spezzi un’anima, come bruci un cuore, come maceri un corpo la gelida fiamma della gelosia? Vedi; per quel giovane il mondo non è che una donna, la vita un odio, e lo spettacolo che gli è presente una sconsolante solitudine. Chi è colui che fra quella folta brigata, ove le passioni sono uno scherno, e un giuoco di fantasia, chi è colui che immaginar può l’esistenza d’un infelice? Tu mi dici: dov’è lo sventurato? Vedi quell’altro, che coverto a metà il viso da una maschera muove coi suoi lazzi il viso dell’udienza? Non ha guari egli ha perduto un oggetto a lui caro,.. ed ora ride!.. Condannato a travisare ogni sentimento, ad avvilire l’onestà; condannato a soffocare in una stupida balordaggine ogni pensiero che senta di tristezza… egli ride, mentre ha l’anima divorata dal dolore. Ecco un’immagine della vita.

                                                                                                            FRANCESCO MASTRIANI