Le illuminazioni di Mastriani

  Questa edizione è in possesso degli eredi Mastriani

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LE ILLUMINAZIONI DI MASTRIANI

   Nell’appendice al quarto volume della Letteratura della nuova Italia, Benedetto Croce, nel tracciare un profilo critico sul lavoro di romanziere di Francesco Mastriani, scriveva:

   “Si fanno tante ricerche e saggi critici su argomenti poco interessanti; ma nessuno ha pensato ancora a dedicare un saggio al povero Mastriani, che lo meriterebbe”. L’appello fu subito raccolto dalla signora Gina Algranati, che dedicò il suo Un romanziere popolare a Napoli appunto a Benedetto Croce. La breve monografia, fondamentale per quanto riguarda la complessa bibliografia del Mastriani, lascia il lettore insoddisfatto. L’indagine della signora Algranati appare sommaria e spinge persino a dubitare che il critico non abbia avuto la pazienza e la volontà di leggere per intero il corpus delle centoquattordici opere dello scrittore. Sarebbe stata un’impresa impervia; ma è pur vero che fino a quando qualcuno non si deciderà a portarla a termine il giudizio su Mastriani rimarrà in sospeso.

   Miglior sorte Mastriani non ebbe in seguito. La nota stilata da Matilde Serao in occasione della morte dello scrittore non supera i limiti di un commosso necrologio: “Attraverso tutta la retorica delle sue idee e delle sue narrazioni, attraverso quel concetto ristretto del bene e del male, fiorisce una certa verità popolare, che sarà il punto di partenza onde i sociologi e gli artisti trarranno il grande materiale del romanzo napoletano. Piccola verità popolare, invero, e che consisteva soltanto nel chiamare coi loro veri nomi i tetri frequentatori delle bettole, col loro nome esatto e colla loro topografia i vicoli sordidi e lugubri, dove si annida in Napoli l’onta, la corruzione, la morte: piccola verità affogata nella frondosità fastidiosa del romanziere”.

   Senza insistere su questo concetto di “piccola verità”, che a me sembra, se specialmente riportato ai tempi in cui Mastriani scrisse, una verità se non di grande valore d’arte, grandissima per il numero delle scoperte, a livello di un minuzioso e ben annotato censimento, che per l’innanzi non era stato mai intrapreso o soltanto immaginato, né lo sarà fino ai nostri giorni, il giudizio della Serao non ci porta nel mezzo dell’opera di Mastriani, che continuò a rimanere per struttura e stile sconosciuta.

    Né si fa qualche passo avanti leggendo il profilo di Mastriani scritto da Federico Verdinois. Verdinois era un troppo sottile letterato e prosatore per avvicinarsi con modestia alla farragine geniale del romanziere napoletano, colpevole di essere “uno scrittore che non potrà mai occupare quel posto nazionale che ora occupa nelle classi popolari napoletane”. Al Verdinois, come a tutti coloro che prima e dopo si occuparono di Mastriani, sfuggì un particolare di gran fondo: Mastriani non lo si può isolare come artista puro né soppesare sulla bilancina degli alchimisti. Mastriani è la personificazione di una speciale, inafferrabile città, un mondo fatto più per accoppare che per dar vita a un talento.

   Più tardi Luigi Russo includerà nei suoi “I Narratori” una scheda sul Nostro; ma la parte centrale e direi la scoperta critica della sua nota è tradotta (sic) alla lettera dal saggio che il francese Gustave Hérelle dedicò a Francesco Mastriani sulla “Revue de Paris” del giugno 1894. Gustave Hérelle scrive: “Qu’on rapproche de son nom, si l’on venut, le noms d’Eugène Sue, de Xavier de Montepin, de Gaborian, de Ponson du Terrail: le romancier napolitaine est à peu près de la même race litteraire; moins artiste encore que plusieurs d’entre eux, mais peintre beaucoup plus fidèle, et plus sincèrement ému des réalitès sombres de la vie”; e Luigi Russo, senza virgolettare, traduce: “Il Mastriani è uno scrittore il cui nome può essere accostato a quello di Eugenio Sue, di Saverio di Montepin, di Gaborian, di Ponson du Terrail, sebbene rimanga inferiore a costoro per valore letterario, e li superi d’altro canto per la fedeltà delle sue rappresentazioni realistiche e per la commozione sincera e ingenua con cui egli ci descrive le oscure e dolorose miserie del popolo”. Questo trattamento superficiale sorprende in un critico che verso i suoi colleghi ebbe l’anatema facile. Con un po’di buona volontà – un quinto di quella dedicata alla grande scoperta verghiana – avrebbe potuto dirci qualcosa di più sul povero Mastriani; sul lavoro del quale, come per tanti minori, ancora una volta bisogna ricorrere al contributo di Benedetto Croce.

   Unico tra i componenti dell’intellighenzia del tempo Croce loda la descrizione: Ciccio il bettoliere di Borgo Loreto, Il barcaiuolo di Amalfi, I vermi etc., dandocene una certa chiave. Trova che Mastriani “scriveva di solito con semplicità e non senza correttezza, conforme al suo mestiere di professore di lingua e grammatica” e che ha “un’ispirazione costantemente generosa e morale. La sua musa era casta: rifuggiva dal sollecitare malvagie e basse curiosità, diversamente da altri romanzieri appendicisti. Risonava in quei romanzi una continua protesta contro i vizi e le ingiustizie sociali; e vi si leggevano frequenti intromesse filosofiche, politiche e scientifiche, piene di buon senso, se non peregrine… vi ho trovato una digressione sulla forza che regna sovrana nel mondo; un’altra sulla camorra dall’autore descritta e condannata come infame; una terza sulla psicologia dei giudici istruttori e sulla loro mania d’immaginare, dove non sono, delitti e delinquenti; una quarta sulla, o meglio contro la pena di morte; e via dicendo”.

   Non so a quanti altri scrittori dell’Ottocento si potrebbe accreditare un’altrettanta vasta e ramificata tematica di così sconcertante modernità. Mastriani appariva al popolino napoletano, secondo Croce, come il suo “filosofo, educatore, consigliere e vindice”. Giovanni Faldella, un narratore di formazione classicista, lodato dal Carducci, che pronosticava in lui, ancora giovane, un grandissimo romanziere, non disdegnava il Mastriani. Nel suo romanzo Toto Nerina (L. Roux, Torino-Napoli 1887) scrive: “A Napoli il Mastriani, prolifico come le acciughe, schiude fasci di romanzi, che aggrovigliano nel solluchero e nella più accesa attenzione quel popolino”. Corrado Alvaro nell’Itinerario italiano estende i giudizi crociani e faldelliani e centra almeno un punto della fantasia di Mastriani: “Trovò nella sua città la dimensione fantastica e il mistero che sono stati sempre le qualità più attraenti di un romanziere. Non appare per nulla gratuito, nella sua opera numerosa e disordinata, che un intrico di personaggi e di avventure, di strade e di luoghi, di smarrimenti e di ritrovamenti, accada tra Borgo Loreto, Sanità, Vicaria, Chiaia; davanti alle sue invenzioni non ci prende alcun dubbio che quanto egli racconta si possa svolgere a Napoli”.

   I centoquattordici romanzi di Mastriani, [1] pubblicati in 43 anni di massacrante lavoro, sono da considerare come una sorta di voce recitante del quarto stato purgatoriale napoletano. Identificato con l’impreciso termine di popolino, ma ben al di sotto di ogni organizzazione somigliante a quella di un popolo sovrano e di poco più su di uno stato di endemico di mendicità. Si è sempre accusata la letteratura napoletana di una immarcescibile vocazione folclorica e sarebbe bastato riaprire Mastriani, direi più della Serao e dello stesso Di Giacomo (Viviani è dentro il filone mastrianiano) per riportare una sconvolgente idea del contrario.

   Nei libri di Mastriani non c’è posto per il riso e la gioia. Il tempo dei suoi protagonisti è interamente occupato, come un incastro perfetto, dai pensieri, dalle preoccupazioni e dalle ossessioni del vivere. I deboli vi rimangono bruciati. “Vi sono alcune disgraziate famiglie gettate in mezzo alle generazioni come un branco di uccelli in mezzo a una fornace rovente.” Questa epigrafe abbagliante appare a bruciapelo tra la cosiddetta “farragine parolaia” de La cieca di Sorrento; e Mastriani la scrive quando ha appena trentadue anni: all’indomani della prima guerra d’Indipendenza e della pubblicazione del Manifesto marxiano. Nonostante le sue fantasticherie, il “professore” come veniva chiamato da tutti il romanziere, dimostra di avere qualche idea portante abbastanza chiara. Sa da che parte pende la bilancia. Sa dove bisogna colpire ripetutamente e senza stancarsi. Mastriani si rende subito conto che a un pubblico come quello che lui si trova per le mani non basta raccontare una storia qualsiasi per distrarlo, aggravando il suo stato d’ignoranza. I suoi romanzi sono fitti di digressioni didascaliche, difetto, se tale è, comune a tutta la romanzeria dal ‘600 al’800 (Manzoni incluso).

   Egli intende educare il lettore, informarlo, spingerlo a rendersi conto delle forze negative che lo circondano e soffocano. Inesistente la stampa, elitaria la scuola pubblica, confessionale quella privata, Bene e Male rimanevano misteriosi e inspiegabili come gli elementi della natura. Ora Mastriani sapeva benissimo che non erano in molti quelli in grado di leggerlo; ma sapeva anche che bastava che ce ne fosse uno soltanto in grado di farlo perché il suo messaggio educativo (e giornalistico) raggiungesse gl’interessati. E si sono viste stampe in cui appunto un popolano, seduto al centro di un gruppo di persone attentissime, legge e spiega, per esempio, il seguente formidabile reportage inserito ne I misteri di Napoli. [2]

   Ma la sua vocazione pedagogica non si esaurisce alla illustrazioni dei guasti sociali. Gli piace entrare nelle case della gente che ha bisogno di essere consigliata su tutto: [3]

   Giustamente Gustave Hérelle lo definisce, nel saggio citato, “C’était un socialiste per charité, quelque chose comme un socialiste chrétien” e aggiunge che: “se Mastriani non fu in grado di scrivere dei capolavori, aprì la strada gravida di futuro del realismo, per cui il suo lavoro non sarà dimenticato”.

   Mastriani ne è cosciente. “Io, Francesco Mastriani, apersi nel romanzo quest’arditissima scuola, coi miei Vermi, le mie Ombre, i miei Misteri di Napoli.” E pochi anni dopo, in risposta ai facili attacchi di giornalisti e letterati contro i suoi romanzi pubblicati in appendice a due lire il giorno, afferma: «Nessuno può contestarmi, in Italia, la priorità di quel che oggi si domanda verismo». Né a questa coerenza il Mastriani pervenne in poche giornate. Nei suoi primi romanzi, il suo speciale realismo è soltanto un acquisto istintivo. La sua immaginazione infocata, come un relitto tratto dal mare, riporta in superficie con le incrostazioni anche qualcosa della nature degli abissi (napoletani). “Questo vicoletto torto, malaugurato e fetido, invano, oh lettore, ti sforzeresti di trovarlo in quell’almanacco ibero-gallo-latino di viceregale memoria, tranne che per qualche casualità in esso t’imbatta”. È la descrizione del vico Chiavetta al Pendino dove abita Gaetano Pisani nella prima parte de La cieca di Sorrento. Siamo nel 1851. Mastriani, da giovane, prova le sue capacità d’indagine sociale. Alle spalle in Italia (e a Napoli, se si esclude l’exploit narrativo Ginevra o l’Orfana della Nunziata di Antonio Ranieri, primo tentativo di denuncia delle condizioni dei napoletani poveri e degli ospizi, ospedali e carceri napoletani; per cui l’amico di Leopardi subì l’arresto) Mastriani ha il vuoto. Ha letto I promessi sposi (e ha modo di citare e di lodarne l’autore) ma non ne è rimasto convinto; non vi ha trovato quegli spunti atti a sollecitare la sua macchina immaginativa. La realtà che gli stava di fronte era cupa, maledetta e il paternalismo manzoniano risultava un affronto.

   Mastriani è nato in mezzo ai poveri, vive tra i poveri, ha sposato una povera signora Concetta, ha avuto quattro figli e ne ha perduti tre, è angariato dalla vita di tutti i giorni. Come i suoi protagonisti, i suoi mestieri non si contano: guida turistica, insegnante privato e pubblico, estensore per conto altrui di petizioni e suppliche ai potenti; costretto a girovagare e a scovare angoli e ànditi osceni della città nazione in cui vive e che intende descrivere con scrupolo e lungo questo flusso, direi verdiano, per consolarsi ha bisogno di altri sostegni e rivelazioni. Gli scrittori italiani del suo tempo cominciano a manzoneggiare, avendo appena terminato di jacoportisseggiare. L’opera di colui che risulterà il maggiore, Giovanni Verga, è in mente Dei e Mastriani è costretto a rivolgersi altrove: ai romanzieri francesi: al Victor Hugo più spettacolare e al Dumas del Conte di Montecristo. La parabola vendicatrice di Edmondo Dantès e il tesoro dell’abate Faria ossia la sete di giustizia e l’avventura, segneranno a fondo il suo territorio immaginativo. La sua operazione, di conseguenza, consisterà nel tentativo di trapiantare a Napoli il romanzo francese con tutto quello che concerne di populistico e di avventuroso. I misteri di Parigi gli sembrano assai somiglianti a quelli napolitani dove speranze, sogni, fantasticherie, ingiustizie impunite, ma a volte denunciate e punite, costituiscono una buona parte della resistenza a sopravvivere.

   Su questa direttrice va ricercata la tematica apparentemente assurda de La cieca di Sorrento. Raccontare la trama del romanzo è praticamente impossibile e anche se non lo fosse risulterebbe una fatica vana e una congrua sottrazione di sorpresa al lettore. Ramificazioni, intrighi, bosco e sottobosco, apparizioni terrene e ultraterrene, vendette all’ultimo sangue e all’ultimo minuto, non sono ingredienti meccanici dell’arte di Mastriani: costituiscono il fondamento del suo stile, la sua operazione di trapianto della vita così come essa è, o meglio come essa dovette svolgersi fra gente più somigliante a un pulviscolo che a un popolo degno di questo ruolo e protetto da un minimo di giustizia e di legge. D’altro canto, un tipo di vita siffatto comporta un’illimitata libertà di arrangiamento, di occasionalità. D’incontri straordinari, di avventure fuori programma, di giorni imprevedibili in balia del caso e persino del fato, di situazioni umane, quindi, affatto ignorate da chi dovrebbe sapere e porvi un riparo. L’episodicità trionfa nella vita napoletana e trionfa nei romanzi di Mastriani. Del resto, un modello c’era, e illuminante: nei racconti più intrinsecamente napoletani di Boccaccio: l’Andreuccio da Perugia, la Peronella, Landolfo Ruffolo e dovunque, nell’opera del Fiorentino ci si imbatte in una novella impiantata in una città promiscua e con un porto di mare aperto a tutti gl’incontri. Anche in Mastriani – l’unico dei moderni che, sia pure soltanto nell’intrico toponomastico e in quello della varietà degli uomini, faccia pensare al Boccaccio – l’Oriente (la Turchia, i sultani, le prostitute, i papponi, gli scambi di persona) è a portata di mano. Ma la pura avventura in Mastriani viene contemplata sui tempi della fuga, dello smarrimento e del ritrovamento come una resa di conti con una realtà che non transige, che pone una barriera tra chi ha e chi non ha, giacchè chi ha è e chi non ha non è, per dirla con le parole di Padre Vincenzo Padula.

   Si pensi alla figura del padrone di casa a Napoli, esoso, rigido, terribile. Aveva in pugno il destino di migliaia di creature. In una notte poteva buttar fuori dalle loro tane, imposte per case, e a termini di legge. Di pensi agli orrori delle carceri e alla separazione classista, linguistica e persino si direbbe antropologica tra la gente del piano nobile e quella dei bassi. Premuto da queste forze oscure il popolino vaneggiava, sognava, vedeva l’invisibile, dava corpo alle ombre e alle visioni “ma per fame e solitudine”, come Michelet ritenne avvenisse agli uomini del Medioevo. Questo vasto mondo represso e rigurgitante d’istanze inascoltate sollecitava Mastriani a mettere in moto quella sua macchina abitata da dèmoni e da arcangeli della vendetta.

   È ovvio che ad avvicinarsi ai libri di Mastriani o a farseli leggere fosse soltanto la gente sprovveduta. Per il popolino la fiammeggiante immaginazione di Mastriani era soltanto una parte delle vicende infinite e a incastro dell’universo napoletano. Che Gaetano Pisani, il protagonista de La cieca di Sorrento, vittima di mille soprusi, destinato a vivere per le altrui colpe in un basso, scompaia da Napoli e vi ritorni al momento giusto coi titoli di conte e di medico celeberrimo e col nome cambiato in Oliviero Blackman, è perfettamente credibile e augurabile. Gaetano Pisani è orfano. Il padre è morto sulla forca, la madre e la nonna di stenti, la sorellina altrettanto (“gracile, leggiero e diafano, il corpo di quella disgraziata giovanetta pareva ad ogni istante volersi disfare e allargar la sua trama per sprigionare un’anima candida e pura”) sgobbando diciotto ore al giorno come sarta e serva. Questa è una scheda biografica comunissima a Napoli, allora come oggi. La partenza di ogni personaggio mastrianiano verso l’avventura avviene sempre su una base di realtà tangibile e crudele e, bisogna ripeterlo, comunissima. Che poi la fortuna arrida al cupo e massiccio protagonista de La cieca di Sorrento è già qualcosa per chi spera.

   Da buon feuilletonista Mastriani non conosceva le mezze misure. Come in Omero, nell’Opera dei Pupi e nel Melodramma, cattivi e buoni sono tutti d’un pezzo. i poveri sono poverissimi e i ricchi ricchissimi. Queste due categorie, Bene e Male, si affrontano di continuo e con tuono, come vedremo; giocano d’astuzia, seminano ciascuno sul cammino dell’altro trabocchetti in cui chi cade è perduto per sempre. Ciò che poi, in un altro regime e rigore d’arte, sembra assurdo, come potrebbe essere che proprio il figlio di Nunzio Pisani, assassino della madre di Beatrice – la Cieca – diventi lo sposo amatissimo di costei, in Mastriani e nel suo lettore, come si è accennano, costituisce la regola, anzi la meta agognata.

   La Cieca di Sorrento abbonda di memorabili scontri come in una rappresentazione teatrale. Le scene madri tra Gaetano e il notaio Basileo – l’uomo che insieme con il padre di Gaetano uccide la madre di Beatrice, lasciando però salire sulla forca soltanto il compagno e trattenendo per sé, con avarizia ancor più fosca di Père Grandet, invece di dividerlo in parti uguali come nei patti, l’inestimabile scrigno di gioielli rapinato alla vittima – ; l’apparizione del gigantesco  gatto nero “dagli occhi di tigre” alla piccola Beatrice, che perderà la vista; la partita a carte tra Oliviero Blackman e il suo “indegno rivale”, il cavaliere Amedeo Santoni – che vuol sposare l’angelica cieca per carpirne la favolosa rendita e continuare a vivere nel vizio – sono scolpite a tutto tondo, con uno stile fulmineo e verticale. [4]

   Sembrano e forse sono scene fasulle se estrapolate dal loro contesto romanzesco. Ma collocate al posto e al momento giusto la rappresentazione è di un rigore esemplare. La scena in cui Beatrice, piccola di tre anni, perde la vista – la madre appena pugnalata e sanguinante in mezzo alla camera; nessuno in casa; il grande balcone spalancato sul terrazzo al buio dal quale avanza famelico e felino l’enorme gatto nero – rivela la tecnica di un maestro del giallo e del romanzo d’azione, in cui però non si dimentica mai che lo spettacolare ha una sua validità nel caso in cui si adatta con coerenza ai sentimenti umani. [5]

   Altre volte i personaggi esaminano sé stessi come attori postremi del teatro elisabettiano. “Blackman si fermò innanzi allo specchio, e stette a contemplarsi: ʻOrroreʼ esclamò poco dopo: ʻdeforme, deforme come Gloucester, come Quasimodo, come Triboulet… Gobbo! Guercio! Labbruto! Maledetto il momento in cui mia madre e la natura mi concepirono… Ma ora… io amo!!! Zitto, che neppur l’aria lo sappia, che io medesimo lo ignori! Oh Dio, comincio ora a comprendere con quale norma tu regoli questo mondo…ʼ ” [6] O ancora più declamato:

“ ʻTra pochi minuti io più non sarò! Oh morte, fantasma terribile per le deboli menti, avvicinati, abbracciami, stendi sulle mie pupille le tue tenebre di piombo, raffredda il mio polso… io stesso t’invito ad abbracciar la tua predaʼ ”.[7]

   Corrado Alvaro parla di una lingua, quella del Mastriani, tra accademica e dialettale. Ma anche quest’affermazione è ribaltabile. Spesso il linguaggio del Mastriani aderisce come un involucro alle cose. “La così detta tumulazione de’poveri nel nostro Camposanto a Poggioreale è tale che debbe necessariamente contristare il cuore di quanti hanno sensi umani… Sul nostro Camposanto nuovo sono due quadrati ovvero due cortili contenenti ciascuno ottantotto fosse, delle quali si apre una ogni sera; e i morti di quelle famiglie che non possono spendere almeno una ventina di carlini per avere un posticino provvisorio in qualche giardinetto, sono gittati sera per sera alla rinfusa l’un sopra l’altro, come fossero carogne di cani o di altre bestie, in detta fossa di circa palmi 13 per 13 e alta 24 palmi, quando è piena di quella povera carne umana, si copre con una pietra e si procede la sera appresso a scavarne un’altra di pari larghezza.” È un esempio fra le migliaia che si possono pescare nel mare magnum di questo scrittore torrenziale. Ma più straordinaria è la sua capacità di spogliare di ogni residuo folclore qualsiasi cosa tocchi di un mondo, come quella napoletano, che ne trasuda e che s’infila dappertutto. Vesuvi, mari, canzoni, pizze, spaghetti – più che mai trionfanti nell’Ottocento a Napoli – sono lontanissimi dalla sua immaginazione. Ha un’abilità suprema nell’eliminare il pittoresco, non perché lo eviti o lo aggiri, ma perché vi si cala dentro e ne afferra le motivazioni della fatica di cui il pittoresco è soltanto un’estroversione. Si rifletta su questo passaggio campestre della campagna aversana alle porte di Napoli, che più di Napoli è gravata d’ipoteche manieristiche.

“Un riverbero della neve manteneva ancora una fiochissima trasparenza nell’aria e vinceva il dominio assoluto delle tenebre. Ben presto, tutto fu buio; e solo a lunghi intervalli riluceva un lume in qualcuna di quelle capanne, sotto cui il bifolco si getta a riprendere nel sonno un po’di forza per la fatica di domani. Molte carrette erano transitate per quella via, mentre era durata la luce del giorno; alcune cariche di paglia, altre di fieno, altre di sacchi di granone, altre di fusti di alberi: erano partite da Aversa e dai vicini casali per andare a depositare a Napoli i loro carichi”.

   La sua attenzione è sempre per le cose tangibili, per la sostanza, per i fatti. Troppo preoccupato per la vita delle sue creature-personaggi, non si lascia distrarre dalle infinite tentatrici descrizioni di una natura che ne offre a piene mani.

   Quando a Napoli essa non si restringe mai  vicolo, cortile, angiporto, farnesco lamento. Si trova proprio all’opposto della sceneggiata. Il vicolo e il basso sono una parte del tutto, mai il contrario, che è invece la base di partenza e di arrivo del teatro napoletano fino ai nostri giorni. In Mastriani ogni luogo è inserito nella metropoli della cui vastità, varietà e contiguità ha un’idea precisa. La conosce e la possiede e i suoi “Vermi” e le sue “Ombre” non si spiegherebbero fuori di essa; non potrebbero agire se non avessero a disposizione casbah, labirinti, meandri. Un’operazione questa che, chi ci si è provato a tentarla, sa quanto sia difficile cavarne un risultato positivo. Mastriani possiede la chiave adatta ad aprire verso spazi universali, una condition humaine continuamente minata e immeschinita dalla episodicità locale. L’impresa gli riesce proprio grazie alla sua speciale dimensione linguistica, rinnegando il dialetto e preferendo a esso e alle sue strettoie la sua assunzione in una, a volte, superba accademia. A questa necessità è costretto a piegarsi specie nel primo periodo “romanticizzante” del suo lavoro quando non ancora aveva avuto il tempo di maturare nella coscienza le fluviali disfunzioni della sua città. E quasi per orizzontarsi prende il linguaggio che trova comunque e dovunque: dai predicatori, di cui allora le chiese abbondavano, e dal loro tonante dire iterativo e interiettivo della sua cultura di liceali sta iscritto alla facoltà di medicina, dalla letteratura aulica, dalla scuola del Puoti proprio in quegli anni in auge a Napoli, dai drammatici come il Melga e dal melodramma, dall’Opera dei Pupi, dagli avvocati e dalle barocche e rampanti analogie di un popolo superparlante. Accademia, sì, ma rispettabile; un magma linguistico ideale per una pingue ricerca, non vacua, dato che con questo strumento ineguale Mastriani con forze assai modeste, e appartato di vita e di cultura, recupera le istanze del popolino che lui già individua come sottoproletariato e con un furore persino iconoclasta (contro i preti) e un’esigenza di rinascita assente o assai traslata nei Promessi Sposi.

   Se il Manzoni è il primo a spingere in campo aperto la lotta di classe, Mastriani, ahimè, senza la lunga pazienza d’arte del Lombardo, scava materiali inediti da uno dei più spaventevoli abissi dell’ingiustizia occidentale e come che sia l’inserisce nel circuito dei fatti e delle idee europee. Per questi motivi una rilettura antologica dei Vermi, delle Ombre, del Barcaiuolo d’Amalfi, dei Misteri di Napoli, di Ciccio il pizzaiolo di Borgo Loreto e della stessa Cieca di Sorrento ecc., potrebbe condurre a numerose scoperte. Il mondo di Mastriani è in grado di reggere a impervi confronti sempre che per letteratura non si voglia unicamente intendere la “toccata poesia”, ma anche un veicolo e una sonda di ricerca sociale. Certo, la zavorra abbonda, scrisse Croce a proposito di Leopardi. Ed è così anche in Mastriani. Ma non è la prima volta, né sarà l’ultima che un classico ci costringe a procedere per le sue pagine a saltelli. Ma là dove si casca, ‒ e la produzione sterminata di Mastriani offre numerose occasioni – si cade in piedi e qualche frutto fresco lo si riesce a cogliere: di genere saggistico, sociologico o di riuscita narrativa conta poco in confronto alla modernità di Mastriani e al suo impegno di uomo e di scrittore, come si dice, impegnato.

   Tentazioni ne ebbe anche lui. A qualche compromesso dovette cedere, sospintovi da una miseria, ma proprio da una miseria nera e senza soluzione di continuità, sapendo però con chi trattava.

   Appaiono giustamente motivate le parole di Giovanni Bovio, filosofo avanzato, repubblicano e anticlericale, che nel giorno della morte del romanziere, avvenuta il 7 gennaio 1891, [8] scrisse: “Dettando le ultime parole di questo articolo, ho saputo della morte di Francesco Mastriani. Curò le ultime bozze e chinò il capo sugli scritti. Fu l’individuazione di questo popolo napoletano: lavorare e sognare, soffrire pazientemente e morire. S’intendevano l’un l’altro; egli aveva visitato l’ultimo tugurio, ed il popolo si riconosceva in lui. In un altro paese sarebbe diventato ricco, ma l’Italia, povera come lui, non merita rimprovero. Gli operai che memori accompagneranno questo loro maestro alla fossa, sentiranno che la questione sociale non è più un quarto stato, è umana”. Gli operai, non più riuniti e accomunati sotto l’offesa del popolino contabile (a questa coscienza e promozione aveva contribuito a innalzarli l’opera di Mastriani, che essi avevano letta e compresa, nonostante le acrobazie della sua lingua geniale), a nome del Fascio Operaio delle Associazioni Indipendenti di Napoli accompagnarono in massa il feretro dello scrittore dopo aver “affisso un manifesto per le vie della città” in cui si leggeva : “Noi renderemo solo quello che è in nostro potere, ossequio postumo a chi come noi soffrì dolori inenarrabili, comuni ad una gente che aspetta la redenzione sua nel mondo, a chi non nascose della plebe le virtù onorate”.

   Impressionante questa corrispondenza di reciproca comprensione tra uno scrittore e i suoi lettori. Un altro caso, tra i pochissimi, si ebbe in Russia con Massimo Gorkij. Il funerale, è ovvio, fu poverissimo e napoletanissimo. “La famiglia dovette ricorrere ad altri per le spese del trasporto” della salma al camposanto. Nulla di male. In ogni angolo di Napoli – gli snob e i letterati sublimi e intangibili esclusi – la gente mandava a mente due quartine di versi anonimi (o corali?): “Ei punse i nobili e i ricchi, / che adorano un sol Dio: il Dio dell’oro; / e che, sprezzando il popolo, / calpestan dignità, fede, decoro… / Piangi diletta Napoli, / il gran Maestro tuo, ahi, non è più! / Chi ti farà più fremere / chi ti sarà di sprone alla virtù”.

   Settantadue anni dopo possiamo tranquillamente rispondere “Nessuno!”. Nessuno si è soffermato a meditare la terribilità del caso Mastriani. Mastriani, ancora oggi, è Napoli. Non trovo altri esempi nella contorta storia artistica della vecchia capitale dalle origini ai nostri giorni che regga al confronto. Nel bene e nel male egli è un napoletano povero (e nobile) costretto a subire le deformazioni, le incredibili e inesauribili degradazioni della sua città, incapace di organizzarsi, di darsi una disciplina, di superare le stridenti contraddizioni in vista di una possibile civica armonia. Il gigantesco tentativo di Francesco Mastriani di ordinare questo mondo dalle mille e, spesso, insondabili direttrici – città di una incoercibile tristezza con raptus di allegria al limite della frenesia – doveva umanamente fallire. Per dare un ordine a un pianeta costantemente fuori rotta e in rotta con le comuni regole del vivere o con campioni sociali riconoscibili, ci sarebbe voluto uno scrittore-scienziato come James Joyce. Ma Mastriani non è il grande Irlandese. È, tutto sommato, un “napoletano che cammina”, come direbbe Doria, investito di continuo da esaltazioni e disperazioni, da speranze e rese incondizionate, taglieggiato da miserie inesauste e baroccamente e drammaticamente articolate che, appunto, con i loro artigli finiscono per soffocare qualsiasi uomo benché fornito d’innegabile talento.

   Questo potrebbe essere in sintesi l’uomo-scrittore Francesco Mastriani. La Serao, Di Giacomo, Bracco e in qualche punto lo stesso Viviani, per non dire della nebulosa serie di famiglie scarpettiane e marottiane – inestinguibili – e integralmente medio borghesi, tetragone e tartufesche, daranno contributi accidentali al chiarimento dell’uomo napoletano. Ma nessuno saprà discendere nei suoi labirinti dove Bene e Male si confondono in una spirale che sfuma nell’indistinto delle a-moralità. Mastriani, con mezzi, certo, rudimentali riuscì a portare in superficie reperti antropologici, psicologici e sociali d’inestimabile valore. Intuì che Napoli andava vista e sentita in maniera globale; che bisognava, prima d’ogni altra operazione, infrangere la barriera popolare, facendola scontrare con l’altra Napoli prevaricatrice.

   Nato in un altro ambiente – e non per forza francese come sosteneva Verdinois – con la memoria plastica, visibile e sensibile di Napoli nel cuore e nell’immaginazione, avrebbe potuto, forse, meditare con freddezza l’oggetto del suo mondo d’artista, forarlo ancor meglio dal di dentro e uscirne con quella verità unica di cui ha bisogno l’arte quando vuole raggiungere certi culmini. Romanzo dopo romanzo invece Mastriani subisce un seguito  di sconfitte. Ma a ripensarci con clemenza a momenti sembrano vittorie.

                                                                                                                      DOMENICO REA

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[1] Francesco Mastriani ha scritto 105 e non 114 romanzi (Nota di Rosario Mastriani).

[2] Francesco Mastriani, I misteri di Napoli, Napoli, G. Nobile, 1869, Parte Prima. «Marta o la fede», I. «Cecatiello o la genesi dei ladri», cap. XV. Pagg. 79-82

[3] Francesco Mastriani, I misteri di Napoli, Napoli, G. Nobile, 1869,

[4] Viene inserito un brano tratto da La Cieca di Sorrento, vol. I.  parte terza, cap. III. «Il medico inglese» p.102

[5] Ibidem,  vol. I. parte seconda,  cap. V. «L’assassinio» p.72

[6] Ibidem, vol. I. parte terza, cap. IV. «La preghiera» p.104

[7] Ibidem, vol. II. parte sesta, cap. I. «L’espediente» p.83

[8] Francesco Mastriani è morto che mancavano dieci minuti alla mezzanotte del 5 gennaio 1891 (Nota di Rosario Mastriani).

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DOMENICO REA (Napoli 1921-1994) è stato uno scrittore e giornalista italiano. Dopo le elementari ha frequentato una scuola di avviamento professionale e non è andato al ginnasio. Nel 1939 a diciassette anni, partecipa a un concorso letterario bandito dalla rivista «Omnibus», diretta da Leo Longanesi, con il racconto  È nato: non vince il concorso ma Longanesi lo invita a continuare a scrivere. Comincia a collaborare al settimanale salernitano «Il popolo fascista» e a «Noi giovani». Nel 1944 si iscrive al PCI e diventa segretario della sezione di Nocera Inferiore. Ha lavorato per la RAI e ha collaborato con il «Il Giorno». Nel 1951 gli è stato assegnato il Premio Viareggio. Alcuni suoi libri e racconti sono stati tradotti in diverse lingue, compresi il russo e l’inglese.

Per la Mondadori ha pubblicato Spacanapoli, 1947; Le formiche rosse,1948; Gesù, fate luce, 1950; Ritratto di maggio, 1953; Quel che vide Cummeo, 1955; Una vampata di rossore, 1959; Il re e il lustrascarpe, 1961; I racconti, 1965; Fate bene alle anime del Purgatorio, 1977.

Rea muore il 26 gennaio 1994 colpito da ictus. Le sue spoglie sono sepolte nel cimitero di Nocera Inferiore.