LETTERA DI NICOLA GUIDA DA MORANO

      Al chiarissimo letterato

      FRANCESCO MASTRIANI

               Egregio amico

   È ormai noto abbastanza che non vi può essere vera scienza, e vera letteratura senza culto. Il primo lampo del genio si manifesta con l’ammirazione verso dei grandi scrittori e dei grandi artisti, che lasciarono nel mondo tracce profonde del loro passaggio. Io mosso da questi pensieri unitamente al giovine poeta Nicola Braca da Potenza, andammo pochi giorni sono a visitare la tomba di Virgilio, di Sannazzaro e di Leopardi, e mi piace intestare al vostro nome le impressioni che io provai e le considerazioni che noi facemmo innanzi ai monumenti di quei tre grandi poeti. Da quei marmi, Mastriani mio, un nume parla; parla alla mente, parla al cuore, parla alla fantasia alla presenza di quei sepolcri.

   La tomba del Leopardi sta collocata in un piccolo atrio di una chiesuola di campagna nel villaggio di Fuorigrotta: è semplice. È bella. L’epigrafe che sta sopra del marmo è del Ranieri, la quale per quanto è vera per altrettanto è precisa. Ed ora che sgraziatamente la poesia è morta in Italia, perché ancora non è surto un poeta che potesse veramente meritar questo nome, l’unico ristoro, che io provo in questi tempi è il culto delle tombe dei grandi poeti che onorano l’Italia, e singolarmente quella del Leopardi, del poeta del dolore, che tanto soffrì e tanto bene meritò delle lettere. La virtù, amico mio, è un bel fiore che alligna e sboccia in terreno inaffiato dalle lagrime.

   Il giorno 23 Aprile pp: fu per me un giorno di grande ricordanze; non poteva essere più bello e più sereno: il sole splendeva in tutta la sua solita pompa, e diffondea torrenti di benefica luce sull’azzurro mare di Mergellina. La natura in quel giorno, felice nel suo complesso, mostravasi placida e tranquilla ed erasi ammantata di rose e di viole. Se fossi stato pittore, che bella materia al mio pennello! Tutto spirava dolcezza ed amore. Parea che la natura sciogliesse un inno della più bella e sentita poesia al suo Fattore. In un subito, mi si destarono alla memoria questi cari versi:

                   Salve o placida riviera,

                            Nata ai cori ad incantar,

                            Ove autunno e primavera,

                            Stan perenne a gareggiar;

                   Mille mari e mille lidi,

                            Io girai con franco pie’,

                            Ma tra lor città non vidi,

                            Che non ceda il vanto a te,

                   Ecco l’urna in cui riposa

                            Chi d’armento umil cantò;

                            Che con tromba imperiosa

                            Frigia e Lazio celebrò.

                   In quell’urna a lui vicino

                            Giace l’inclito cantor,

                            Che fu già di Mergellina,

                            La delizia e lo stupor.

                   E sonando più fastoso

                            Con la tromba a quello ugual,

                            Cantò il parto avventuroso,

                   Della Vergine Immortal.

..

  E così salimmo a visitare la tomba di Marone. Ed è fama che Sillio Italico il cantore delle puniche battaglie, dopo di aver comperata la villa di Cicerone a Napoli, volle pure acquistare quel pezzo di terreno ove è collocato il sepolcro di Virgilio, come attesta lo stesso Marziale in questi versi:

Sillius haec magni celebrat monumenta

                                      Maronis

Iugera facendi qui Ciceronis habet.

,

   Noi andammo come a sciogliere un voto: ma qual contrasto di affetti e di pensieri! Visitammo la tomba di un pagano e di un cristiano: essi per me rappresentano due concetti, due scuole, cioè l’antica e la moderna, la classica e la romantica. Il sepolcro del Mantovano poeta, abbenchè mi ricordasse un gran nome, il maestro di Dante Alighieri, che lo condusse pel regno della morta gente, è la più alta fantasia del mondo latino; ciò non pertanto il suo avello mi è paruto desolante, squallido, deserto, e mi dava conforto solo la stupenda armonia ed eleganza de’suoi versi belli, i quali a me parea che le auree della collina ripetessero in mesta elegia sopra quel freddo marmo. Il sepolcro del cantore di Mergellina, nonostante la disparità del merito poetico, mi parve meno tetro a più raggiante luce. Sopra quel monumento sta piantato il vessillo trionfale della croce: ne baciammo con ogni riverenza le pietre, e ripetemmo quei versi del Pindemonte ai sepolcri:

.

         Religion senza la cui presenza

         Troppo è a mirarsi orribile una tomba.

.

   Vi dicevo adunque che quei due sepolcri mi destarono alla mente il concetto della scuola pagana e della cristiana. Come sono tramutati i tempi! quanti vicissitudini di uomini e di cose, quante città, quanti imperii, e quanti regni nei passati tempi sì fiorenti, oggi non sono che una memoria. E così bandendo oggi la nuova scuola le forme mitologiche, grida: Morte a Giove e viva il Cristo!

   Ora volgon novelli costumi.

   Va fra i carmi una nuova virtù. [1]

.

   E permettete per poco che io vi apra il mio pensiero sopra un punto così importante della scienza del bello. Lo farò in poche parole. Dirò adunque che la scuola antica è schietta, facile, obbiettiva, finita d’idee e di forme. L’artista pagano contemplava il sensibile come gli appariva allo sguardo, e, quando lo ritraeva come era nel fatto, provava nell’animo suo un piacere tutto spirituale e che io direi consolazione estetica, o il paradiso dell’arte. Il mondo esteriore era tutto per lui, ed invano cercava sollevarsi col pensiero alle regioni dello ideale e dell’infinito. L’artista cristiano poi non si appaga della terra e del mondo visibile, perché questo non è il punto dove mira il suo pensiero; ma il visibile è per lui scala che conduce all’intelligibile, al primo vero, a Dio. egli vive nel sentimento, e perciò si alza come aquila a volo da questo basso mondo e crea così quell’ideale che invano vai cercando nell’aura semplicità dei Greci e dei Romani. E qui sta il punto culminante dell’arte, esprimere con forme finite l’infinito. In quest’ armonico connubio sta riposto il secreto dell’arte armonizzando l’idea della forma, lo spirito colla materia. Victor-Hugo disse: l’arte è armonia come la natura. Nobile, stupendo e direi santo è il ministero dell’arte. Esso ci solleva da questa bassa terra per farci respirare aure più pure nei vergini campi dello spirito immortale.

   Ed ecco così, mio caro Mastriani, apertovi il mio pensiero intorno alle due scuole, concetto che lampeggiò nella mia mente in contemplando le tombe dei poeti. Il poeta di Recanate era terzo tra cotanto senno. Egli è un vate di forma e schiettezza greca in tempi nuovi. Ed al proposito del Recanatese possiamo dire che la natura non potea fare nel Leopardi un lavoro più fino è più perfetto. La stessa natura, titolando coi continuati dolori e coi continuati patimenti quel maraviglioso tessuto l’andava mano mano disfacendo in sino a che lo condusse al silenzio del sepolcro. Il Leopardi per quanto nell’insieme del corpo era deforme, per altrettanto fu d’animo nobile e dignitoso e d’ingegno così sublime che certo era superiore ai suoi tempi. I suoi versi furono stimati come cosa divina, le sue canzoni si leggevano manoscritte per tutta Italia come attesta Pietro Giordani. Egli possedette eminentemente la lingua, in guisa che la eleganza, la schiettezza dell’eloquio ti rapiscono, ed il gusto squisito t’innamora. Egli ha sciolto il gran problema filologico, che tutto può dirsi con la lingua nostra italianamente e potentemente. La parola gli era obbedientissima ad ogni sospiro del suo cuore, ad ogni movimento del’animo suo, è pure il Leopardi giudicato a prima vista e dalle sue stesse parole è scettico; ti gitta la morte nell’anima e lo spavento del cuore con la fatale parola del nulla. Dante è il poeta della vita, e t’infutura, Leopardi è il poeta della morte, e ti annulla; siede così vicino a Goèthe. Così finora è stato giudicato il gran poeta, e ciò sarebbe vero qualora uno scrittore potrebbe giudicarsi da un’opera sola. Noi però leggendo con attenzione le altre sue opere prosaiche, e specialmente le lettere, troviamo, se non andiamo errati, che il suo scetticismo non è di principî. Egli pativa molto e sentiva tutta la possanza del suo dolore, e quando si trovava in quello stato terribile ed anormale poetando delirava e cantava l’annientamento umano. Non così però scriveva nelle sue lettere, ove veramente egli parlando col cuore più che mai rivela sé stesso. In quelle scritture il poeta si mostra credente, affettuoso, confortato da miti pensieri, e rassegnato ad ogni patimento. Ed in vero leggasi al proposito una sua epistola indirizzata al padre suo da Roma, che porta la data del 29 novembre 1822, nella quale, dopo di aver parlato della sua dispiacenza per la dura separazione dalla famiglia, così si esprime: Mi consola molto il pensare che ella preghi Iddio per me, affinchè mi liberi dai pericoli del mondo che certo son gravi, e che ella da lontano mi benedica, e mi tenga per suo buono, e fedele e tenerissimo figliuolo. In una altra epistola indirizzata allo stesso padre suo da una villa di Napoli degli 11 dicembre 1836, fra le altre cose così si esprime: Mio caro papà, se Iddio mi concede di rivederla, ella e la mamma e i fratelli conosceranno che in questi sette anni io non ho demeritata una menoma particella del bene che mi hanno voluto innanzi: e più sotto: Iddio conceda a tutti loro nelle prossime feste quell’allegrezza che io difficilmente proverò. In un altro luogo più sotto in parlando del cholera, sul proprio conto scrive così: Se morrò prima, la mia giustificazione sarà affidata alla provvidenza. In un’altra epistola da Napoli 27 Maggio 1837, che fu l’ultima indirizzata al padre dalla casa Ranieri, giacchè morì dopo 18 giorni, 14 Giugno, così il moribondo poeta scrive: Ringrazio teneramente lei e la mamma del dono dei dieci scudi, e prego loro tutti a raccomandarmi a Dio acciocché, dopo che io gli avrò riveduti, una buona e pronta morte ponga fine ai miei mali fisici che non possono guarire altrimenti. Leopardi moribondo scriveva in tal modo, e lo Schiller vicino morte, dopo essersi riconciliato col cristianesimo disse che le cose gli sembravano più chiare. L’ultime parole di Leopardi furono: Ci vedo più poco… apri quella finestra… fammi vedere la luce? E Goethe morendo disse luce! Luce!

   Or se questa parole possono essere di uno scettico di principii lo giudichi chi ha un po’di senno. Ma che mentiva forse il poeta? Io non credo. Un’anima così nobile, così elevata e così spregiudicata, non avrebbe scritto mentendo. Per tutte queste considerazioni adunque, e per infinite altre che potrei allegare, penso, e tengo fermo che lo scetticismo del Leopardi non era di principii, ma figliato dal dolore e dagli spasimi che afflissero quasi tutta la sua vita. Considerazioni di tal ferma mi pare che non siano scritte da alcuno, ed è utile cosa che da oggi in avanti si pensi in contrario sul proposito del Poeta di Recanate.

   E non è a dirsi, mio caro Mastriani, quanti pensieri mi si ridestarono nella mente sopra quella classica terra, ove ogni pietra è una storia, ogni zolla una rimembranza, e ogni torre un’età. Volgemmo lo sguardo a Pozzuoli. Quante memorie stanno coi secoli passati sopra quelle venerande ruine! È un museo archeologico. Lì la fatidica Sibilla; lì le grotte cimmerie; lì l’Inferno e l’Eliso dei Pagani. Eppure chi per poco abbia profondamente studiato le lettere nostre troverà in quei miti forti argomenti come dimostrare che la civiltà italiana è più antica della stessa greca. Ed in vero il Dante della filosofia Giambattista Vico direbbe la Sibilla collocata in terra italiana vuol dire che la dottrina degli oracoli fu conosciuta prima in Italia, ed in questa regione era l’oracolo di Tiora ove l’uccello Pico profetava; il più antico del mondo e della stessa Dodona, che era il più fatidico e centrale di tutta la Grecia: le grotte cimmerie scavate nel seno della terra dir vuole che gl’Italiani furono i primi scavatori delle miniere: il mito dell’Eliso dinotar vuole che gl’Italiani insegnarono i primi il domma dell’immortalità dello spirito, ed il canto delle Sirene vuol dinotare che noi fummo i primi coltivatori della musica ecc. ecc.

   Ecco, mio egregio amico, i pensieri che pullularono nel mio cervello calpestando il terreno ove son collocate quelle venerande ruine.

   E tornando al Leopardi dirò che i tempi nostri mostransi così proclivi a rizzar monumenti a tanti inetti, e non ancora ne abbiamo veduto uno eretto al nome di uno dei più grandi poeti d’Italia.

   Quella in cui ora giace fece a me l’istessa impressione che a lui fece la tomba del Tasso a Roma. Così egli scriveva al fratello suo Carlo: Venerdì 15 Febbraio fui a visitare il sepolcro del Tasso, e ci piansi. Questo è il primo e unico piacere che ho provato in Roma. La strada per andarvi è larga, e non si va a quel luogo se non per vedere questo sepolcro. Molti provano un sentimento di indignazione vedendo il cenere del Tasso coperto ed indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino di una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovare questo cenere sotto un mausoleo. Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto tra la grandezza del Tasso e la umiltà della sua sepoltura. Queste istesse parole io ripetei ad uno studente calabrese che anche era andato lì a visitare questa tomba, e che trovai vicino al monumento. So che alle anime volgari oggi si rizzano lapidi e monumenti, ma il Leopardi appena ha un misero sepolcro. Quello spirito ardente del Foscolo lamentava ai suoi tempi che le ossa del Parini stavano confuse con quelle del ladro che lasciò sul patibolo i delitti. Così andarono, e pare che vanno le cose in Italia.

   Il Leopardi dove considerarsi ancora come poeta civile, e come continuatore della scuola di Alfieri. Egli coi suoi canti armoniosi scosse la torpedine degl’italiani destando nei loro petti novelle speranze, richiamò a novella vita le memorie nazionali e ristaurò il culto del grande Alighieri. Il padre Cesari chiamò la lingua nostra lingua delle grazie, lord Byron la chiamò musica di tutte le lingue, e Leopardi scrivendo agli accademici di Viterbo la nominò regina di tutte le lingue viventi.

   Il sole di già se ne andava al tramonto, lasciando una striscia di porpora sui monti vicini, e sopra i fioriti viali di Mergellina. Il lieto pescatore racconciava cantando le reti e la barcella e tornava in seno alla cara famigliola. Tronfi e pettorati i grandi della terra nei loro politococchi spensieratamente se la passeggiavano alla riviera. Dante parlando dei beni che son commessi alla fortuna disse, che una gente impera ed un’altra langue, e Leopardi scriveva che in tutta la sua vita aveva notata una sola cosa, cioè che nel mondo vi son due classi di persone, una che opprime, ed un’altra che è oppressa. Così deve andare il mondo! noi intanto, Mastriani mio, continuiamo a confortarci nel santo culto delle tombe, perché la gloria nostra sta solamente nei sepolcri e nei monumenti.

                                                                                NICOLA GUIDA DA MORANO

[1] Realdi