MASTRIANI RESTITUISCE LA STORIA ALL’ANIMA NAPOLETANA

   “Doloroso è il calvario a cui è condannato lo scrittore che non vende l’anima sua e la sua penna alla vile cortigiania. Scrissi sempre con Dio nella mente e nel cuore e rivelai amare e terribili verità a grandi e potenti…” Queste parole che Francesco Mastriani scrisse in una lettera indirizzata ad un professore calabrese, chiosano in maniera efficace e lapidaria il nodo irrisolto della questione Mastriani che concerne il riconoscimento della sua opera snobbata dai contemporanei, giudicata con sufficienza da eminenti critici quali Benedetto Croce e Antonio Gramsci. Benedetto Croce nell’opera “La letteratura della nuova Italia”, Bari 1915, afferma che Mastriani “era letto un po’da tutti all’infuori della gente letterata”.

   Antonio Gramsci invece, lo ritiene il massimo esponente del romanzo d’appendice che a suo dire, è da inserire nel basso romanticismo. In tal senso Mastriani è un minore della letteratura italiana secondo il filosofo marxista.

   In realtà è difficile inquadrare in un filone determinato l’opera di Mastriani anche perché ha scritto qualcosa come 900 lavori tra romanzi, novelle, articoli, poesie, commedie, discorsi funebri ed accademici.

   Egli è stato inoltre giornalista ma anche attore e critico teatrale: una personalità, dunque, versatile, eclettica, che si è spesa in ambiti anche profondamente differenti, uno scrittore nazional popolare che pubblicava i suoi romanzi in appendice ai giornali: il cosiddetto feuilleton diffusosi nei primi decenni dell’Ottocento che narrava a puntate, storie che appassionavano il grande pubblico. “I miserabili”, “I tre moschettieri”, tanto per citarne alcuni dei più noti, sono stati dei feuilleton entrati nel novero dei romanzi non contaminati dall’oblio.

   Tra i romanzi d’appendice, “La cieca di Sorrento” un’opera in cui, nonostante l’ambientazione borghese, risaltano le tematiche sociali, le condizioni dei diseredati, degli ultimi, verso i quali lo scrittore manifesterà sempre un sentimento di profonda empatia. “La cieca di Sorrento” ha visto la realizzazione sia di un dramma rappresentato al teatro La Fenice sia di un film di successo.

   Tra i saggi “Due feste al Mercato”, opera a mio avviso, tra il romanzo e il saggio storico che fa vivere al lettore la tragedia della rivoluzione del ’99, riuscendo a non parteggiare in maniera fideistica per l’uno o l’altro schieramento senza però scadere nella neutralità qualunquistica e demagogica.

   Mastriani riesce a farci appassionare e a farci sentire vicini a chi come Eleonora Pimentel Fonseca, ha sacrificato la sua vita all’ideale repubblicano e a chi come la Sanfelice, è stata travolta da eventi di cui non aveva la consapevolezza necessaria. Riesce al contempo a narrare sia le “porcherie” di Ferdinando riuscendo però anche a restituirgli una complessità che una facile vulgata ha completamente oscurato, sia le nefandezze gratuite dei repubblicani anch’esse rei di massacri di gente povera ma soprattutto ignara di quanto avveniva.

   Sarebbe facile definire questo atteggiamento equidistante e comodo, in realtà la sua narrazione compie una scelta di fondo: il nostro paese non può continuare a dover scegliere tra i Montecchi e i Capuleti, i Guelfi e i Ghibellini, gli Orazi e i Curiazi.

   L’Italia se intende progredire, ma potremmo dire l’umanità intera, deve abbandonare l’atteggiamento di chi sceglie pregiudizialmente una parte anziché l’altra e comprendere che la scelta deve essere relativa e che ogni idea, anche la migliore, può avere ricadute nefaste.

   Probabilmente è stata questa scelta di metodo a isolare Mastriani dagli intellettuali del suo tempo e a determinare un giudizio sulla sua opera non proprio lusinghiero tanto da considerarla minore.

   In realtà i suoi romanzi hanno descritto, in un linguaggio fruibilissimo da tutti, riuscendo però a mantenere eleganza, tono, stile; il ventre di Napoli, i suoi bassifondi, la miseria morale, materiale, culturale della plebe ma non solo della plebe.

   Anche nei suoi romanzi è riuscito a rifuggire da facili e bolsi luoghi comuni che volevano il ricco cattivo e indifferente, il povero buono e generoso.

   L’indifferenza come la crudeltà, la bontà d’animo, l’amore per il prossimo sono trasversali alle classi sociali, non seguono una logica di censo o di status. Lo status di provenienza può potenziare o indebolire tratti della personalità umana ma non può annullare del tutto una disposizione all’apertura verso il prossimo o alla chiusura.

   Di questo probabilmente era convinto il Mastriani, convinzione che gli derivava dalla sua stessa esperienza di vita che lo ha visto povero, tanto da dividersi durante tutta la sua vita tra l’attività di scrittore e mestieri tra i più disparati come impiegato della dogana, compilatore di giornale di corte, insegnante di lingue e guida per i turisti.

   Purtroppo né la copiosa attività letteraria né il suo impegnarsi in lavori tra i più vari, riuscirono a fargli superare la precarietà economica che lo costringerà a cambiare continuamente abitazione perché non riusciva a pagare il fitto.

   Pare che abbia fatto in tutto una trentina di traslochi. Ultima abitazione la casa di San Gennaro dei poveri dove morirà il 7 gennaio 1891. I familiari non poterono neanche pagare il funerale.

   Matilde Serao, qualche giorno dopo la morte dello scrittore, pubblicò un articolo sul Corriere di Napoli nel quale affermò: “…la qualità simpatica che più lo fa amare dal pubblico popolare, la qualità che tanti artisti, di lui cento volte migliori, non possiedono, è l’emozione”.

   Solo la sensibilità femminile poteva individuare la caratteristica pregnante della scrittura del Mastriani, una specificità che coinvolge, prende, penetra e colpisce la mente di chi legge questo scrittore che più che anticipare il verismo, ha dato dignità all’emozione, al sentimento, allo sguardo empatico verso chi soffre.

   Sulla facciata del teatro San Ferdinando di Napoli, accanto al busto di Francesco Mastriani, si legge una iscrizione dettata da Giovanni Bovio “…in un altro paese sarebbe morto ricco, ma l’Italia, povera come lui, non merita rimprovero”.

    Sulla facciata della casa che fu del Mastriani sita nel quartiere Sanità, il 23 aprile del 1950, Alda Croce, inaugurò la lapide con la semplice scritta: in questa casa si spense Francesco Mastriani MDCCCXIX-MDCCCXCI.

   La lapide a tutt’oggi consunta al punto che a stento si legge, è stata oggetto di petizioni e di istanze di cittadini del quartiere, di intellettuali che non ritengono dignitoso che, a due secoli dalla nascita di uno dei più grandi scrittori napoletani, si continui ad ignorare quello che è stato un rappresentante della migliore letteratura napoletana e italiana, che ha saputo descrivere gli amori, i vizi, le virtù di questo popolo di cui abbondano le stereotipie, le etichette insulse, comodi luoghi comuni che non ci consentono di comprendere fino in fondo, la realtà di una città definita “Un paradiso abitato da diavoli”.

   La lettura dei romanzi di Mastriani ci fa entrare in questo “paradiso diabolico”, in questo ossimoro caleidoscopico, multiforme, contradditorio e ci conduce alle radici dei comportamenti dei napoletani troppo spesso ascritti ad una caratterialità naturale. Mastriani all’anima del napoletano restituisce la storia: lo fa senza “la boria dei dotti” che hanno capito tutto e senza il malcelato intento di giustificare ciò che giustificabile non è.

   Per questo andrebbe studiato nelle scuole, raccontato ai giovani che spesso si chiedono il perché delle storture di una città che è tra le più belle del mondo. Sembra che, a causa del carattere del popolo napoletano, la città sia costretta a non decollare mai dalla sua miseria, dal degrado, dall’arrangiarsi continuo perché tanto è sempre stato così e sempre così sarà.

   Mastriani ci invita ad abbandonare la retorica, ad andare oltre la narrazione sterile, ripetitiva e distruttiva, ci invita a guardare con una ragionevole passione al dramma del popolo napoletano, a comprenderlo senza giustificarlo per poter narrare un giorno un’altra storia: una storia che restituisce a questa città la sua dignità, il rispetto, l’onore oggi con troppa disinvoltura calpestato e vilipeso da chi non conosce e per questo non può amare la storia di una delle più belle città del mondo.

   Francesco Mastriani ci invita oggi a ritrovare e a difendere la bellezza della sirena partenope, che a tutt’oggi incanta e intimorisce, avvolge e respinge, tace e grida avviluppata in contraddizioni che possono costituire la nostra rinascita. O la nostra fine.

                                                                                                                 OLIMPIA AMMENDOLA