OCCHI STRANIERI SU MASTRIANI

   Forse l’attualità di Francesco Mastriani si rivela soprattutto nel fatto che non smette di regalarci sorprese. E se negli ultimi anni l’editore Guida ha preso a pubblicare una serie di romanzi d’appendice mai stampati in volume [1], dalle più disparate ʺcarteʺ continuano ad emergere testimonianze inedite. Come nel caso del ʺprofiloʺ francese di John Peter del 1887, finora mai tradotto e ignorato dalla critica.

   Lo scritto fa parte di un secondo volume di etudès napolitaines – titolo in verità abbastanza pretenzioso – pubblicati negli anni ’80 dell’Ottocento che, pur non essendo decisamente un’opera d’arte, riservano più di un motivo d’interesse, sia storico che letterario. Peter non era, infatti, il «viaggiatore inglese» che qualcuno ha sbrigativamente ritenuto. Non si chiamava neppure John, ma Jeans-Charles: era svizzero, aveva vissuto per un certo periodo a Parigi, ed era un pastore protestante. A Napoli, John Peter guidò la chiesa francese per vent’anni, dal 1866 al 1886: circostanza che basterebbe da sola ad accendere la curiosità intorno alla sua produzione letteraria e al fenomeno (nonché al ruolo religioso e politico) del proselitismo protestante negli anni a cavallo tra la fine del Regno napoletano e la nuova Italia.

   Ma a noi interessa, per ora, il suo profilo di Francesco Mastriani, che trae certamente spunto da un precedente articolo di Federigo Verdinois – al quale Peter rivolge precisi riferimenti – pubblicato cinque anni prima. Fu proprio Verdinois, nella sua raccolta di Profili letterari del 1882, a consacrare la figura di letterato vessato dall’urgenza della vita, dalla quale Mastriani non si sarebbe mai più liberato; e persino quell’intervista era stata il frutto di un cattivo scherzo:

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   «Mi si presentò un primo d’aprile per uno di questi pesci che gli avevano fatto pescare. Una mia lettera lo invitava ad un abboccamento per una certa opera sulla quale bisognava mettersi d’accordo. Venne tutto premuroso, mi domandò di che si trattasse, mostrandomi la lettera che io non mi avevo mai sognato di scrivere. Lo guardai con una simpatica curiosità, maravigliandomi trovarlo così vivace e nervoso e pieno di foga giovanile in una età che da un bel pezzo ha dato addio alla primavera della vita […] Di che cosa mi parlasse non saprei ripetere. Certo, mi svolse davanti dieci tele di romanzi e andò via tutto soddisfatto, tessendone una undecima. Tele, naturalmente, di fabbrica tutta sua ed originali come lo stile e la lingua».

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   Cinque anni dopo, riprendendo in larga parte l’articolo del Verdinois, John Peter compilò il suo ʺprofiloʺ del già popolarissimo autore, che lui stesso aveva incontrato tra le strade di Napoli, presentando ai lettori francesi anche quelle che considerava le opere più significative: I vermiI lazzariIl mio cadavere e La cieca di Sorrento, ritenuta già all’epoca il suo capolavoro.

   Sempre riprendendo Verdinois, Peter concludeva il suo articolo – che aveva intitolato Il romanziere del popolo – sottolineando come Mastriani fosse «un exemple frappant des misèrables conditions littèraires qui ètouffaient autrefois le mèrite en Italie, point de comparaison utile avec les conditions d’aujourd’hui, plus favorables au talent», ovvero, un notevole esempio delle miserabili condizioni letterarie che soffocavano un tempo la meritocrazia, in confronto alle attuali condizioni, più favorevoli al talento.

   «Un tempo» sarebbe, ovviamente, quello dei Borbone. Ma è veramente così? C’entra davvero, la politica con la fortuna di Mastriani? C’entra eccome, secondo il legittimista Giuseppe Buttà, che nel 1877 scriveva contro di lui parole di fuoco.

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   «Si sa tutti che l’illustre Francesco Mastriani, dal settembre 1848 al 1850, fu redattore ordinario del giornale officioso Il tempo, che predicava a piena voce la reazione. Si sa pure, che il medesimo Mastriani, pieno di meriti e virtù, nel 1850, fu assunto al redattore del Giornale officiale di Napoli; e ne’ suoi articoli finiva sempre con un elogio all’augusto, al clemente, all’ottimo massimo re Ferdinando II. Era tale e tanta la fiducia che la polizia borbonica avea in Mastriani, che lo elevò a revisore della stampa. […] Oggi tutt’altro, l’illustre romanzatore napoletano cambiò livrea; leggete il suo romanzo i Vermi, o l’altro le Ombre, e troverete il liberale sempre probo, caritatevole, indiffettibile: il borbonico, il prete della misericordia! la sintesi di tutti i vizi e le infamie. Oh Mastriani! A che ti giovarono tante evoluzioni […] Tutti dobbiamo vivere, ma si sa che nei grandi bisogni, tutto si baratta fuorché l’onore e la coscienza e tu oggi vuoi vituperare i Borboni, abbruciando ciò che adorasti, e adorando ciò che bruciasti? Sta male, malissimo! […] Certi esseri, talora, per una suicida carta moneta, sono capaci di calunniare la memoria dei propri padri, l’onore delle mogli». [2]

 

   È un giudizio molto duro. Ma il successo popolare di Mastriani, che prima del 1861 pubblicò appena 14 dei suoi 106 romanzi, è la più evidente dimostrazione che simili considerazioni non pesarono affatto sul vasto pubblico dei suoi lettori. Un successo duraturo che tuttavia male si accorda anche alle presunte «condizioni più favorevoli al talento» dell’Italia post-borbonica, di cui parlano Verdinois e Peter. Poiché la vicenda umana e letteraria di Mastriani è la paradossale dimostrazione dell’esatto contrario: ovvero che nella nuova Italia si potesse vivere di stenti nonostante un grande successo popolare.

   Se da un lato, infatti, sono lecite le critiche allo stile «scorretto» di Mastriani che lo porteranno ad essere poi annoverato tra gli «scrittori di romanzi che non hanno avuto l’onore di salire fino alle supreme altezze dell’arte», non è altrettanto convincente la conclusione di Verdinois, che lo addita a «prova vivente – e vivente a gran fatica – della nostra misera condizione letteraria d’una volta». Ancora una volta, è chiaro il riferimento al periodo borbonico. Ma così scrivendo, Verdinois cade in un’evidente contraddizione: perché la miseria che mortificava Mastriani era attuale, si riferiva a quel 1882, ed era paradossalmente contemporanea al suo successo popolare (ma non alla vera stagione del suo talento, che lo stesso critico ricollegava alla Cieca di Sorrento del 1851: un altro paradosso).

   Ma veramente – come gli rimproverava aspramente il cattolico legittimista Buttà – Mastriani nelle sue opere attaccava il periodo borbonico? Il punto, forse, è proprio questo. Perché a rileggere i suoi romanzi scritti per la stragrande maggioranza (92 su 106) dopo il 1861, l’impressione è piuttosto un’altra. E cioè che, con «vivo sdegno contro gli oppressori e pietà per le vittime», nel suo ʺbrodo popolareʺ e tra mille invenzioni e peripezie storiche, Mastriani racconti piuttosto il degrado materiale e morale di un’epoca più recente e a lui contemporanea: ovvero il sostanziale fallimento di quella stagione liberale degli anni ʹ70 e ʹ80, nata sotto i più nobili quanto controversi auspici risorgimentali, ma attraversata da una desolata mancanza di solidarietà sociale (valore per lui fondamentale, che leggeva in fase cristiana).

   Fu proprio il fallimento di quel primo ventennio della nuova Italia a portare alla catastrofe degli anni ʹ90 – periodo trascurato e sottovalutato dalla storiografia – con tante rivolte popolari che incendiarono l’Italia da Nord a Sud, l’intervento dell’esercito e le città in stato d’assedio; gli scandali finanziari (anticipati dalle banche-truffa di Napoli negli anni ʹ70) come quello della Banca Romana, e il fenomeno dei Fasci dei lavoratori in Sicilia.

   Non è un caso che Gerorges Hérelle sulle pagine della Revue de Paris cominciasse il suo articolo su Mastriani, intitolato Un romancier socialiste en Italie, parlando proprio dei recenti avvenimenti siciliani. Contro le rivolte – diceva il traduttore di D’Annunzio – a poco era servito occupare l’isola con 60 mila soldati: la protesta era ripresa perché «le mal avait des racines profondes». E proprio per spiegare queste radici profonde, Hérelle ricorreva allo studio delle opere di Mastriani. fu notoriamente questo articolo a destare l’attenzione di Benedetto Croce, che – sorvolando tuttavia sulle premesse politiche e sbagliando anche a citare il titolo – in un saggio sulla Critica lanciò nel 1909 il suo appello: «Si fanno tante ricerche e saggi critici su argomenti poco interessanti; ma nessuno ha pensato a dedicare un saggio al povero Mastriani».

   Appello che fu raccolto pochi anni dopo da Gina Algranati, autrice di un breve saggio che ripercorreva la produzione di Mastriani, riprendendo anche l’articolo di Hérelle, ma il cui titolo era sostanzialmente cambiato: da Un romanziere socialista in Italia a Un romanziere popolare a Napoli. A parte il ridimensionamento, dal livello nazionale a quello locale, è evidente l’allontanamento dal tema politico, con la scomparsa di quella parola – socialista – che nel 1914 doveva ispirare non poca diffidenza negli ambienti borghesi e liberali italiani. Forse per questo, non potevano rendersi conto, né Croce né la Algranati (né se ne accorse Matilde Serao) di ciò che invece gli occhi stranieri di Hérelle erano riusciti a vedere: ovvero che Mastriani aveva raccontato, seppure nel suo ʺbrodo popolareʺ, le radici malate della nuova Italia, precorrendo in qualche modo, quasi come ʺantenato dello spiritoʺ, il racconto – ben più compiuto e moderno – sviluppato nei Viceré (1894) di De Roberto e nei I vecchi e i giovani (1909) di Pirandello; e più tardi nel Gattopardo (1958) di Tomasi di Lampedusa.

   Un racconto del sostanziale fallimento, politico e sociale, della controversa stagione risorgimentale, che ha pesato e pesa come un’ombra sul cuore della storia d’Italia, continuando a generare ancora equivoci e risentimenti. Ma se Croce e la Serao, per un’ambigua miopia generazionale, non poterono fare altro che dirgli «povero vecchio» – inutile suffragio che non onora la memoria di Mastriani – le nuove iniziative, editoriali e di studio, stanno contribuendo a ridefinire un profilo sempre più complesso del romanziere, in attesa che trovi finalmente un’onesta e adeguata collocazione nella tradizione letteraria italiana.

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[1] L’editore Guida di Napoli ha pubblicato in volume i romanzi usciti nelle appendici del Roma negli anni 1883-90: La malavita (2016), La iena delle Fontanelle (2017), Carmela (2017), La spigaiola del Pendino (2017), L’assassinio in via Portacarrese a Montecalvario (2018), Kari-TismèMemorie di una schiava (2019), Pasquale il calzolaio del Borgo Sant’Antonio Abate (2019), e Lucia la muzzonara (2020).

[2] Butta, I borboni al cospetto di due secoli, Napoli, TIPOGRAFIA DEL GIORNALE LA DISCUSSIONE, 1877, vol. I, pp. 307-308.

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   GIUSEPPPE PESCE è nato a Napoli nel 1977. Si è laureato in Lettere Moderne all’Università Federico II di Napoli. Si è specializzato successivamente in Drammaturgia e Cinematografia. Freelance, autore ed editor è stato cronista del quotidiano «Il Mattino» di Napoli, e Documentarista per «La Storia siamo noi» (RAI). Ha collaborato con diversi editori, ideando e curando numerose pubblicazioni.