PARIGI

   Fra le persone, che ultimamente accompagnavano le LL. AA. RR. il gran Duca e la gran Duchessa di Baden a Parigi, ravvisai il barone di Gemmingen, maresciallo di Corte. Questo nome mi fece ricordare una delle più belle pagine, che abbia scritto l’autore di Dieci anni d’emigrazione, un magnifico quadro de’costumi monastici dell’ultimo secolo, in cui si vede quanto era amabile la divozione sotto i lineamenti e sotto il governo d’una Gemmingen, nobile e gentile abbadessa d’un monastero d’oltre-Reno.

   Nel 1800, un nostro compatriota, allora uffiziale nell’armata austriaca, fu distaccato in un gran borgo della Franconia, non lungi del quale si trovava un convento di dame Benedettine, ove appunto, presso la mensa abbaziale, nel sito degli ospiti, fu assegnato il suo alloggio.

   Immediatamente si presentò a lui una monaca per prendere i suoi ordini circa le ore de’suoi pasti; ed egli, profittando di tale occasione, pregò la suora di domandare alla signora badessa il permesso poterle tributare di persona il suo rispettoso omaggio.

   Un tale favore gli venne tosto concesso; sicché, dopo il pranzo, l’uffiziale, aggiustatosi alla meglio un po’di toletta, si avviò per tanto eseguire, ritenendo di dover salutare qualche venerabile dama aggrinzita, indifferente, contegnosa, senza dir dispettosa e brutta.

   Immaginate la sua sorpresa, quando sotto il velo vide, non già una donna, ma bensì un angelo di bellezza, che sembrava raggiungere il ventesimo anno! Era pieno di spirito, di grazie, di cognizioni letterarie, e dotata del più gaio umore. E in quanto alla sua nascita ed al suo orgoglio genealogico, ognuno s’ingannava fino a credere essere i Gemmingen usciti d’una famiglia del patriziato romano, i Geminius. Come? Religiosa con tali requisiti, chiusa in un chiostro, ritirata dal mondo? Sì, ma i suoi parenti non avevano avuto la benignità di consultare le sue inclinazioni; il loro piacimento le tenne luogo di vocazione, e dopo due anni appena la sua sorte ebbe un po’di conforto, quando ebbe il titolo di abbadessa. Alta dignità con magnifici diritti, indipendenza assoluta, nessun conto a rendere che a Dio, insomma, sovranità temporale e spirituale; omaggio solo a Monsignor Vescovo di Bamberga.

   Alla vista d’una sì bella donna, circondata da sorelle, la più parte delle quali giovani ed avvenenti, il nostro gentiluomo fu un poco scompigliato; ma siffatto suo repentino turbamento, di cui si capì la causa, gli servì benissimo per introduzione.

   «Come dovrò io chiamarvi? – diss’egli, dopo di essersi rimesso da quella prima impressione – Mia madre? Un tale titolo non vi conviene, giacchè io potrei esservi nonno».

   «Chiamatemi sorella».

   «Ciò non si concilia col rispetto, che vi debbo».

   «Chiamatemi dunque Signora».

   «Sì, signora, gnadige Frau (graziosa, gentile signora)».

   In tal modo l’uffiziale non faceva che seguire l’esempio dello stesso cappellano e de’visitatori, i quali tutti davano un simile titolo alla contessa di Gemmingen.

   Dopo il desinare, che fu sufficientemente allegro, il signor de Nuilly si fece a passeggiare solo con lei ne’giardini del Monastero, e la conversazione cadde su svariati soggetti, non escluso l’amore. Dio perdoni! Ciò fu al domani come alla vigilia, e così fino alla partenza. Tutt’i giorni l’ospite sedeva alla mensa abbaziale, e diceva ch’era l’oggetto delle più affettuose attenzioni di tutte le suore giovani e vecchie. Servizio elegante, biancheria magnifica, vasellami in argento, vini scelti, trattamento delizioso. Fiori per tutto, fiori rari in vasi, in casse, sulle mensole, ai piedi d’imponenti statue di santi; nel vasto salone di muro in istucco l’addobbo era severo, ma non tristo; e tutte le sere l’uffiziale, giuocando alle carte, si faceva a raccontare storie di spiriti o di ladri. Erano passate tre settimane, rapide come sogno, quando arrivò l’ordine della partenza.

   «Ecco, diss’egli, mostrandolo all’abbadessa, ecco quello che mi fa disperare!».

   Ella non si mostrò meno dispiaciuta a quei tristi e melanconici detti.

   «Porterò da qui ben dolci ricordi».

   «E voi ne lascerete del pari».

   Non è questo un idillio?

   Quella maniera d’intendere l’esistenza claustrale ne raddolcisce molto i rigori: ma che farebbe mai siffatta bonarietà tedesca a fronte della tolleranza portoghese, se bisogna credere ad uno istoriografo del famoso duca di Lauzun?

   Costui era a bordo dell’Aigle insieme a diversi suoi compagni, tra i quali si distinguevano i Sig. de Broglie, de Montesquien, de Segur ecc., il quale si fermò all’isola di Tersera, ove eglino essendo di sbarcati vennero ammessi a visitare il convento del luogo. In effetti, introdotti nel parlatorio, videro dietro la grata tutto il personale della Casa con l’Abbadessa alla testa tenente in mano il suo bastoncello. Essa si pose a dire:

   «Signori, vi prego di offrire i nostri omaggi a queste giovani suore, le quali esercitandosi un poco nell’arte di piacere, saranno un giorno più amabili coi loro consorti, mentre quelle, che si consacreranno alla vita religiosa, avendo sperimentato la sensibilità delle loro anime, ameranno Iddio con maggiore fervore.

   Immediatamente s’impegnò la conversazione coi gesti e cogli sguardi più che con le parole. Vi furono complimenti da una parte e dall’altra, e, Lauzun preferito da donna Maria – Angelica – Francesca – Genovesa, ebbe da costei una rosa con un sorriso de’più incoraggianti. Egli poi le presentò un angolo del suo fazzoletto, ch’ella prese tosto e gli strappò dalla mano scherzando; poscia glielo porse a sua volta, e cercò di attirarlo dalla parte sua. «Dolce vibrazione, disse allora il Sig. di Sègur, la quale passa celeramente dalle mani al cuore» – Egli soggiunse: «Noi tutti seguimmo con trasporto quell’esempio; sicché i fazzoletti svolazzarono dalle due parti, gittandosi a vicenda fuori; e, come le nostre giovani portoghesi ci lanciavano sguardi che sembravano manifestare il desiderio di abbattere le inferriate, così ci credemmo obbligati a rispondere a siffatte tenere dimostrazioni, inviando loro caldi baci. «I fazzoletti servivano ancora qui di comunicazione: ai baci successero i dolci biglietti, le canzoni e le danze. Sì, le danze, con la grata tra i due sessi, la quale, al secondo appuntamento, sembrava essere scomparsa, perché era stata nascosta sotto ad innumerevoli ghirlande di fiori. In quel giorno ebbe luogo un concerto, in cui l’ammiratrice di Lauzun improvvisò un lungo cantabile a doppio senso, raggiransi sulla parola passione, la passione del Salvatore, e la passione che invade le giovani anime infiammabili. Or volete sapere chi marcava il tempo? La signora badessa col suo bastoncello!

   Abbrevio i ragguagli di tale scena singolare, che invece sembra inverosimile. Ma almeno non le si può ricusare il merito d’essere piccante, e l’eroe di questo romanzo ha avuto qualche ragione di scrivere nelle sue memorie «Io non ho mai veduto costumi più bizzarri, né conciliare sì comodamente l’amore di Dio con l’altro.»

   Cristina regina di Svezia pensava forse a’costumi di simil genere, quando si recò tra noi nell’abazia di Lys, tra Melum e Fontainebleu. Ciò che la colpì dapprima fu una enorme grata munita di punte di ferro. Quando l’abbatessa seguita da tutta la comunità pose fine al piccolo discorso diretto alla regina, questa le disse:

   «Mi permettete che vi faccia una domanda? Avete voi fatto voti di clausura?».

   «Sì, Signora».

   «Eh! che follia! – riprese scoppiando dal ridere quella principessa filosofica – Se avete fatto il voto, a che questa grata? E se avete la grata, a che i voti?».

   S’ignora ciò che rispondesse l’abbadessa, ed io felicemente non ho la missione di rispondere per lei.                        

               FRANCESCO MASTRIANI