PROMEMORIA PER FRANCESCO MASTRIANI

  1. Letteratura minore

   Ragionare su Mastriani sembrava, fino a oggi, una scommessa difficilissima. Ancora più azzardato poteva essere un bilancio generale della sua opera. Come, in un intervento capitale, sottolineava Domenico Rea, «Non tutti hanno letto le 114 opere di Mastriani»[1]: un autore che Giovanni Faldella aveva giudicato «prolifico come le acciughe». Tutte queste riserve sembravano lecite, fino a quando Francesco Guardiani, di cui è uscita una risistemazione dell’intera opera di Mastriani, ha intrapreso una capillare e organica interpretazione del mondo dell’autore dei Misteri di Napoli. La sua ricerca legittima la necessità di leggere tutti i romanzi, uno per uno, ripercorrendo le loro aggrovigliate vicende e organizzandole in una originalissima trama critica.

   Quali erano le questioni sul tappeto? Quali ostacoli rendevano complicato l’avvicinarsi a Mastriani e la monstrum delle sue opere? Si può anche partire da una definizione di Rea, che salda in un solo vincolo Mastriani e Napoli. Della città il romanziere è programmaticamente l’osservatore, l’analista, il cantastorie. Rea scrive che Mastriani è «la personificazione di una speciale inafferrabile città» [2]. Egli incarna “la voce recitante del quarto stato purgatoriale napoletano”, rappresentato con l’energia di un «flutto verdiano». Il paragone con Verdi è assai efficace, ma non basta. Rea aggiunge un’altra serie di rimandi, che aiutano a intendere quali siano  le coordinate, elementari e vigorose, del mondo narrativo di Mastriani: «Come in Omero, nell’opera dei pupi e nel Melodramma, cattivi e buoni sono tutti d’un pezzo». Questo universo essenziale, popolato di sentimenti estremi e di situazioni tese fino al limite, ha bisogno di uno stile adeguato, che trova nelle parole di Rea una definizione potentissima: «uno stile fulmineo e verticale».

   Qualche altra considerazione su Mastriani la si può aggiungere ragionando sul ruolo che lo scrittore napoletano nella ricostruzione operata da uno dei suoi lettori moderni più acuti: Antonio Palermo.

   Più volte Antonio Palermo, con la proverbiale leggerezza nota a tutti, ha tranquillamente confessato di lasciare con piacere ai suoi colleghi lo studio degli autori principali della letteratura italiana. Altri critici potevano pure dedicarsi alla conoscenza dei monumenti più solenni del patrimonio nazionale. Potevano riprendere e interrogare gli scrittori celebri, che hanno dato contenuto e forma al canone della storia letteraria. Egli, senza nessun disagio, si sarebbe occupato degli scarti, degli emarginati o dei sommersi. In altre parole, sarebbe stato lieto di rivolgere la sua attenzione a quegli autori che restano nascosti nelle pieghe della storia e che si trovano ai margini del sistema letterario quale si è consolidato negli anni. Questi scrittori o poeti vivono una loro vita periferica, laterale, esclusi dalle vie maestre della cultura egemone. Sono dimenticati dentro un magazzino di memorie appannate, confusi in mezzo ad altre cianfrusaglie di poco valore. Paradossalmente Palermo si spingeva a utilizzare un’immagine cruda e icastica, ma esemplare nella sua evidenza. Rispetto ad altri studiosi, che maneggiano gli oggetti preziosi del salotto di casa, avrebbe recuperato la spazzatura nascosta sotto il tappeto buono e l’avrebbe riportata alla luce.

   Al di là del paradosso, questa scelta contiene una logica precisa, che ad Antonio Palermo era perfettamente chiara. Egli avrebbe rivolto una parte delle sue forze a interrogare il senso e l’esistenza di quella letteratura a cui diamo il nome di minore: in relazione al ruolo degli autori e anche alla tipologia dei generi. Ne avrebbe tracciato i percorsi e identificato lo spirito che la governa. Avrebbe riascoltato le sue voce e avrebbe provato  a dare a loro una nuova e altra vita.

   Questa scelta di campo non indica affatto la predilezione per qualunque tipo di folclore. Un interesse di questa natura è completamente estraneo agli studi e al carattere di Antonio Palermo. L’idea di una letteratura minore, lo possiamo dire a distanza di anni e in relazione ai risultati che ha prodotto, ha per lui un contenuto severo e impegnato.  

   È, di fatto, più vicina all’idea di letteratura civile: proprio con il significato che assume nel titolo del volume del 2000. Anzi, se si vuole, il concetto di letteratura minore si congiunge, per sentieri impensabili e sorprendenti, alla definizione data da Gilles Deleuze: una definizione che non sarebbe dispiaciuta all’intellettuale collaboratore di Nord e Sud.

   Per il filosofo francese uno dei caratteri costitutivi delle letterature minori è che «in esse tutto è politica», giacchè «l’esiguità del suo spazio fa sì che ogni fatto individuale sia immediatamente innestato sulla politica […] e diviene quindi tanto più necessario, indispensabile, ingrandito al microscopio, quando più in esso si agita una storia ben diversa». Ne segue che «dal momento che la coscienza collettiva o nazionale è “spesso inattiva nella vita esterna e sempre in via di disgregazione”, la letteratura viene ad assumere positivamente su di sé questo ruolo e questa funzione di enunciazione collettiva […]. È la letteratura che produce una solidarietà attiva, malgrado lo scetticismo; e se lo scrittore resta ai margini, o al di fuori, della sua fragile comunità questa situazione lo aiuta di più a esprimere un’altra comunità potenziale, a forgiare gli strumenti di un’altra coscienza e di un’altra sensibilità». Gli scrittori amati da Palermo evocano, nei modi diversi che appartengono a ciascuno di loro, il sogno di quest’altra storia e di quest’altra comunità. Insieme danno l’immagine di una genealogia e di una tradizione, che va da un punto a un altro e descrive la storia sotterranea di una cultura.

.

  1. Gli esempi

   L’esempio più esplicito di questa tendenza è rappresentata dal libro Da Mastriani a Viviani, pubblicato nel 1972 e poi nel 1987. Si tratta del saggio forse più famoso di Antonio Palermo, che, in una maniera fino ad allora inedita, dava consistenza e visibilità alla moderna tradizione letteraria napoletana. Nella nota di presentazione del 1987, Palermo ribadisce il prolungarsi dell’indifferenza e dell’immobilità rispetto alla «situazione testuale della densissima stagione letteraria che va appunto da Mastriani a Viviani», sottolineando, come una purissima eccezione, i lavori di Francesco Bruni.

   Anzi, il quadro, rispetto agli anni precedenti, è ancora più cupo, dal momento che «si direbbe che l’hanno connotata, rispetto al felice avanzamento critico-filologico di quelle coeve, dalla lombarda-piemontese alla siciliana, proprio per la sua singolarissima stasi» [3]

   A dar conto subito di una letteratura e di una traduzione che risultato minori, Palermo, nel capitolo intitolato a Mastriani, ribadisce esplicitamente quale sia la questione.

   L’autore dei Misteri di Napoli, proprio in relazione ai giudizi diversificati e sempre liquidatori che lo coinvolgono, patisce «una riprova della sua estraneità rispetto alla letteratura ufficiale» [4]. Una condizione, questa, che non tocca solo lui, ma, come osserva subito Palermo, quasi a mostrare il filo rosso che lo guiderà nella sua storia della cultura letteraria napoletana, «richiama, si potrebbe affermare, la condizione che sarà poi, per ragioni diverse, s’intende, di Ferdinando Russo o di Raffaele Viviani». [5]

   Eppure la fisionomia di Mastriani appare essere tutt’altra cosa rispetto all’immagine di un narratore semplice e sprovveduto. Possiede, prima di tutto, una costellazione di autori che fa di tutto per rendere esplicita: «ce li menziona, ce li ricorda, ce li cita, ce li travasa, con un’intemperanza che ha sapore di scandalo […] Stanno lì, ci dice, l’unico fastidio consiste nel compilarne un catalogo ordinato e circostanziato: il Rousseau di Nouvelle Heloïse, tanta Radcliffe, tanta Ginevra del Ranieri, e con moltissimi altri, compreso Balzac, Hugo (non solo dei Miserabili), Dumas e Sue, soprattutto Sue, come ci rammentano fin dal titolo i suoi Misteri di Napoli». [6] A questa gamma di autori si potrebbero aggiungere, senza troppa difficoltà, anche influssi che sembrano venire da Lewis o perfino da Sade. [7] Né è solo questo l’aspetto che Palermo mette innanzi ai suoi lettori. Mastriani è anche un abilissimo costruttore di macchine narrative, che si muovono soprattutto grazie a due formidabili principi strutturali quali l’agnizione e le digressioni.

   Queste due risorse sono riconosciute come distintive della tecnica dello scrittore sia nel saggio Nel vestibolo della letteratura: Francesco Mastriani che nel successivo Il socialismo gotico di Francesco Mastriani. In un ragionamento che prende mossa dal primo romanzo di Mastriani, Sotto altro cielo del 1848, si legge: «Nell’ambito del solido e collaudatissimo passe-partout delle agnizioni – che costituirà fino alla fine il suo inalienabile capitale di produttore coatto di beni di lettura – già qui c’è posto per una storia delle eruzioni del Vesuvio e degli scavi di Pompei oltreché delle varie tecniche, dei vari generi di pittura». Il ragionamento sulle agnizioni si fonde organicamente con «l’antica eredità dell’epopea», perpetuata attraverso «gli addii, le fughe, le sparizioni e […] i ritrovamenti».[8]

   Si mescola soprattutto con il piacere didattico delle digressioni e con la volontà del narratore stesso di essere voce del racconto, attore in prima persona che si rivolge al proprio pubblico e lo informa su quanto è opportuno conosca attraverso quelle «famigerate “carrellate culturali” che, con Mastriani, tanta narrativa più colta e più tarda certo non s’inibì». [9] Le digressioni «debbono esistere come il richiamo, l’informazione, la protesta sollecitati da una situazione di vita, non come cultura autonoma, disinteressata». [10] Tuttavia, non devono essere centrifughe rispetto all’asse del racconto. Il personaggio Mastriani, introdotto nel racconto secondo quella che a Palermo pare la «più cospicua invenzione strutturale di cui egli [Mastriani autore] sia stato capace», regola il disordine della trama. Prova a disciplinare quelle «intemperanze» [11] eccentriche mettendole a carico dello scrittore diventato personaggio. «Lo vediamo intervenire, discutere, citare esempi, avventure e disavventure personali, riportare articoli di giornali, passi di libri, suoi ed altrui, tabelle statistiche, informare o ricordare, insomma, farsi personaggio tra i personaggi». [12] Risuona qui l’eco lontana del giudizio di Benedetto Croce, uno dei pochissimi a guardare con attenzione, anche se da interpretare, alla produzione di Mastriani, in cui ritrovava «una continua protesta contro i vizi e le ingiustizie sociali; e vi si leggevano frequenti intromesse filosofiche, politiche e scientifiche, piene di buon senso, se non peregrine».[13]

   In questa rivisitazione delle proprietà della narrativa di Mastriani prende corpo un tipo di romanziere che fa del suo lavoro, con le capacità che ha e con l’impegno che vi immette, un mezzo di polemica sociale. Adotta il racconto come uno specchio, che rifletta i pezzi di quel mondo in cui hanno radici la sua vita e la sua storia. Lungo questa strada non c’è molta distanza tra gli obiettivi e gli impianti romanzeschi seguiti da Mastriani e le finalità del coevo Rovani. Nei suoi Cent’anni, infatti, egli progetta un romanzo misto, un corpo narrativo che insieme «è elegia, è lirica, è dramma, è epica, è commedia, è tragedia, è critica, è satira, è discussione: al pari dell’iride, ha tutti i colori, ed è per questo che si diffonde nel popolo, e piove come la luce di luogo in luogo e di ceto in ceto e d’uomo in uomo, e per l’onnipotenza sua appunto può recar danni funestissimi come vantaggi supremi; chè tutto dipende dalla mente che lo governa».

   Proprio questa ricchezza di esiti dà luogo a una molteplicità di orditi narrativi. Autorizza un lettore colto e appassionato come Francesco Guardiani a utilizzare la griglia articolatissima proposta dal Northrop Frye di Anatomia della critica per classificare le forme dell’intera enciclopedia romanzesca dello scrittore napoletano.

   Il progetto comunicativo e ideologico cui l’autore di 100 e passa romanzi ambisce, deve naturalmente fare i conti con la lingua che si sceglie e che diventa il medium necessario del programma da svolgere. Proprio su quest’aspetto le considerazioni di Antonio Palermo aggiungono elementi essenziali e descrivono con una sintesi illuminante, nell’intervento sul socialismo gotico di Mastriani, la fenomenologia degli usi attraverso cui passa l’operazione adottata. Ancora di più, è importante ritrovare, nelle parole di Palermo, la questione della lingua come Mastriani l’affronta e soprattutto come la risolve empiricamente.

   «C’è nella pagina di Mastriani qualcosa di irriducibile a questo [si riferisce alla Ginevra di Ranieri] come a tutti gli altri modelli, ed è il singolarissimo strumento espressivo, la “stranissima” lingua adoperata; un miscuglio cui non sono certo andate le simpatie dei contemporanei colti e dei posteri, ma del quale sicuramente si può dire che è il fedele corrispettivo della sbilenca scrittura narrativa, e che è capace, come questa, di accogliere tutto, passato e presente, alto e basso, con gli scrupoli di mediazione ridotti al minimo o addirittura soppressi». [14]

   Mastriani, spiega Palermo, si è costruito un proprio sistema espressivo. Ha cercato le mediazioni linguistiche tra il mondo plebeo, segregato e animale che voleva raccontare, e le possibilità che il linguaggio letterario egemone gli offriva. In questo modo, sceglie soluzioni che si propongono come un compromesso adeguato tra le parole e le cose e che siano differenti rispetto alla realtà  presentate altrove.

   Mastriani, cioè, «ha cercato sempre di operare una trascrizione in lingua, sia con l’invenzione grafica – e questo è accaduto nei romanzi sociali soprattutto per il ricchissimo lessico della malavita – sia con la versione letterale, seguita o meno da un commento esplicativo. Quest’ultimo ci fornisce insieme la misura della sua distanza di letterato dalla materia esibita e quella della sua comunanza socio-linguistica con essa, divenendo così cifra essenziale per cogliere la coscienza di classe dello scrittore».[15]

   Come dire che Mastriani prova a essere vicino a un mondo cancellato dalla storia, raccontandolo con una lingua che è insieme lontana e vicina alla sua identità, e che è contemporaneamente documentaria e letteraria, diretta e rielaborata.

   Tale doppia natura conduce a quella miscela che Palermo chiama «monstrum linguistico» [16] ed è questa la formula adatta a definire lo sforzo di dare voci a un altro universo. Ed è tanta l’influenza che «ci mostra di quanti rivoli si alimentasse poi sia il filone della farsa franco-napoletana di Scarpetta sia la commedia seria di costume, da Torelli a Bracco, cui Mastriani dette pure il suo diretto contributo».[17]

   Le osservazioni sulla lingua e sul carattere strano, mischiato, irregolare che essa possiede, possono spingersi oltre. Precisamente sulla scorta di queste indicazioni e del problema espressivo che richiamano, si può azzardare un ulteriore collegamento con l’idea di letteratura minore avanzata da Deleuze. Il primo tratto che egli assegna a questa letteratura è propriamente linguistico. Riguarda infatti l’uso che una minoranza, qualunque sia la sua connotazione, fa della lingua maggiore. Deleuze definisce questo un processo di «deterritorializzazione della lingua».

   «Si è discusso a lungo sul problema di cosa sia una letteratura marginale – o anche una letteratura popolare, proletaria, e via dicendo. I criteri sono ovviamente molto difficili da stabilire se non si passa innanzitutto attraverso un concetto più obiettivo, quello di letteratura minore.

   È soltanto la possibilità di instaurare dall’interno un esercizio minore d’una lingua anche maggiore che permette di definire popolare, marginale, ecc. una letteratura». Questa condizione produce un effetto carico di conseguenze: occorre «trovare il proprio punto di sotto-sviluppo, un proprio dialetto, un terzo mondo, un deserto tutto per lui».[18]

   Lo sforzo di Mastriani sembra poter essere un tentativo per trovare la forma dell’espressione adeguata alla vita sotterranea di Napoli: ai suoi misteri e ai suoi vermi. Come tutti i pionieri, forse il naufragio era il suo inevitabile destino.

.

   3.Storia antiquaria

   Resta da ribadire un ultimo punto. Ancora in uno dei saggi compresi nel volume Metamorfosi del vero, di cui si parlerà domani, Mastriani è richiamato «come un campione, sebbene sui generis, rappresentativo di una cultura emarginata; di una cultura cioè tacitamente collocata su un livello del quale si era autorizzati, per così dire, a non occuparsi». Quale scommessa o quale atteggiamento portava Antonio Palermo negli anni Sessanta ad interessarsi  della storia sommersa della cultura napoletana? Quale tensione spingeva a mettere in gioco questa rimozione, che sotterra Mastriani, o cancella le «rancorose esercitazioni di un escluso»[19] quali sono quelle di Ferdinando Russo, orientato «nella direzione del realismo più lutulento, che egli si sforzava di rendere con un dialetto al massimo greve, laido “sguaiato”» [20] o ignora le «stratificazioni del dialetto più immediatamente popolare» [21] messo in atto nel teatro totale di Raffaele Viviani?

   Quale atteggiamento critico occorre perché si trattenga la storia di quasi un secolo e se ne conservi la memoria? Una risposta viene forse da quell’atteggiamento verso il passato che Nietzsche chiama di specie antiquario.

   A differenza del sentimento monumentale della storia, che «abbisogna di modelli, di maestri e consolatori», il modello antiquario recupera i frammenti della vita passata, anche piccoli e sconosciuti, e li custodisce con cura: «si infiltra con passione, prevede cose confuse, afferra tracce quasi in evidenti, comprende con precisione e istintivamente il passato ancora tanto coperto di scrittura, fiuta cin rapidità i palinsesti, anzi i politesti – questi sono i suoi pregi e le sue virtù».[22]

   Forse questi pregi e queste virtù sono anche di Antonio Palermo, che sapeva ritrovare, in una letteratura che sembrava «vecchia e superata», «un proprio decoro e una certa inviolabilità».

   Questo restituire un senso a quando è rimosso o dimenticato accade solo se, come osserva Nietzsche, «l’anima dell’uomo antiquario, protettrice e adorante trasmigra in queste cose, e vi si prepara un nido familiare. La storia della sua città diviene per lui la storia di sé stesso […], trovando in tutto questo sé stesso, la sua forza, il suo studio, il suo divertimento».

   La vita di Francesco Mastriani passa anche attraverso l’importanza, la legittimità e il fascino di questi sentieri.

                                      MATTEO PALUMBO

.

[1] Le illuminazioni di Mastriani, in «Fate bene alle anime del Purgatorio», Napoli, Società Editrice Napoletana, 1973, pag. 114.

[2] Ibidem, pag. 117

[3] Antonio Palermo, Da Mastriani a Viviani, Napoli, Liguori Editore, 1987.

[4] Ibidem pag.18.

[5] Ibidem pag.18.

[6] Ibidem pag. 107

[7] Ibidem pag. 108

[8] Ibidem pag.114

[9] Ibidem pag. 116

[10] Ibidem pag. 120

[11] Ibidem pag. 119

[12] Ibidem pag. 17

[13] Benedetto Croce, vol. IV, p. 134

[14] Antonio Palermo, Da Mastriani a Viviani, Napoli, Liguori Editore, 1987, pag. 116.

[15] Ibidem pag. 117

[16] Ibidem pag. 21

[17] Ibidem pag. 118

[18] Ibidem pag. 31 (a pag. 31 non ho trovato lo scritto segnalato. Nota di Rosario Mastriani)

[19] Ibidem pag. 89

[20] Ibidem pag. 90

[21] Ibidem pag. 98

[22] Ibidem pag.107 (a pag. 107 non ho trovato lo scritto segnalato. Nota di Rosario Mastriani)