UN DELITTO LETTERARIO

   Inizio con una rassicurazione. La letteratura non ha mai ucciso nessuno, tantomeno gli editori o le case editrici. Al massimo, qualcuno sarà rimasto tramortito sotto il peso di voluminosi romanzi-mattoni, di μέγα ββγίο μέγα κακόν, (= grande libro-grande male) di callimachea memoria. Niente di grave, quindi.

   Delitto letterario, il titolo di queste pagine, alluderebbe semplicemente al fatto che un grande scrittore è stato tagliato fuori dal novero degli Autori che fanno parte della Storia della Letteratura italiana. Si tratta del napoletano Francesco Mastriani, romanziere e autore di testi teatrali che diede inizio alla narrativa di tipo realistico in Italia, quella che, per capirsi, con Capuana, Verga, De Roberto, fu chiamata Verismo.

   Ma come è potuto succedere che sia caduto nell’oblio un artista così importante, autore di più di centocinque romanzi scritti nell’arco di quarantatrè anni, dal 1848 al 1891? Delle probabili motivazioni che hanno portato a questa clamorosa esclusione, per l’appunto, intendo occuparmi, proponendo esempi concreti ricavati dai suoi romanzi, attraverso i quali apprezzare direttamente, de visu, senza i pregiudizi della critica, la grandezza e la bellezza della sua arte.

   Prima, però, vorrei premettere un ragionamento sul rapporto tra letteratura e riconoscimento sociale nell’Italia post-unitaria.

   Il letterato, cioè colui che decideva di intraprendere il mestiere di scrittore, doveva essere necessariamente dotato di risorse economiche adeguate, in grado di sostenere e di affrontare tutte le spese imprescindibili per affermarsi.

   Per tutto il tempo necessario, lo scrittore in erba doveva poter contare su spalle forti, ovvero su di una famiglia che gli assicurasse quantomeno un tetto sulla testa ed un pasto sicuro e, nella migliore delle ipotesi, amicizie potenti e gli agganci giusti presso editori e case editrici.

   Per poter raggiungere notorietà e fama, poi, doveva necessariamente scendere a compromessi, piegarsi all’ideologia del potente di turno e rinunciare, nella peggiore delle ipotesi, almeno a parte della sua libertà. In cambio delle fortune che l’Arte non gli avrebbe, certo, negato, in futuro.

   Ecco, su tutto questo il Nostro non poté contare. Non ebbe né famiglia blasonata alle spalle che lo potesse sostenere, né ebbe l’appoggio di nessun potente, anzi, si trovò a denunciare, a sua volta, lo stato di povertà in cui larghe frange della popolazione era costretta a vivere, per la soverchieria di pochi.

   Non ebbe la fortuna o forse anche la capacità di usare a proprio vantaggio il suo immenso ingegno e la sterminata cultura di cui fu certamente dotato.

   Costretto ad accettare condizioni non larghe di pagamento per sostenere la sua famiglia, i suoi figli che immagino gli costassero tanto denaro e una parte dell’anima, si abbandonò ad una produzione “selvaggia”, poco curata formalmente e ripetitiva.

   I suoi racconti, però, appassionavano soprattutto la gente minuta che trovava tra i protagonisti personaggi della propria classe. In altre condizioni di vita e in un altro paese, penso alla Francia di Emile Zola, l’autore avrebbe avuto quel successo che non gli spettò in vita e neppure dopo la morte, data la scarsità di notorietà a lui riservata.

   Propongo a questo punto, come esempio dell’arte mastrianea, un passo tratto da uno dei suoi più riusciti romanzi “Le Ombre” del 1868 che fa parte della trilogia costituita da “I Vermi” e “I Misteri di Napoli”:

   «La civiltà, allargando sempre più la cerchia de’fattizi bisogni dell’uomo, lo allontana a poco a poco dalla vita semplice e casalinga. Il giovine, avido di vive impressioni, bisognoso di espandere intorno a sé quella esuberanza di vita che lo agita e lo rende inquieto, intravede un oceano sterminato di felicità nell’amore. Allora egli fa una casa, nella quale introduce una donna che porta il nome di moglie, una giovane ricca di innocenza, di amore, di fede, un cuore che ama per la prima volta, educata nella religiosa solitudine delle mura domestiche, e che ha sognato il suo paradiso nell’affetto esclusivo di un uomo. Ma questo uomo non può offrirle che l’avanzo di una giovinezza sciupata nelle febbri dei ridotti, de’balli e de’disonesti veglioni… Vengono i figli… Viene il tempo tristissimo della miseria… i figliuoli affamati piangono, ed egli dà loro pugni e schiaffi invece di pane. Mamma, del pane, del pane! – . Ed ella è pensosa… una scheggia di specchio è rimasta ad una specie di tavoletta da acconciatura. Per la prima volta la misera s’informa che è ancora bella… Le batte il cuore… le tremano le membra. Una lagrima ardente le spunta sugli occhi… Dove vai, sciagurata? – Tu vai a precipitarti in un abisso nel quale non potrai più ritrarre il piede – Ella sembra vacillare; ha fatto un passo indietro per ritornare tra quelle mura, dov’è sempre tornata onesta e pura… Ma un grido straziante le risuona nelle orecchie: – Mamma del pane! – Sono trentasei ore che le sue creature non toccano cibo! La fame dei figli è una cosa terribile! La povera donna si allontana a passi concitati dalla sua casa. Ella si sdrucciola contro le mura, gitta li scompigliati capelli dietro gli orecchi per esporre il suo volto ai passanti, i suoi passi non fanno rumore, non è già una DONNA, MA UN’OMBRA! Oh, questa donna non si prostituisce… ella si immola… è una martire!».

   Fu questo il suo vero animo e la sua GRANDEZZA: nel descrivere il mondo che gli viveva intorno, lercio e prepotente, immerso nel fango morale e materiale di una vita senza scampo, chiusa e tetra, dove trovano spazio solo i bassi istinti e le passioni più turpi. Il Mastriani affrontò e descrisse quella che poi sarà chiamata “Questione meridionale”, da chi forse non ha ne ha mai compreso le cause e le ragioni vere. Lo scrittore la viveva in prima persona dall’interno e la dipingeva con una parola chiara, lineare e precisa, realtà e immagine, corpo e anima.

   In un tempo in cui non era possibile vivere di letteratura e mancavano editori e pubblico, è facile immaginare il Mastriani tra i banchi di scuola, “costretto” ad accettare l’incarico fisso dell’insegnamento e contemporaneamente intento a continuare la fervida attività di scrittore. Ebbene sì, il Nostro fu nominato docente di lingua e letteratura italiana, presso il Ginnasio “Domenico Cirillo” di Aversa. Non ci può sorprendere il fatto che tra tanti uomini illustri che il glorioso Liceo aversano (tra i più antichi d’Italia) ha avuto il privilegio di annoverare tra i suoi docenti, vi si sia stato anche un grande scrittore di romanzi e opere teatrali. A partire dall’anno scolastico 1874/75 durante il quale lo scrittore partenopeo portò a termine l’opera sua più riuscita, “I misteri di Napoli”. Bisogna aggiungere che l’incarico fu ricoperto a malincuore. Infatti, ogni mattina, lo scrittore era costretto a viaggiare in treno per raggiungere Aversa.

   Tuttavia, nelle circostanze più diverse, in vagone seduto accanto ad altri passeggeri come nelle aule scolastiche, non smetteva mai di scrivere e di pensare ai personaggi delle sue opere. Per un attimo, provo ad immaginarlo mentre passeggia all’interno delle aule del Liceo, magari nei corridoi, durante lo spacco tra una lezione e l’altra. Siamo a settembre quando viene nominato docente-supplente di lettere e viene accolto dal Preside dell’epoca che lo accompagna in una delle sue classi. Sembra distratto e trasognato, ogni tanto parla tra sé o meglio si rivolge ad interlocutori immaginari.

   Sono i personaggi delle sue opere che lo seguono ovunque: il “verme” cioè il “camorrista” che si arricchisce illecitamente compiendo violenze e soprusi ai danni dei più deboli, il buon padre di famiglia che fatica a rimanere onesto per sbarcare il lunario per la sua numerosa famiglia, la bella sedotta e abbandonata che la sorte salva grazie alla sua innocenza. Gli adii, le fughe, le sparizioni e i ritrovamenti fanno qua e là capolino e, contemporaneamente, appaiono nero su bianco nel momento in cui vengono immaginate dal nostro professore per poi ritornare nei suoi sogni, per farsi, poi, rimpastare ulteriormente con le vicende della realtà di tutti i giorni.

   Mentre varca la soglia dell’istituto, in piazza Cirillo, lo scrittore si guarda introno e fissa negli occhi tutti quelli che incontra, in particolare i suoi alunni, quasi a volerne capire le peculiarità fisiognomiche, per trovare nuovi spunti e nuove avventure per la fiumana dei suoi racconti.

   Eccolo entrare in IV A: gli alunni si alzano in piedi, impettiti e ben pettinati. Non tutti potevano sapere di trovarsi di fronte ad un grande scrittore, “lo Zola made in Italy”, il precursore del Naturalismo francese e del Verismo italiano. Piccolo di statura, calvo, con barba e baffi alla Napoleone III, indossava un vecchio vestito nero e un gilè bianco, con una boccettina d’inchiostro sempre in tasca, pronta per essere usata in ogni momento, per non perdere l’estro creativo che non lo abbandonava mai. Immagino che gli alunni lo guardassero con simpatica curiosità, meravigliandosi di trovare un professore così diverso dagli altri: così vivace e pieno di voga giovanile, in un’età (55 anni) che da un bel pezzo aveva dato addio alla primavera della vita. Parlava rapido e concitato, gesticolava e accompagnava con l’espressione degli occhi il significato delle parole.

   Scriveva di continuo, come ci racconta un suo contemporaneo, famoso scrittore e giornalista napoletano, Federico Verdinois, il quale non ha espresso un giudizio totalmente positivo sulla sua opera letteraria. Già da giovane, aveva manifestato più volte il desiderio di dedicarsi totalmente alla scrittura, rinunciando all’incarico alla Dogana prima e all’impiego presso la Società Industriale Partenopea, subito dopo la morte del padre.

   Sembra che lo scrittore trovasse inconciliabili gli impieghi che lo costringevano tante ore lontano dalla sua scrittura, mentre non poteva certo rifiutare lezioni private e incarichi presso giornali. La sua vena letteraria fu un fiume in piena, destinata a strabordare continuamente in creazioni letterarie e scenografiche, un “forzato della penna” come è stato definito.

   Ma chi fu realmente Francesco Mastriani? Celebre per il romanzo “La cieca di Sorrento” che, fino a qualche decennio fa, si leggeva a scuola come testo curricolare, fu un appendicista, cioè uno scrittore di testi a puntate per giornali e riviste dell’epoca. Il capolavoro apparve pubblicato a dispense nelle appendici dell’Omnibus, periodico politico letterario napoletano dell’epoca, poi apparso in volume e rappresentato in teatro con grande successo.

   Si tratta di un romanzo-capolavoro, purtroppo poco conosciuto, che consiglio a tutti quelli che desiderano conoscere l’autore. Infatti, l’opera, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe da un appendicista è capace di sorprendere e di avvincere, grazie ad alcuni espedienti letterari impiegati.

   Tra questi la ricerca continua della suspense, che tiene il fiato sospeso fino al colpo di scena finale e l’ambientazione caratterizzata da descrizioni tanto realistiche della città di Napoli, da fare meritare allo scrittore la definizione di “precursore del Verismo

   La verità è che il Mastriani era costretto per ragioni economiche a proporre più romanzi per più giornali, a seguirne le vicende a puntate. Era propriamente un appendicista cioè uno scrittore a cui era riservata l’appendice del giornale su cui si pubblicava a dispense le sue opere: i suoi eroi e le sue eroine si muovevano sulla scena a suo piacimento, ne venivano illustrati i moti dell’animo e le rispettive vicende senza che si confondessero mai.

   Era spinto, infatti, dalla necessità di non chiudere i suoi romanzi per tirare a scrivere più a lungo e prolungare il contratto di scrittura il più possibile con i vari direttori di giornali.

   Tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscere lo scrittore raccontano di essersi imbattuti solo per caso nella lettura di uno dei suoi innumerevoli romanzi.

   Così è avvenuto per il mio Direttore scolastico, professor Luigi Izzo che, relazionando durante l’ultimo convegno che si è svolto ad Aversa, presso il Liceo dove lo scrittore ha insegnato, ha raccontato che, mentre era giovane studente universitario, aveva acquistato su una bancarella a Port’Alba il romanzo dal titolo “I Vermi”.

   Il fatto che più lo aveva sconvolto era che più volte aveva trovato riferimenti e citazioni, nelle opere da lui studiate, senza mai che si trovasse riconosciuta a pieno titolo la paternità e la genialità dei riferimenti dovuti allo scrittore Mastriani. Un caso assurdo!

   Anche per me, l’apprezzamento e la stima per l’opera letteraria mastrianea è stata piuttosto fortuita, anche se sono convinta che nulla accade per caso! Una mattina di qualche anno fa, ero a scuola, quando ricevo una comunicazione dall’Ufficio della Segreteria. Un certo Mastriani aveva chiamato al Liceo per mettersi in contatto con me. Uscendo dall’aula dove avevo terminato l’ultima lezione, ero in preda all’estasi da illuminata che mi coglie, sempre, dopo una notizia a cui stento a credere.

   Come era possibile che lo scrittore redivivo avesse potuto e voluto contattarmi? Dopotutto, il Mastriani aveva insegnato nella mia stessa scuola e anche la mia stessa materia, con la differenza che erano passati solo più di cento anni!

   Nel tentativo di raggiungere l’ufficio della Segreteria, le gambe mi tremavano per l’emozione, la voce rimaneva in gola, l’unica strada possibile era quella che mi avrebbe riportato in classe, per trovare il conforto dei ragazzi che avevo lasciato. Solo loro, infatti, avrebbero potuto comprendere la mia follia, avrei voluto, quindi, rientrare in aula per raccontare l’incredibilità dell’accaduto!

   Ad ogni modo, l’incanto finisce ed apprendo la realtà dei fatti che, tuttavia, è sorprendente lo stesso: un discendente dello scrittore, Emilio Mastriani, aveva letto un mio articolo apparso sul Giornale d’istituto dal titolo “Lo scrittore ritrovato” ed aveva avuto il desiderio di conoscermi.

   Lo stesso mi racconta di aver curato la pubblicazione di altri romanzi inediti di Francesco Mastriani e di voler continuare a far conoscere l’opera mastrianea, magari anche con il mio contributo, coinvolgendomi in un progetto volto alla valorizzazione e alla riscoperta del suo avo.

   E io ho passato i giorni successivi a rimuginare sul valore della parola scritta. Sono giunta alla conclusione di quello che la scrittura è capace di generare. Infatti, quando l’Arte è permeata di valori eterni come quelli presenti nell’opera mastrianea è qualcosa di SUBLIME che non può essere in ogni modo passata sotto silenzio ma per la forza stessa, che le è intrinseca, è destinata alla condivisione e alla diffusione soprattutto presso le nuove generazioni che sono le uniche in grado di comprenderne la portata.

                                                                                                                    MARIA BONOCORE