UNA GITA A POMPEI

   Signori, come sapete, Pompei non è più a Pompei, bensì a Teatro Nuovo. E andate poi a negare che questo è il secolo delle maraviglie! Diciotto o venti miglia spariscono al tocco dell’archetto di De Natale, e con due passi siete nella città del 79. E quando dico la città del 79, il est censé che sappiate essere stata sepolta Pompei in quell’anno della nostra Era.

   Salite i quartieri e propriamente sul vicolo accosto alla Testa d’oro, passate il vico della Speranzella, accostatevi alla stazione, pigliate un biglietto di prima classe, entrate nel vaggone, e, senza muovervi, quando appena udrete il solito fischio, che è il solito segnale della partenza, vi troverete di botto a Pompei, come per incanto. Micci e Moretti han fatto questo portento.

   Non avete bisogno di munirvi d’un cicerone, razza di gente fatta a bella posta per non farvi saper mai niente di quello che dovete sapere. Avete due occhi che arrivino a raffigurare i monumenti animati che vi si parano alla vista? Avete due orecchi a prova di bomba per sostenere gli assalti dell’orchestra? E siete a cavallo. Armatevi de’ vostri occhi e de’ vostri orecchi, e slanciatevi ad ammirare la nuova Pompei un poco meno seccante di quella che si ammira alla traversa di Nocera dei Pagani.

   Per ora, non avendo di meglio a fare, mi procaccerò il piacere di servirvi io stesso da cicerone per ammirare la Pompei del Teatro Nuovo, giacchè ogni pezzo archeologico di questa Ninive novella io l’ho studiato colla pazienza e coll’amore d’un artista. Fin dal dì (ormai lontano) che per la prima volta il Teatro Nuovo, pigliando il suo vero nome, invitava i Partenopei a una gita meno dispendiosa e più divertita, io mi feci cicerone delle novelle ruine; e se prima d’ora non ho esercitato la mia professione, egli è perché non ho voluto mischiarmi nella turba de’ guastamestieri.

   Animo, signori, allungate le orecchie, appuntate gli occhi e tenetemi dietro. Io incomincio:

   Ecco, signori, una graziosa donnina che rimase per otto anni celata agli sguardi profani; ecco una bella scoperta, che per sé sola basta a richiamare i sebezî viaggiatori su queste ruine; il suo nome ha del classico, del romano, dell’antico, ecco la Zenobia dallo sguardo di fata, la quale al tocco della verga magica di Micci diventa una gentil groom di puro sangue inglese, e poscia a un colpo di tamburo si trasforma in leggiadrissima sposa. Anticamente questo affresco si chiamava Papini; oggi si chiama semplicemente Zenobia.

    Passiamo appresso. Ecco, signori, il più rispettabile monumento dell’antichità; lo scavamento che par sempre fresco, sempre pieno di vita: è la colonna massima di questa Pompei. Gli archeologi dicono che una volta si chiamava Fioravanti; oggi i moderni gli danno semplicemente il nome di D. Peppe, che è come dire il Foro massimo o il Diomede della vecchia Pompei del 79: poco manca forse che D. Peppe non tocchi il 79: il genio dell’arte è stampato su la fronte di questo monumento, vittima di tante lave di fallimenti.

   Viene in seguito una vecchia Pignata che fu esumata da tante ceneri dell’arabica Fenice. Questa sì che è stata una vera scoperta inaspettata, di cui la scienza sarà gratissima allo scopritore: eppure non è mummia, ma è uomo bello e vivo ancora.

   Seguita il simulacro d’un tenore scavato di recente dalla industre pazienza dell’impresa di questo teatro: scavatrice come tutte le imprese: il suo nome è Teperini, e lo troviamo registrato negli annali delle glorie musicali de’ teatri di second’ordine del nostro paese.

   Ammirate, o signori, quest’altro monumento sempre gaio, sempre vispo a vedere e a sentire; esso è anche una colonna primaria di questi avanzi, e seguita a chiamarsi Chiarina, ritenendo l’antico diminutivo.

   Vi presento un grosso pezzo della forza di 100 cavalli, di recente discoperto nella pienezza de’ suoi mezzi; è d’un diametro colossale.

   Da ultimo, eccovi un ometto che per poco non rimase schiacciato sotto le ruine: egli porta un nome più vecchio della stessa Pompei, ed è il rampollo d’una infinita generazione d’abitatori da queste classiche tavole. Le cronache de’ passati secoli lo chiamavano Casacciello: e così lo chiameremo noi per rispetto dell’antico.

   Degli altri ruderi non ci occupiamo e diremo con Dante

   Non ti curar di lor, ma guarda e passa.

                                                                        Francesco Mastriani

.

      Fu pubblicato sul giornale Il Palazzo di Cristallo il 6 marzo 1856.