CONTRO IL TABACCO

   Danet pubblicò nel Giornale della Società Accademica del dipartimento della Loira inferiore un’eccellente memoria sopra e contro il dono funesto che l’America sembra aver fatto all’antico mondo nell’intento di accelerare, abbrutendolo, l’ora in cui essa gli succederà nell’opera dell’incivilimento. Questa rimembranza non c’incoraggia nel nostro disegno. Invano il sig. Danet, dimostrar volendo l’influsso disastroso che quest’albero esercita sui destini dell’Europa, rammenterà che gli aborigeni del nuovo Mondo molto avvezzi a siffatto veleno sembrano essere stati colpiti da impedimento d’intellettuale sviluppo: invano affermerà che l’eccesso della pipa entra per molto, il che non si può negare, nell’apatia mortale delle razze dell’Oriente: invano griderà: «Alla Scuola Politecnica chiamasi frutta secche gli studenti che, dopo essere riusciti a farsi ammettere non ponno subire gli ulteriori loro esami, e n’escono senza spalline». Tutti coloro che fumano eccessivamente non escono frutta secche, ma tutte le frutta secche fumano enormemente. Invano noi gli faremo eco; invano ricorderemo che il principio attivo del tabacco, la nicotina, è uno dei più energici veleni; che il fumo di quest’erba dà all’analisi, oltre il gas già deleterio della combustione, paraffina, olio empireumatico, prodotti resinosi, ec.; che ciò che chiamasi montante proviene dallo sviluppo continuo di vapori ammoniacali contenenti la nicotina; che per conseguenza il tabacco esercita un’azione tossica sull’organismo; che istupidisce il cervello, e spegne l’attività fisica. Invano noi toglieremo alle Difficoltà della vita del coltivatore il passo che segue:

.

   «Io mi sono spesso intrattenuto con vecchi coltivatori sulla deplorevole estensione dell’uso del tabacco dalla città alle campagne, e tutti mi dissero che al par di me essi eransi ben presto accorti che una maggiore mollezza ed una maggiore apatia erano diventate proprie  a quei loro impiegati i quali ne aveano contratto l’abito. Ma dove ciascun di noi avea meglio potuto notare un tale influsso, era nel momento dei lavori urgenti, quando la procella minaccia, ed ogni qualvolta la forza, l’attività e l’energia devono momentaneamente essere portate alla loro più alta potenza».

.

   Questo è predicare al deserto. Non si dirà mai tanto male del tabacco, quanto ne pensano coloro, i quali un fiato immondo, i denti guasti e le vesti impregnate d’un odore orribile annunciano schiavi di sì ignobile passione. Nessuno, parlo di quei che pensano,  si dissimula il male ch’esso ci cagione, terminando di distruggere il po’ che rimane di quelle qualità sociali, le quali procacciarono ai padri nostri una sì gentile rinomanza. E chi sa? Il sig. Danet avrà col sigaro alla bocca meditata e scritta questa memoria, d’altra parte eccellente, a cui la nostra buona fede si lascia pigliare.

   Fu nel 1492, afferrando Cuba, che Cristoforo Colombo, il cui gran nome è felicemente raccomandato per altre scoperte, ritrovava questo succido veleno. Quei del paese, selvaggi almeno, e ciò li scusa, erano appassionati fumatori; una tale strana passione s’impadronì grandemente degli Spagnuoli; ve n’era ben donde! Disgraziatamente attribuivasi a quello sporco fumo virtù calmanti; esso s’introdusse adunque in Europa sotto il mantello della medicina; e, come l’acquarzente, non rimase a lungo rilegata nelle botteghe degli speziali. Sin dalla fine del 16° secolo, l’uso erane diventato sì generale, che Giacomo I d’Inghilterra grida in un suo libello: «Non si crede oggidì di trattar sontuosamente un ospite senza tabacco; senza tabacco non v’ha società aggradevole; senza tabacco, non v’ha medicinale efficace. Almeno, cotesta mania fosse rimasta uso speciale degli uomini! Ma di presente le donne provano il bisogno di depravare il loro fiato per potere con questa somiglianza sopportare il fetido fiato dei loro mariti. »

   Giacomo I promulgò un decreto contro il tabacco. Un kan di Tartaria condannò chi fiutava tabacco ad avere tronco il naso. Non importa! il tabacco stancò i persecutori. Se non si poté impedire questa abitudine di prendere radice, come mai si estirperà adesso ch’essa data da sì gran tempo, e mentre diventò sì generale che dal 1814 al 1844 il tabacco fruttò al solo governo francese un beneficio di un miliardo e 626 milioni, ed ora gli frutta 100 milioni all’anno? A’ dì nostri, il ragazzo che nella sua precoce ambizione arde di distinguersi per virili gesta, sogna la compera di una pipa! Siffatta è la generazione degli eroi che si accingono a compiere i destini di questa povera e vecchia Europa.

   L’influsso sociale del tabacco sarà immenso. Con la sua lenta attossicazione, colla sua azione stupefacente esercitata di generazione in generazione, esso contribuì largamente a gittare la nostra Europa (ove nulla poté, come nell’America, controbilanciare il suo influsso) in questo stato accasciato in cui noi la scorgiamo piombata. Questa mollezza della fibra muscolare, questa inerzia del cervello, questo aborrimento dalle grandi cose, così comodo alla pigrizia ed allo egoismo, sono sovrattutto opera del tabacco immoderatamente preso. Maravigliatevi poscia che gente assopita ami più i sogni che non il lavoro, ch’essa vegga torbido, vivendo in un’atmosfera di fumo, e che posta da padre in figlio da più di 300 anni al regime del veleno, manchi di quella energia vitale e di quella forza espansiva delle genti sane di corpo e di spirito! Che cosa mai diventarono quell’inesauribile brio dei Galli e quella socievolezza gentile e quella nobile galanteria, che erano le nostre virtù? Tutto ciò se ne va in fumo, dopo una bottiglia di birra, innanzi ad un giuoco di dominò, tra le annerite pareti di un estaminet.            (Dal Fr.)

                                                     FRANCESCO MASTRIANI