CRONACA DELLA SETTIMANA. 12 MAGGIO 1867

    Nella Sezione S. Ferdinando, in una casa che dove a essere sgombra a diciotto ore dello scorso 4 maggio era una donna gravemente ammalata. Costei fece pregare il proprietario perché le avesse permesso di rimanere in quella casa qualche altro giorno, però che lo strapazzo potea cagionarle la morte. Ma forse una possente ragione ella avea a rimanere in quell’abitazione, ed era che la povera donna non avea potuto trovare a locarne qualche altra. Ma il proprietario, che avea già dato in fitto ad altro pigionale quella casupola, non poté ragionevolmente accondiscendere alle preghiere della inferma pigionale; e all’ora stabilita dalla legge le intimò lo sfratto. Allora la povera donna pensò bene di scegliere per novella abitazione la pubblica strada, e vi si fece trasportare unitamente a’pochi mobili che aveva. Non sappiamo il seguito di questa curiosa avventura; ma, per quanto ci vien riferito, il Municipio viene in aiuto alla disgraziata inferma.

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      La mattina del 4 maggio una carrettella con parecchi mobili si fermò dinanzi ad un portoncino d’un palazzotto, il cui primo piano era fino a quell’ora rimasto sfittato. Un ciabattino era a guardia del palazzo.

   Un giovinotto ben vestito accompagnava la carrettella. Costui ordinò ai facchini di trasportare i mobili su quel primo piano.

   «Avete voi la chiave della casa che ho tolta in fitto?» chiese il giovinotto al ciabattino portinaio.

   «Gnorsì» rispose costui, meravigliato che il contratto di fitto si fosse fatto in men d’un ora; giacchè un’ora innanzi egli avea veduto il proprietario, e questi non gli avea detto niente del nuovo contratto.

   «E di grazia quando avete firmato il fitto?» dimandò il ciabattino.

   «Ieri appunto alle 9; ed ecco la contro-polizza firmata dal padron di casa».

   Il ciabattino non sapea leggere, ma alla esibizione di quel documento ei credette non dovere più opporre veruna obbiezione; e aprì la casa al nuovo pigionale, il quale vi fece entrare i suoi mobili, chiavò l’uscio, si pose la chiave in tasca, e andò pe’fatti suoi.

   A mezzogiorno, il proprietario, malinconico di non aver potuto dare in fitto quel suo quartieruccio, venne a passare dinanzi alla sua proprietà.

   «Ci è niente di nuovo» dimandò al portinaio.

   «Niente altro, tranne che il nuovo pigionale del primo piano è già stabilito nel suo domicilio».

   «Che pigionale?» chiese il proprietario spalancando tanto d’occhi.

   «Come! quello con cui ieri combinaste l’affitto».

   «Che affitto! che pigionale! che diavolo affastelli! Io non ho fatto l’affitto con nessuno. Chi diascine hai introdotto in casa?».

   «Per S. Gennaro! Egli mi ha fatto vedere il vostro ricevo!».

   «Il mio ricevo! Che frode è mai questa? Dov’è questo nuovo pigionale?».

   «È uscito».

   «E a che ora si ritira?».

   «Non so».

   Dopo essere andato e venuto parecchie volte, finalmente il domani mattina, verso le sei, il proprietario si presenta all’uscio del primo piano. Suona due o tre volte il campanello.

   «Chi è?».

   «Il padron di casa».

   «Vada all’inferno; ora sto dormendo; venga a mezzogiorno».

   «Mi darete conto e ragione, bel galantuomo».

   «Andate al diavolo».

   Il padron di casa, con un furore che non si è letto mai l’eguale negli annali delle bestie feroci, scende per informare forse l’autorità di quanto gli era avvenuto.

   A mezzogiorno, ei ritorna alla sua proprietà. Il nuovo pigionale era uscito.

   Questa storia è durata due o tre giorni. Finalmente, il padron di casa si pianta sotto il portoncino ed aspetta. Scende il giovinotto.

   «Un momento, signorino. Con che diritto avete occupata la mia proprietà?».

   «Chi siete voi?».

   «Il padron di casa».

   «Di quale casa?».

   «Di quella che voi avete occupata con una faccia più dura del macigno».

   Il giovinotto si pose a ridere.

   «Uh! come siete curioso! Avete un naso rosso come un peperone».

   «Non si tratta del mio naso. Vi avverto che o sloggiate col buono o in giornata sloggerete pagando danni e interessi».

   Il giovinotto, sempre in aria gioviale, afferra il mento del proprietario, sul quale sono appesi due peli bianchi da capretto.

   «Davvero che siete uno zucchero. Come vi chiamate?».

   «Giù le mani, bel mobile, e fuori insolenze. Io mi chiamo Gaetano…».

   «Voi avete un cognome così indecente, e avete il coraggio di dirvi padrone di casa?».

   «Mostratemi il mio ricevo, signor mio».

   «Il vostro ricevo! cioè quello del proprietario, n’è vero?».

   «Ma mi pare che il proprietario son io».

   Il giovinotto scoppia di nuovo a ridere.

   «Affè mia che se voi, caro don Gaetano, vi scritturate al Teatro Nuovo, voi eclisserete Petito».

   «Mi renderete ragione di questi insulti».

   «Volete battervi?».

   «Voglio che sloggiate prima di tutto, e poi parleremo del resto».

   «Ah! voi mi minacciate! voi volete attentare alla mia vita! La questura sarà informata di tutto».

   Il proprietario impallidì.

   «Ma, insomma, che cosa pretendete?!».

   «Questo è appunto ciò che io domando a voi».

   «Io pretendo che voi lasciate libero e sgombro il mio appartamento».

   «Bello appartamento in verità! Due stanzacce stonacate, dove la notte un esercito di sorci si permette di fare una baldoria di casa del diavolo; anzi debbo dirvi, caro e prestantissimo signor Don Gaetano, che io mi protesterò per danni e interessi, dappoichè i prelodati rosicchiatori hanno divorato una mia carta di cinquecento lire».

   «Bugia!».

   «La vedremo, signor mio; porteremo il caso dinanzi ai tribunali».

 

   Ci vien riferito che il padron di casa per liberarsi da questo cocciuto intruso dové dargli pro manibus venti lire.

   Non sappiamo dove il nomade giovinotto sia andato a porre la sua tenda.

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   Giorni fa, un signore milionario si recò a Caserta per visitare quelle delizie: aveva addosso un portafogli con entro circa duemila lire in carta. Dopo aver visitato il real palazzo e la cascata, volendo andare a pranzo in qualcuno de’primari alberghi di là, pensò dapprima cambiare un biglietto di cento lire; ma ciò non gli fu possibile; in guisa che, dopo aver girato inutilmente sotto e sopra per tutto il paese, colle sue carte in mano, morto di fame e di stanchezza dovette riporsi su la ferrovia per andare a pranzo in Napoli. Veggendo che in quel paese nissuno avea voluto cambiargli il biglietto di cento lire, credette che neanche l’ostiero avrebbe accettata la carta per prezzo del desinare.

   Ecco, per esempio, un milionario che con 2000 lire in tasca non trova da mangiare.

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   Mercoledì mattina, verso le dieci, un furto audacissimo d’un oriuolo fu commesso in piena strada di Toledo. Il ladro fu coraggiosamente agguantato da una guardia di P. S., ma l’oriuolo era già passato in altre mani.

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   Sentiamo che i ricevitori di lotto non vogliono riceversi carta moneta in pagamento dei polizzini che vengono giocati, mentre a quelli che guadagnano danno i premi in carta-moneta. Ciò non pare giusto.

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     Riceviamo dalla garbatezza del signor Giuseppe Pira un suo opuscolo, recentemente venuto a luce, col titolo Custoza e Lissa. Ne parleremo.

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    Moriva giorni fa in una casa di tolleranza nel vico Sergente Maggiore, una giovanetta di Nola a nome Amalia, di anni 19, arrivata colà solo da poche settimane. Vogliamo fare a questo proposito una nostra osservazione. Perché si rifiutano i conforti della religione alle disgraziate creature che hanno la disgrazia di ammalarsi gravemente in uno di questi osceni luoghi? Certo sarebbe prudenza, come prescrivono i regolamenti, lo allontanare subitamente le inferme da tali luoghi e trasportarle in qualche ospedale o in altro ricovero non profanato da traffici impuri. Ma non sempre si ha il tempo di rimuovere le ammalate; né sempre il male è di tal natura da permettere la traslocazione della moriente. In tal caso, perché privare un’ anima, purificata dal martirio dell’abbiezione e forse già penitente, di quei divini ausilii che pur si concedono a’ ladri, agli omicidi ed ai peccatori di ogni genere? In tutto il corso di sua vita nostro Signore Gesù Cristo non isdegnò di entrare nelle mura che accoglievano il pubblicano, il fariseo e la meretrice; anzi Egli il Divin Redentore, si piaceva di stare nel mezzo dei più abbietti peccatori per richiamarli sul buon sentiero. Non vi è casa dove il peccato non abbia fatto e non faccia dimora, e la religione accorre dovunque è un moriente.

   Il sole sparge i suoi raggi salutari anche su le più luride impurità della terra, e non per questo ne resta macchiata la sua luce animatrice e benefica.

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   Richiamiamo l’attenzione  del Vice-Sindaco della Sezione Avvocata su la oscurità in cui è immerso la sera il Vico Paradiso su la Salute, dove i fanali, ancora ad olio, sono situati in tale distanza da lasciare nel buio un lungo tratto di quella via, oggi abitato da civili famiglie.

   Come pure richiamiamo l’attenzione del Vice-Sindaco della competente Sezione sul chiasso indemoniato che fanno ne’dì festivi i fanciulli dei nostri popolani sullo spiazzo fabbricato del fondo Avellino su la salita Tarsia. Le nuove abitazioni ivi costruite accolgono già varie famiglie che vengono grandemente incomodate dalla baldoria di quei monelli, il cui linguaggio non è sempre ristretto ne’limiti della decenza.

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   Il 27 aprile scorso, un nostro carissimo amico, l’avv. Errico Caterini, nel fiore dell’età, nella piena vigoria di salute, nel bel mezzo di una splendida carriera, passava di questa vita per atrocissimo istantaneo morbo. Feracissimo ingegno, oratore eloquentissimo, poeta improvvisatore de’più felici, cuor nobile e caldo di sensi affettuosi e gentili, il Caterini lascia un vuoto nel foro criminale, nella desolata famiglia, e una memoria tenerissima tra gli amici.

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   Nella Sezione Porto, la via Sedile di Porto si è fatta mal sicura dopo l’allontanamento della Ispezione del quartiere. La poca luce di quella strada e i tanti nascondigli che vi sono possono farne un nido di facinorosi. Ci badi l’onorevole Vice-Sindaco.

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