FATTI DIVERSI. 30 DECEMBRE 1866

   L’America ha mandato in Europa una arme formidabile, la quale passa tutto quello che è stato fatto fino ad oggi.

   Il fucile Winchester è la famosa carabine Henr, perfezionata, quella carabina che levò tanto grido nei quattro cruenti anni della guerra americana. Ha la forma del fucile della fanteria; pesa 4 chil. 350 grammi. La cosa principale dell’arme è una riserba o magazzino di cartuccie, il quale sta in un tubo parallelo alla canna; contiene una molla e si apre ad una delle estremità, vicino alla guardia, per potervi introdurre 15 cartuccie. Due movimenti della sottoguardia, che è mobile, l’uno in avanti e l’altro indietro, bastano per armare, togliere la vecchia cartuccia, introdurre la nuova e chiudere la culatta. Quando è carico il magazzino, chiunque può, tanto i movimenti sono rapidi, tirare per lo meno 15 colpi in 15 minuti secondi, senza levare l’arme dalla spalla. Volendo mettere ad una per volta le cartuccie si può, e allora il tiratore serba carico il magazzino per servirsene all’uopo. L’arme è a ripetizione e nello stesso tempo a carica semplice, e la grande utilità di ciò è evidente.

   Sono pochi mesi che quest’arme è venuta in Europa, ed è stata esaminata solamente da una Commissione della Svizzera; è stata provata in tutti i modi possibili, in paragone con le altre armi e le ha superate. In conseguenza è stata adottata per i carabinieri, e or sono pochi giorni, per tutto l’esercito federale. Alle prove di Aarau furono tirati 12 colpi per minuto, col tempo di caricare e di mirare. Nel magazzino furono messe 15 cartuccie, e furono adoperate in quarantadue secondi. È provato che il fucile Winchester vince in precisione, nella tensione della traettoria e in portata il famoso fucile de’carabinieri svizzeri, e le più elette carabine Enfidle e Withworth.

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UN UOMO ORCHESTRA

   A Brusselle si annuncia l’arrivo di un certo Zoni, un artista unico nel suo genere, ch’è riuscito, in grazia di un dono speciale di natura sviluppato con ostinati esercizi, a ridurre il suo organo vocale in una vera orchestra. Non solamente questo signor Zoni imita la maggior parte degli istrumenti, con una fedeltà prodigiosa, ma riesce a farne udire parecchi in una sola volta, e sempre senza altra risorsa che quella dell’elasticità della sua laringe. È soprattutto curiosissimo l’udirlo imitare la cassa o scatola armonica; l’illusione è perfetta; le note del suono metallico scorrono, rimbombano, s’incrociano e si combinano con una tale prodigiosa esattezza da riprodurre identicamente l’effetto dell’istrumento. Il signor Zoni è pure musicista di merito e per se stesso si è accomodato parecchi pezzi e perfino sinfonie intere. Assicurano che dappertutto ove si è fatto udire, abbia ottenuto il più gran successo.

                                   Dalla Forbice

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. Tutti ricordano il fatto narrato da moltissimi giornali, di quei cani cioè che colpiti da cholera nei tenimenti di Sorrento e di Foggia se ne salvarono mangiando certa terra da essi scavata nelle campagne. Fu unanime allora il desiderio che l’arte medica avesse posto mente a tal fatto, e dalle analisi di quelle terre avesse e le sostanze che in esse contenevansi, ed i vantaggi che poteansi ritrarre dal loro uso, come farmaco in morbo cotanto ribelle finora a tutti i trovati della scienza. Or l’egregio professore Sig. Nicola Reale, per incarico ricevutone dal Direttore degli Incurabili, sottoponeva ad analisi chimica i saggi delle stesse terre, e rinveniva in esse oltre moltissimi solfati e prodotti chimici, grandissima quantità di sesquiossido di ferro.

   Ed in una accurata relazione del medesimo fatta sul risultato delle sue indagini, richiama l’attenzione de’medici sull’abbondanza di quest’ultimo prodotto, invitandoli ad ulteriori esperimenti clinici sull’azione del ferro in tali riscontri.

   Ricorda all’uopo il Reale una memoria del Dottor Domenico Guglielmi di Napoli che nella invasione cholerica del 1854 adoperò nelle sue cure il solo citrato di ferro, e di 60 infermi a lui affidati come medico municipale me guarì 55; come pure accenna ad altre guarigioni ottenute dall’uso interno del solfato di ferro.

   In seguito a tali sperimenti, il Prof. Antonio Santirocco, medico nell’ospedale clinico di Napoli ed addetto qual medico municipale alla Sezione Stella, nell’ultimo periodo del cholera in questa città somministrò agli attaccati dal morbo il percloruro di ferro con grandissimo giovamento, massime nei primordi del male. Che anzi questo egregio giovine, in una sua dotta ed elaborata memoria in proposito, narra il fatto di certa Luisa Capozzi, la quale, attaccata dal morbo ferocemente ed agli estremi di vita, fu da lui curata e ridonata salva alla sua famiglia col solo citrato di ferro. Il qual metodo fu seguito da altri suoi colleghi, massime da’signori Dottori Pompeo Profilo e Vincenzo Franco con ottimi risultati.

   Noi raccomandiamo caldamente alla nostra facoltà medica di studiare su tali fenomeni de’ preparati di ferro, e sui modi di somministrarli, esposti con molta cura dal D.r Santirocco, e ciò non solo pel progresso della scienza, ma molto più pel sollievo della umanità languente, ora sopra modo che questo morbo letale infesta altre nostre contrade.

                        Dall’Avvenire

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   –. Togliamo dalla Gazz. Del Popolo:

   Una sera della scorsa settimana un uomo, ancora giovine, vestito poveramente, si fermò dinanzi alla bottega d’un panettiere e credutosi in buon punto da farla netta, ne tolse quattro pani, e poi scappò.

   Ma il panettiere che era in bottega all’agguato, visto il colpo si slanciò ad inseguire chi gli aveva derubato i pani: questi allora vedutosi inseguito si mise alla gran velocità, e l’altro addietro con lo stesso impeto.

   Il primo da una via retta e larga entrò in una stretta buia, infilò una porticina, e pigliò la scala a trotto lesto, come da persona che la conosceva.

   Il panattiere, a cui la scala era nuova e scura (il padrone di casa è il ritratto dell’economia) dovette eseguire un’ascensione più lenta per non mazzucolare, o dar del capo in qualche parete, ma giunse pure in tempo all’ultimo piano, dove l’altro si era finalmente fermato, e dove egli vide schiudersi l’uscio d’una soffitta, penetrarvi il suo uomo, e richiuderlo sul muso.

   Il panattiere si avvicinò all’uscio, e prima di bussare, volle per naturale curiosità, o per paura, guardare dal buco della toppa che cosa ci fosse la entro.

   E vide il suo uomo che distribuiva il pane derubato a quattro ragazzi smunti e strutti, che se lo posero ai denti avidamente, e lo sentì parlare a questo modo: «mangiate, bimbi, mangiatele; per oggi non morrete ancora di fame; ma pregate Iddio che domani non sia più costretto a provvedervi di pane al modo di questa sera».

   Allora il panettiere bussò e disse con voce commossa «aprite, non abbiate paura».

   E gli fu aperto l’uscio.

   Entrato ch’egli fu, diede una veduta all’interno, vide in un miserabile letto una donna ammalata, quattro bambini sul pavimento, la faccia del suo uomo, che non aveva ancora veduta, e tutto – personale e materiale di quella soffitta – gli fece seguo della miseria e della fame, della malesuada fames.

   Detto chi egli fosse, e confortato il suo uomo, volle conoscere come fosse ridotto a tanta disperazione, e seppe da lui, che per cessazione d’un negozio, egli operaio là entro era rimasto senza lavoro, che non ne aveva più trovato; che dato prima fondo a qualche piccolo risparmio, e venduto o impegnato poi tutto ciò che si era potuto vendere o impegnare, erano due giorni che tutta la famiglia non aveva più mangiato – nulla – nulla.

   Il panattiere – vero cuor di Gianduia – estrasse dalla tasca la borsa, ne tolse le monete che vi trovò, le diede all’operaio, e gli parlò così: «Prendete, pover’uomo; ma per carità! Non fate più mai come avete fatto a casa mia; finchè il pane vi mancherà, passate alla mia bottega, e ve ne darò; fate animo, io spero che troverete presto lavoro».

   Forse, o lettore, tu desidereresti conoscere il nome di questo benefattore…

   Oh! se io lo sapessi, lo direi non solamente a te, ma lo stamperei sulla Gazzetta a lettere da insegna, perché fosse pubblicamente onorato, come dovrebbe. Ma io lo ignoro assolutamente; non ho potuto sapere la via della città dove egli ha il suo negozio, non conosco l’operaio e non conosco manco la persona che ha raccontato nell’omnibus questo fatto onorevole.

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   Il signor Duca di Bivona darà la sera del 28 Gennaio prossimo entrante un gran bal costumè. L’invito per questo ballo non è troppo andato a sangue di parecchi nostri signori, i quali trovano che nel gran numero delle presenti tasse un ballo in maschera è una novella volontaria imposizione. Questi signori hanno torto, perocchè questa specie di divertimenti è sempre proficua alle piccole industrie del paese.

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DICHIARAZIONE

   Mi son state dirette parecchie lettere di lode pel libro su i Doveri della Donna. ringrazio la cortesia de’signori che han lodato il libro; ma debbo dichiarare che la detta opera non è scritta da me, bensì dal mio amatissimo  fratello Giuseppe, Professore ne’Reali Educandati di Napoli; il quale abita  Vico Nocelle N.° 87. Quantunque anch’io mi occupi di scienze morali, non ho pertanto mai scritto un’opera speciale su tal materia.

   Debbo pure dichiarare, a scanso di equivoci, che il romanzetto col titolo Beatrice venuto a luce l’anno scorso è opera del giovinetto mio nipote Federico. Valga questo avviso per qualche libraio che ha messo il volumetto Beatrice nello elenco de’miei romanzi. – Unicuique suum.

 

                                                                       FRANCESCO MASTRIANI