IL MESE DI MARZO E LE STAGIONI IN NAPOLI

   Vi annunzio, Signori, che siamo entrati nel mese di marzo, notizia consolantissima pe’becchi, pe’montoni e per li agnelli, di cui si avvicina la strage. Una volta, in illo tempore, quando Berta filava, il mese di marzo solea menar seco la così detta primavera, della quale non ci è rimasta altro ricordo che il busto in marmo nella Villa Nazionale. La primavera cadde col feudalismo, co’fedecommessi, colle parrucche, colle fibbie, con la lingua latina e con tante altre cose che morirono col secolo passato. Questa volta avete veduto che sereno di cielo ci ha recato il mese di marzo. Son due giorni cha abbiamo i freddi e i ghiacci del Kamcatka e della Siberia. E pure, la primavera non meritava di essere congedata, giacchè avea renduto non pochi servigi al genere umano e soprattutto a’poeti; e fu la jettatura di costoro che ce la colse; dappoichè i poeti, come sapete, sono i più pericoloso jettatori che circolino nella società civile. La primavera si prestava con tanta buona grazia e docilità a’capricci de’figli di Apollo, che sfrontatamente ne rivelavano al volgo tutte le ascose bellezze. E, benché morta, i poeti ne seguitano a fare uno strazio indicibile.

   È già gran tempo che le stagioni si son messo in testa di far perdere la testa agli astronomi, e fanno a chi la fa più bella.

   Non parliamo della primavera e dell’autunno, che son rimaste solamente nei calendarii, ne’ dizionarii e nelle mitologie; ma l’està e l’inverno che cosa sono? Chi ci crede più? Noi siamo avvezzi da qualche tempo alle più eccentriche fantasticherie delle stagioni; abbiamo, per esempio, un paio di mesetti di pioggia nel cuore della così detta està, ovvero una siccità scottante in pieno inverno. A buoni conti, le due stagioni, su cui si potea fare per l’addietro un certo assegnamento, l’està e l’inverno, si sono confuse tra loro in modo da non riconoscerle più. Noi sappiamo, per esempio, che avremo una està a’21 Giugno, come ci avverte il calendario; ma potreste giurarci che l’avremo? E non potrebbe venirle il capriccio, invece di tornarsene in Napoli, d’andarsene a villeggiare nella Lapponia o nella Islanda, e noi certamente non potremmo mandarle appresso un usciere. Persuadendoci dunque che è cosa assai dubbiosa che avremo una està, anzi, in confidenza, a quattro occhi, vi confesso che per me io non ci credo; e sono propenso ad ammettere che tutto al più avremo l’odore dell’autunno anticipato, qualora l’inverno non volesse darci il piacere di starsene in perpetuo a casa nostra.

   Ma lasciamo le stagioni al posto loro, ed occupiamoci un poco di quello di che si occuperanno tra pochi giorni tutti gl’individui d’ambo i sessi da 15 a 40 anni quando sono riuniti in piccole brigate.

   Conoscete voi i così detti giuochi di società? – Dite un poco come sono divertevoli! Quanto spirito di ipecacuana è in essi! Come vi si fila il perfetto amore, come direbbero i francesi, presso i quali sembra che si fili come stoppa o come canape! Quel giuoco del Procuratore, quell’altro della Sposa, quello dell’Anello, quello della Chiave come sono deliziosi! – per me preferisco quest’ultimo, per certe ragioni fisiologiche, che si comprendono facilmente, tranne che, dopo un quarto d’ora di questo esercizio, vi sentite le braccia addolorate, e tutto il corpo grondante sudore. Ma io preferisco i giuochi di moto, di ginnastica, ne’quali almeno la salute ci guadagna qualche cosa, e lo spirito non è messo a tortura. Ma il papà di tutti i giuochi è la Spazzola; e son persuaso che tutte le signorine sono del mio parere; ma con tutto ciò, parlando sul serio, è innegabile che la società si mostra deplorabilmente meschina un tutte queste frivolezze, che si possono ridurre ad una sciarada, la cui parola è matrimonio, ovvero ad una rete più o meno ben tesa dal sesso femminile per acchiappare un merlotto.

   Pertanto, tutte queste inettezze sono sempre preferibili al canto di società. Non cesseremo di alzare la voce contro questa importabile mania, che si esercita a discapito del tempo e del gusto, e a benefizio di qualche vanità burlescamente lusingata.

   Io non so come un dilettante si possa illudere al suono di que’plausi, ironia tremenda che salta agli occhi di tutti menochè di lui. Scegliessero almeno pezzi appositamente scritti per camera! oibò, sempre gli stessi pezzi di forza, sempre le musiche eseguite da’colossi dell’arte, intese le migliaia di volte, e fischiate al teatro per soverchia noia. Oh quanto, a questo proposito, sono da preferirsi le musiche che hanno fatto un fiasco solenne! Almeno queste non ci rompono il timpano dappertutto, e siamo felici d’averle intese una volta sola.

                                                                                                             FRANCESCO MASTRIANI