POSTFAZIONE

   Quando questo romanzo viene pubblicato a puntate sul Roma, Francesco Mastriani ha ormai quasi 70 anni.

   E’ reduce da una vita di stenti e di delusioni, ma da una produzione creativa che conta già più di cento romanzi.

   La sua carriera da narratore, cominciata nel 1848, con Sotto altro cielo, è una parabola ascendente verso il successo: prima si preoccupa di coinvolgere il popolo alla lettura attraverso i racconti delle vite di personaggi aristocratici, poi diventa portavoce dei disagi sociali dei più poveri, e infine trae ispirazione da avvenimenti di cronaca locale per farne piccoli grandi capolavori.

  Fior d’arancio. La cantatrice di Mergellina si colloca proprio in quest’ultima fase, quella in cui il confine tra realtà e invenzione si fa ancora più sbiadito, quella in cui, un Mastriani ormai pienamente maturo e consapevole, indaga i tormenti dell’animo umano e analizza le ragioni del cuore.

   Tuttavia, strascichi delle esperienze precedenti si ritrovano inevitabilmente anche qui, tra queste pagine.

   Se si va oltre le righe e si presta attenzione ai dettagli, si notano anche qui la vena polemica di Mastriani nei confronti delle ingiustizie sociali, la sua amara disillusione verso le speranze ormai deluse del governo liberale, il suo eclettismo culturale, il paterno affetto per la sua città e per la sua gente.

  Le pagine di Mastriani sono impregnate di napoletanità, sotto qualunque aspetto si provi ad analizzarle.

   Quella dello scrittore napoletano è una macchina narrativa perfetta, che carbura sì con infinite quantità di fantasia, ma che percorre strade reali e costeggia luoghi tangibili: lo scoglio di Frisia a Posillipo, Mergellina, il Caffè d’Europa (quello in cui il nostro autore soleva incontrarsi con gli amici), la Riviera di Chiaia, il teatro San Carlo e quello dei Fiorentini, l’Albergo dei Poveri e così via verso luoghi di Napoli che ancora oggi vediamo o che sono ormai stati sostituiti. La vera Napoli di quel tempo, quella fatta di milioni di storie e di cuori pulsanti, la si può conoscere soltanto attraverso il racconto di chi, spettatore tra gli attori, ha saputo raccontarla nei suoi imprescindibili ossimori. 

   Non si esagera quando si dice che a epurare gli scritti di Mastriani della sua napoletanità si finisce col ritrovarsi davanti un foglio bianco.

   L’amore per la città di Napoli, dove sempre lo scrittore visse e che fu per lui musa ispiratrice e spietata condanna allo stesso tempo, si esplica nelle descrizione al limite del poetico (sembra quasi che anche il lettore si trovi a Posillipo, davanti alla vista di quel poetico seno di mare, sul quale la limpida luna versava le sue tremule fasce d’argento[1]) ma anche nelle caratterizzazione dei protagonisti: personalità che solo una città così poteva partorire.

   Non ci sono azioni eclatanti che elevano un personaggio allo status di “eroe”, o donne che mantengono un ruolo subordinato a quello maschile.

   I veri eroi delle pagine di Mastriani sono coloro che non scendono a compromessi se farlo significa inquinare il proprio onore o la propria dignità, annientano le passioni personali in virtù della giustizia morale, rinunciano, sacrificano, e questo li rende figure esemplari, perché se è vero che gli errori sono degli uomini ma le amende sono delle anime gentili [2].

  Il vero “atto eroico” del conte Evaristo è il suo scontro donchisciottesco con il barone di Montesarpi o la sua presa di consapevolezza finale, quando il tenente Carlo Alberto Mareschi quasi lo sveglia dall’ipnosi che lo aveva reso “vittima” del fascino della dolce Maria?

   E qual è o quale sarebbe stata la vera rinuncia del conte di Villammare? Un amore passionale, intenso e autentico ma rischioso e probabilmente senza futuro, o il suo onore di uomo, di marito e di nobile? Di sicuro, il contesto e le circostanze quasi costringono il nostro personaggio a una decisione che sia moralmente accettata, forse la più comoda o forse la più sofferta, ma qualunque sia la posizione che si assume al riguardo, ogni scelta avrebbe comportato una conseguenza fatale per la serenità di qualcun altro. L’abbandono di Fior d’arancio è descritto in maniera così coinvolgente che diventa impossibile non identificarsi nel suo dolore e non apprezzare l’onorabilità della sua reazione.

   Le donne di Mastriani, le protagoniste vere e proprie, posseggono una forza straordinaria che si risolve spesso in esiti inaspettati. Sono donne “reali”, che mostrano in talune circostanze cotanta energia da stupirne [3], donne con cui ci si interfacciava passeggiando tra i vicoli, combattenti, talvolta ribelli, con addosso il profumo di una storia da voler raccontare con la propria voce, donne che rivelano tutte le sfaccettature della propria indole.

   D’altra parte, è proprio di queste sfaccettature che il narratore fa il punto focale del racconto: l’anima umana è un mistero, e introdurcisi sa essere affascinante e terribile, sorprendente e disarmante.

   Se proviamo ad associare l’etichetta di “buono” o “cattivo” ai tipi “povero” e “aristocratico”, ci ritroveremmo sballottati in un vortice che non ha soluzioni. L’aristocratico è, si, quella figura che il contesto ha forgiato a prepotenza, superbia e infingardaggine, ma lo ritroviamo poi anche depositario dei più umili sentimenti di carità e cura verso il prossimo, umiltà e interessi culturali. L’umile, plasmato dalle tribolazioni della vita è onesto, dignitoso e scrupoloso, ma anche opportunista, dissoluto, insulso e qualunquista.

   L’aristocratico è Giuliano di Montesarpi, ma anche il principe Filippo Tusciani; e aristocratiche sono la marchesa Delfina Borgani e la baronessa Eulaia di M., ma anche la contessina Vittoria.

   L’umile è la povera Fior d’arancio, ma anche suo padre biologico Olivo Baruzzi.

   Così, il nostro tentativo di identificare in un “tipo” una o più caratteristiche peculiari diventa lo sforzo vano di smembrare anche i naturali contrasti del macro-mondo “essere umano”.

   Non c’è un elemento che bilancia queste opposizioni, nemmeno la provvidenza riesce a garantire un lieto fine che favorisca i buoni.

   Infelice sorte, infatti, spetta anche a Tobia, questa virgola d’uomo che ama segretamente la sua compagna d’arte e che è consapevole di non poter essere ricambiato, forse solo a causa del proprio aspetto: Tobia ha un visino smorto da donna attaccato al corpo di un orangotango e una gobba che al nostro scrittore ricorda quella del Quasimodo di Victor Hugo.

   La sua descrizione inevitabilmente rimanda a quella di Cecatiello de I Misteri di Napoli, anche lui una mirabile armonia di bruttezze [4], basso, tozzo e per di più e mezzo cieco.

   Nonostante Tobia sia un personaggi più lineare e più coerente nei suoi atteggiamenti, entrambi questi soggetti condividono una cosa: sono molto bravi in quello per cui sembrano essere nati: Cecatiello a intrufolarsi in spazi stretti per concretizzare un furto, Tobia a suonare il mandolino. E’ talmente bravo che se fosse nato in altre condizioni sarebbe forse riuscito un valente maestro compositore [5] ( – che sia questa, una velata rassegnazione del nostro scrittore alle personali ingiustizie del caso? Un riferimento al suo immeritato mancato successo come romanziere nazionale del XIX secolo? –).

   Mastriani fa propria una concezione nobilitante dell’arte (e più in generale della cultura) già ampiamente condivisa dai suoi contemporanei, ma la cala nel contesto umile della povera gente, mostra che la sua potenza è capace di innalzare un uomo al di sopra di chi la sorte ha posto a livelli economici più fortunati.

   Non è raro imbattersi in contadini che hanno più sete di imparare che fame di denaro, o in personaggi talentuosi a cui la miseria ha tarpato le ali.

   La stessa Fior d’arancio è una “piccola Malibran” che porta su di sé il peso di un’identità fantasma.

   La sua voce è il grido malinconico e nostalgico de “gli Espositi”, di quelli cioè che non conoscono le proprie radici e che, forse, proprio per questo, trovano equilibrio solo muovendosi, agendo e reagendo a un destino che li sfida, e a una fortuna che sempre suol favorire i bricconi di questo mondo.[6] Il canto della trovatella è l’emblema di una condizione  umiliante, di quei figli del peccato abbandonati dalle madri più spesso per obbligo che per effettiva volontà.

   Si pensi, ad esempio, al momento in cui Cesira abbandona sua figlia, la creaturina di meravigliosa bellezza che dà alla luce la notte del 23 aprile 1843. A testimoniare l’amarezza del distacco sono le parole utilizzate in pochissime righe che sanciscono il momento dell’addio: “la misera madre volle baciare e benedire la creaturina […] e poi che la ebbe novamente baciata e fattile su la fronte i segni della croce, la pose nelle braccia della levatrice[7].

   Tutta la vicenda di questa povera donna è un romanzo-nel-romanzo che permette al lettore di guardare le cose sotto un altro punto di vista e di rischiarare alcune sospensioni narrative.

   L’aspetto sorprendente di questa storia  è che, in qualche modo, il lettore potrebbe già immaginare il seguìto della faccenda di Cesira prestando attenzione a diversi segni premonitori di funesti avvenimenti: quando Cesira è al teatro per la prima volta e assiste alla Norma, resta particolarmente colpita dalla scena del tradimento di Pollione (quante probabilità ci sono che Mastriani abbia scelto un dramma in maniera casuale?). [8]

   Sembra quasi che il destino si faccia beffa degli uomini e dissemini lungo la loro vita dei tratti sfocati dei suoi macabri disegni.

  Ogni particolare è un ingranaggio fondamentale per il funzionamento della macchina narrativa, per sbrigliare la matassa narrativa in un armonico e sorprendente quadro finale.

   La conclusione di questo romanzo è la conclusione che forse non ci si aspetta, ma che è l’unica possibile.   

   Il cerchio si chiude là dove tutto era cominciato: la canzone della trovatella da cui concretamente comincia la vita del racconto è l’atto che precede la fine di quella di Fior d’arancio. Se la nostra protagonista abbia alla fine realmente compreso le parole di “svelamento” del principe Filippo resta un mistero custodito nel verbo “parve”.

    Il lettore non saprà mai con quale consapevolezze la povera Maria abbia esalato il suo ultimo respiro, tutto si conclude in una sorta di scomoda atmosfera di indefinitezza.

   Il romanzo è invenzione di cronache possibilissime, è la realtà vestita di immaginazione. L’abito con cui Mastriani copre, senza troppo nasconderla, la vita vera, ci invita ad ascoltare con più attenzione altri canti, a portare con maggiore orgoglio il senso che attribuiamo alle cose.

   In fin dei conti e comunque vadano le cose, a stabilire chi si è veramente sono le scelte che si compiono.

                         TERESA MASTRIANI

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[1] Francesco Mastriani, Fior d’arancio. La cantatrice di Mergellina, Napoli, Guida-Editore, 2021, cap. I. pag. 5.

[2] Ibidem, cap. XXX, pag. 272.

[3] Ibidem, cap. XXVII, pag. 244. 

[4] Francesco Mastriani, I misteri di Napoli, Napoli, G. Nobile, 1869, vol. I. cap. I pag. 7

[5] Francesco Mastriani, Fior d’arancio. La cantatrice di Mergellina, Napoli, Guida-Editore, 2021, cap. III. pag. 28.

[6] Ibidem, cap. XVIII, pag. 181.

[7] Ibidem, cap.XVIII. pag. 186.

[8] Ibidem, cap.XV. pag. 140.