PREFAZIONE DI FRANCESCO MASTRIANI

   Gran tempo innanzi di scrivere i Vermi, i Figli del lusso, le Ombre, avevo divisato di pormi alla presente opera; ma non poche ragioni mi dissuasero allora di mettervi mano: primamente, lo stato politico del paese, si potea pubblicare un libro intitolato I Misteri di Napoli sotto le cesoie della censura borbonica? Pur, mi ricorda che una o due dispense di un’opera che portava questo titolo vennero fuora in Napoli nell’anno 1847 od in queste circostanze di tempo. Erane autore il signor de Sterlich, scrittore di bella fama tra noi. L’opera, non sappiamo per quali ragioni, non andò innanzi. Fu soppressione consigliata o comandata della sfere governative? fu sgomento dell’autore per le infinite rastiature a cui la revisione poliziesca o si bene della Pubblica Istruzione il costringeva? fu svogliatezza degli animi commossi in quel tempo dalle mille speranze di migliorie politiche che balenavano dal Vaticano e dalle Calabrie? fu mancanza dell’editore a’patti stabiliti? Comunque fosse, l’opera del signor de Sterlich non fu che un aborto: le poche dispense andarono sommerse nella valanga di opuscoli e di giornali che poco di poi inondò Napoli e l’Italia tutta.

   Ho detto che lo stato politico del paese fu una delle ragioni principali per cui ristetti dallo imprendere a scrivere l’opera che oggi do in luce. Un’altra ragione anche possente mi ritrasse allora. Erano recentemente venuti a luce i Misteri di Parigi del Sue, opera che avea cattivato le simpatie di tutta Europa, e che in piccolo spazio di tempo ebbe l’onore di numerose ristampe e traduzioni. La smania di imitare le cose francesi, funesta debolezza in Europa tutta e massime in Italia, fe’piovere Misteri da tutte le parti. Ogni paesello, ogni borgata ebbe un EUGENIO SUE, tanto che i Misteri vennero in parodia; giacchè ci sono gli speculatori nelle lettere siccome nel commercio, e sono quelli appunto che sacrificano alla loro cupidigia il gusto, la morale pubblica e la riputazione degli autori.

   Nella stessa Francia ci furono, dopo i Misteri di EUGENIO SUE, i Veri Misteri di Parigi, di Vidocq, quelli di Londra, di Vienna, di Berlino, ec., scritti da penne francesi: insomma, la maggior parte de’romanzieri si dettero a scavare nelle fogne della società per mettere in evidenza tutto ciò che ne’diversi centri di civili popolazioni è di più laido e nefando.

   Tra tutta questa colluvie di Misteri non si parlò per qualche tempo che solo de’Misteri di Parigi del SUE e un po’di quelli di Londra del FÈVAL; e dico per qualche tempo, giacchè di poi furono appena ricordati sotto qualche forma drammatica in cui vennero più o meno trasformati. Parea che un simile genere di novellare fosse stato al tutto discacciato da un gusto più severo che in Francia e in Italia presedé alle opere d’immaginazione. Poco appresso il 1860, il risorgimento italiano risuscitò un titolo che sembrava dormire sotto li sbadigli d’una generazione assopita dalla cessata tirannide. Verso il 1864 vennero a luce certi Misteri di Roma d’ignoto autore, a’ quali vedemmo poco più in là succedere altri Misteri di Napoli per l’avvocato L. I.

   L’autore dové forse cedere alle istanze degli editori per iscegliere questo titolo, che era ormai divenuto di cattivo gusto, inteso forse a cattivare l’attenzione del pubblico napolitano, avido di scoprire le magagne del caduto governo; ma nel libro in parola non si trattava d’altro che delle avventure (vere o fattizie non saprei) di due onesti giovani napolitani, di cui l’uno ricco per quanto buono, per frode commessa da un malvagio, muore innocentemente nell’ospedale del bagno di Procida; e l’altro, nato povero, colpito benanche da immeritate sciagure e traversie; e fatto segno eziandio alle persecuzioni della polizia napoliatana, giunge finalmente, dopo la rivoluzione del 1860, a godere d’una modesta agiatezza. Siccome ognun vede la storia rispettiva di questi due giovani, comunque intramezzata da importanti episodî pe’quali si mettevano a luce talune profonde piaghe della nostra società, non era tale da coprire la vastità del titolo, che prometteva una cognizione speciale di tutto il lato direm tenebroso della società napolitana, delle virtù e de’vizi di tutta una popolazione rinomata pel suo carattere entusiasta e generoso, e insomma delle segrete cause di molti mali che ci hanno afflitto e ci affliggono ancora. Un’opera somigliante non era da contenere in un volumetto di 200 pagine; e né due modeste iniziali messe in fronte al libro poteano dare al lettore una guarentigia ed un’arra del merito di un’opera, il cui titolo facea supporre che l’autore si elevasse a smascherare le turpitudini e le virtù di tutto un popolo [1].

   Aborrente per principio e per gusto da tutte le grette imitazioni e segnatamente dalle novità che ci vengono da’nostri vicini d’oltralpe, tenni fermo, per non breve spazio di tempo, a non volere apporre il titolo di Misteri di Napoli a nessuna delle mio opere, alle quali pur si sarebbe potuto appiccare un tal titolo, se si guardi al concetto che il più de’lettori si son fatto di un libro che porti in fronte la stuzzicante parola di Misteri. Seppi, in fatti, che in una città d’Italia, uno di que’librai, che s’impipano la riputazione degli autori, aveva annunziato al pubblico, con lettere stragrandi su enormi cartelloni, la mia opera I Vermi sotto il titolo di Misteri di Napoli, sendogli forse paruto che un tal titolo, più sonoro e più aperiente l’appetito dei lettori, dovesse fargli incassare un maggior numero di quattrini.

   Per queste ragioni e per altre moltissime, cui per brevità non accenno, comunque da lunga pezza io vagheggiassi nella mia mente questi Misteri di Napoli, non mi sapevo deliberare a darci una forma, una vita e, sopra tutto, un titolo. Datomi per naturale propensione e per gusto alla sintesi psicologica delle diverse classi che compongono il civile consorzio, volli attentamente studiare da vicino quella gran sezione degli abitanti d’un vasto centro di popolazione, i quali dànno il maggior contingente agli sgabelli infami delle Corti di Assise; scrissi i Vermi; e quindi i Figli del lusso, farfalle sociali che nascondono sotto le loro ali screziate il bruco schifoso; e poco di poi scrissi le Ombre, in cui, svolgendo la vita dell’Operaia nella sua triplice elegia di Orfana, Moglie e Madre, toccai di quella ENORME INGIUSTIZIA SOCIALE qual è il Lavoro donnesco.

   La benigna accoglienza fatta da’miei concittadini a questi miei lavori e la rapida diffusione di essi mi animava a imprendere novelli studi su la società in generale e su la nostra Napoli in particolare, dalla quale non mi allontanai giammai insino a questo tempo della mia vita.

   Non pochi tra i miei lettori che mi hanno seguito pazientemente nella mia carriera di romanziero hannomi addebitato di essermi da poco in qua discostato dal genere de’miei primi romanzi. Non ispetta a me giudicare se una tale asserzione sia vera. Confesso che eglino non s’ingannano del tutto; ma lo scrittore non dee forse camminare col suo tempo? Alcuni altri, troppo ombrosi, non seppero perdonare all’autore della Cieca di Sorrento e del Mio Cadavere le scene troppo nude de’Vermi e delle Ombre: i cattivi preti, co’quali in non sono di tènere visceri, gridarono allo scandalo, alla immoralità. In pari tempo, mi pioveano da ogni parte d’Italia lettere di congratulamento per la franchezza ond’io smascherava il vizio, l’ipocrisia, la corruttela, e mi studiavo di sbarbicare dannosi e funesti pregiudizi dalle caliginose menti del nostro volgo.

   «Ma le vostre recenti opere non sono da porre tra le mani di tutti, e tanto meno delle donzelle» – è questo l’appunto che mi vien fatto dai più. Non entro a discutere questo appunto. Non nego che qualcuna delle mie recenti opere non è scritta per giovanetti e donzelle. La natura del subbietto da me trattato era tale che costringevami a scendere in taluni particolari non iscevri da pericoli per la viva immaginazione della giovane età. Di ciò mi affrettai, nella prefazione, di fare accorti i padri di famiglia e quelli che sono preposti alla educazione de’giovinetti. La clinica morale, al pari della clinica fisica, allontana dal letto degl’infermi i casti occhi della giovanetta e dello adolescente.

   Ma io non intendo elevarmi a giudice delle cose mie. Gratissimo a que’gentili che m’incuorano a proseguire nella spinosa via in cui mi son messo, senz’altra ambizione che quella di recare una pietra all’edificio della nostra civiltà; forte nella coscienza di chi adopera le sue facoltà al bene de’suoi simili; perseverante e infatibgabile nel mio cammino, ad onta delle innumerevoli spine a cui mi avvengo, non resterò, insin che lena mi avanzi, di spendere il mio povero ingegno a rialzare quegli eterni principî di giustizia, di morale e di civiltà, senza i quali non può essere né vera prosperità, né vera libertà, né vero progresso.

   Ora, mi si conceda di dire qualche cosa intorno allo scopo che mi prefissi in questo mio nuovo lavoro, affinchè i più scrupolosi non si adombrino dal titolo dell’opera e non temano di porre questo libro nelle mani anche di donne e giovanetti.

   Egli è fuori di dubbio che un libro, il quale verrà dalla maggior parte de’lettori considerato come un romanzo, e che porta in fronte il titolo presuntuosetto di Misteri di Napoli, debba far nascere il sospetto che ci sia entro roba da scandalo, storie di delitti, scene da raccapricciare, ascose turpitudini strombazzate a’quattro venti e qui e colà qualche dramma di vituperevoli amori. Certo, è questo il concetto che i più si formeranno d’un libro di questa fatta; e non mancherà chi il condanni e il ponga all’indice innanzi che vegga la luce. E veramente, dove si guardi agli esempî di altre così fatte opere, non si può disconoscere che i più hanno ragione di pensarla a tal modo. Ma, se io avessi ripescato nel fango della nostra società, non avrei fatto altro che ripetere, sotto altra forma, le brutture da me descritte ne’ Vermi e nelle Ombre: il mio libro non sarebbe stato che una pallida imitazione d’una mia stessa opera o di altre di simile stampo.

   Ho voluto seguire un cammino affatto opposto. A fare pienamente intendere il mio concetto, è d’uopo che io tocchi brevemente di alcuni speciali caratteri de’tempi nostri e di noi altri meridionali in particolare.

   Noi manchiamo di convinzioni e di principî: è questo il più spiccato carattere della presente generazione. Tutto assorti negli interessi materiali, noi sfuggiamo di occuparci di noi stessi; e fine supremo della vita pognamo il godimento materiale dell’oggi. E, gittati al di fuori di questi materiali interessi, noi non abbiamo nessuna fede, senza essere perfettamente increduli; non abbiam nessun saldo convincimento, e sia pure un errore, un paradosso. Diciamo di credere alla esistenza di Dio; ma la nostra adorazione è tutta pel vitello d’oro. Non siamo atei, non siamo scettici, non siamo credenti, non siamo niente. In quanto alla immortalità dell’ anima, a’futuri destini dell’uomo, tutto ciò non ci riguarda; il to be or not to be (essere o non essere) ci è del tutto indifferente. Non osiamo dire apertamente che la fede nell’altra vita è una mera fandonia; ma ce ne ridiamo sotto i baffi.

   Da questa mancanza di convinzioni di ogni sorta derivano le più strane e curiose contraddizioni che si osservano a’dì nostri. Noi confondiamo la libertà di coscienza collo assoluto indifferentismo su qualsivoglia credenza religiosa; vogliamo l’indipendenza e la libertà, e non apprezziamo che ciò che è francese, inglese o giapponese, e non sappiamo perdonare al nostro vicino di avere una opinione contraria alla nostra; vogliamo l’eguaglianza civile, e non ci vergogniamo di farci dare l’eccellenza da’nostri servi; gridiamo al mal governo, e non ci vogliamo prendere l’incomodo di andare a porre una scheda nell’urna; predichiamo filantropia, e diamo croci e premi a chi inventa modo novello di distruzione più pronta e più sicura, mentre lasciamo crepar di fame la virtù e l’ingegno; diciamo di essere uomini positivi, e paghiamo dieci mila lire al mese a qualche saltatrice più o meno in grido; facciamo arrestare i ladruncoli di fazzoletti, e lasciamo andare a’seggi governativi quelli che rubano i milioni; vogliamo più o meno l’emancipazione della donna, e per poco non diamo la berlina a una povera signora che cammini sola per le strade; ci crediamo uomini, e non siamo che scimmie.

   Questa mancanza di principî e di convinzioni fa sì che noi manchiamo eziandio di fermezza ne’nostri propositi, di dignità personale e di rispetto di noi stessi. Sempre servilmente ossequenti al potere ed alla forza, ci consentiamo di sparlarne in segreto, balestrando un’occhiata paurosa al’intorno per tema di essere intesi; non dissimili in questo da’valletti che seggono oziosi nelle anticamere de’loro padroni e che si disfogano a maledirli, salvo a correre a baciar loro le mani non sì tosto li veggono apparire in su la soglia.

   Dall’un canto, le classi intelligenti, educate, ed anco istrutte son magagnate dal tarlo della società presente che con novello vocabolo si è domandato affarismo, tarlo micidiale dell’anima, roditore di ogni nobile aspirazione morale, lento ma efficace distruttore di ogni principio di equità, di umana fratellanza e della divina voce della carità.

   Da un altro canto, una sterminata classe di scioperati, che abborrono al fatica, e che per vivere o alimentare i loro vizi debbono risolvere ogni giorno l’arduo problema di carpire una polizzetta da cinque lire dalla tasca de’loro amatissimi fratelli in Adamo, senza peraltro sfregarsi colle autorità di Pubblica Sicurezza.

   I governi civili che schiudono carceri e all’uopo innalzano patiboli per colpire i reati contro la proprietà e la vita non hanno saputo ancora trovare un PREMIO ALLA VIRTÙ. Le polizie che frugono ne’covi del delitto per isnidare un delinquente e mandarlo alle forche od agli ergastoli non si dànno il minimo fastidio di porsi alla ricerca delle OSCURE VITTIME DEL PROPRIO DOVERE, della virtù in lotta perpetua colla miseria, delle sublimi annegazioni che non hanno altra testimonianza che Dio.

   Ma che dico! I governi san pure trovare un premio per… la più sfacciata immoralità, per la mezzanità proterva e boriosa, per la raffinata ipocrisia, per la codarda ed abbietta cortigianeria. Vistosi emolumenti, alti ufizî, ciondoli e croci piovono addosso a gente immorale, ignorante, proterva, strisciante, vituperevole. Siamo ogni dì contristati dallo scoraggiante spettacolo d’impieghi ottenuti per la impudicizia di donne disonorate, per la vergognosa condiscendenza di abbietti mariti, e non poche volte pel sacrificio di caste ed innocenti donzelle. Ci nausea la vista perpetua di eleganti camorristi accolti e festeggiati nelle case patrizie e sfacciatamente sfolgoranti di un lusso, la cui origine dovrebbe far arrossare il codice penale.

   Intanto, che cosa fanno i governi civili a pro dell’ingegno e della virtù? colpiscono il ladro, se ha la malaccortezza di farsi ghermire nel momento che mette la mano nell’altrui tasca per rubare il portafogli, l’oriuolo o il moccichino; ma gli applicano un ciondolo al petto, se ha l’abilità di deviare un milione. E per la virtù che si lascia trangosciare di stenti, e si astiene, che cosa fate, o signori delle aule governative? Ed alla vecchiezza dell’onesto operaio che ha vivuto illibatissima vita qual riposo assicurate voi? l’ospizio de’poveri o l’ospedale! Ed alla vedova ed agli orfani di quell’integerrimo padre di famiglia, che abbreviò la vita per sostenere la moglie e i figliuoli, quale sorte serbate? Alla vedova il pane della carità privata, a’figliuoli maschi, il supplizio del servizio militare, alle femmine il postribolo.

   Abbiamo in Italia la spaventevole cifra di SEDICIMILIONI di analfabeti, di cui, per carità del suolo nativo, non dirò quanta parte spetta alla nostra Napoli. Migliaia e migliaia di cretini vegetano in alcune vallate delle Alpi e dell’Appennino; i quali non hanno dell’uomo che il beffardo ironico nome. Altre migliaia e migliaia languiscono di febbri perpetue prodotte dalla malaria, dallo scarso e malsano nutrimento, dalle estenuanti fatiche, dalle protratte vigilie. Né vale il dire che altrove eziandio questi mali travagliano le popolazioni. Altrove, è colpa della terra e del clima; appo noi, è colpa dell’uomo.

   Egli è certo che la vita in Italia è più breve che altrove; vergognoso oltraggio alla provvidenza che ci largì tutt’i tesori della sua inesauribile benevoglienza. Laddove le altre nazioni, meno favorite di noi, studiano i mezzi di accrescere il loro benessere e la loro civile e morale perfezione, noi studiamo i mezzi di renderci frustanei i doni del cielo. Ingegni sublimi ci lasciarono pagine immortali, tesori di scienza e ben vivere sociale; e noi, poscia di aver lasciato morir d’inedia que’sublimi ingegni nel tempo in che furono in mezzo a noi, oggidì ci tegnamo paghi di far pompa de’loro volumi in su i palchetti delle nostre librerie.

   Premesse queste cose per le generali, additerò brevemente qual è lo scopo del mio lavoro.

   Occulti fatti si compiono nel seno delle popolose città. I grandi delitti, i luttuosi avvenimenti sono rivelati dalle cronache della stampa periodica: i lettori ricercano con avidità questo pasto giornaliero della loro curiosità. Ma evvi una categoria di fatti che non hanno altro testimone che l’occhio di Dio, fatti che onorano la specie umana, e che non trovano altre apologia che nel cuore de’loro oscuri autori: sacrifici incredibili su l’ara della virtù e della onestà; lotte mirabili in cui resta vittorioso il principio morale; stupende rivelazioni della divina natura dell’anima; sublimi annegazioni, ignare a se medesime, di cui la morte reca il segreto innanzi a Dio.

   Il CONTAGIO DEL VIZIO, che è una delle più grandi piaghe delle popolose città, troverebbe efficace correttivo nello ESEMPIO DEL BENE, dove la stampa si occupasse di ricercare i misteri della virtù collo stesso ardore onde si occupa a ricercare e rivelare i turpi fatti del vizio.

   I Misteri di Napoli saranno dunque la rivelazione degli occulti splendori dell’anima sofferente alle torture sociali.

   Un fatto costante e terribile sembra, agli occhi degli stolti, che faccia brutta dissonanza nell’ordine maraviglioso della creazione, l’esistenza del male.

   Questa quistione non risoluta o mal risoluta ha portato l’uomo al dubbio, allo scetticismo: e dessa che crea gli atei, gli empi e i semicredenti [2].

   Ma è forse Iddio che ha creato il male? È forse colpa dell’artefice se una mano inesperta guasta l’accordo della macchina per proterva od istolta voglia di correggerla?

   Il Supremo Artefice (dice l’insipiente) non doveva esporre l’opera sua ad essere guasta dall’uomo.

   E noi rispondiamo: La guastano forse i bruti che popolano la terra? E vi sareste voi contentati di agguagliarvi alla condizione di bruti? Volete sconoscere la bontà di Dio, che vi creò Sua immagine, dotandovi del sublime dono della Ragione e del Libero Arbitrio?

   Il male è dunque incontrastabilmente l’opera dell’Uomo. Da cinque mil’anni Ei si travaglia a rendersi felice, e non può: l’IGNORANZA vi si oppone. Ciò non pertanto, il raggio divino della intelligenza superò gli ostacoli infiniti che l’Ignoranza le gittava tra’piedi, e fece a palmo a palmo maravigliose conquiste sul paradiso perduto. Caddero l’un dopo l’altro gli sterminati massi che la tirannide de’potenti, coadiuvata dalla tirannide sacerdotale, avea innalzati a puntello di un esoso edificio di usurpazioni e di arbitrii. Quando l’orgogliosa potenza romana parea che volesse soffocare le immortali tradizioni dell’umana grandezza nello sfacelo d’ogni principio morale, il VERBO DI DIO UMANATO rialzò la creatura, promulgando un codice divino di giustizia, di fratellanza, di amore. Ma la gran legge di amore fu affogata dalla nequizia delle tristi passioni, dalle smodate ambizioni, dall’obblio de’grandiosi destini dell’anima. I re, i preti, i ricchi, i potenti elevarono altri codici informi su quello predicato dal Cristo. La schiavitù, il feudalismo, la proprietà illimitata, il monopolio delle coscienze e de’beni della terra, gli eserciti permanenti, la gleba muliebre, snaturamento della donna, gli omicidi giuridici, le guerre, ed altre moltissime di queste sociali cangrene travagliarono e travagliano ancora l’inferma società tra spire torturanti.

   Ma Iddio trasse il bene dal seno stesso del male. Migliaia di martiri della virtù e dell’amore formano ogni dì la più splendida protesta contro la mala organizzazione sociale. Questa nube di anime che vola al cielo gemente ancora delle sofferenze della vita affretta ogni dì il compimento de’nobili destini dell’uomo.

   Questa opera avrà dunque lo scopo di additare

   La virtù cozzante co’vizi della presente società e co’mali inseparabili da’presenti ordinamenti sociali.

   È storica la tela del mio racconto? Sono veri i personaggi di questo gran dramma?

   A questi quesiti non risponderò che una sola parola: LEGGETE.

                                                                                                                F. M.

 

[1] Vedi il mio articolo bibliografico inserito nell’appendice del Giornale di Napoli del 3 Gennajo 1862.

[2] Solidaritè – Vue Synthètique sur la doctrine de Charles Fourier – par Hippolyte Renaud.

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   Non solo un capitolo ma un intero volume critico sarebbe opportuno dedicare ai Misteri di Napoli, l’opera di gran lunga più ricca e complessa nell’amplissimo corpus narrativo di Francesco Mastriani. Diamo una scorsa all’indice ed entriamo subito in argomento. Stampata in due volumi, ognuna dei quali con numerazione di pagina indipendente, l’opera è divisa in tre parti. Ogni parte è a sua volta divisa in libri. Ogni libro, poi, è diviso in capitoli numerati ma senza titolazione. Il numero dei capitoli, di varia estensione, di ognuno dei dieci libri oscilla fra le 15 e 52 unità. Il numero complessivo delle pagine ammonta a 1670. I misteri di Napoli con questa misura vengono a costituire il romanzo più lungo fra i 106 che uscirono dalla prodigiosa penna di Francesco Mastriani. Dirò qualcosa in più sulla struttura del romanzo e della sua forma generica, una forma generica che mi pare giusto definire perfezionato ibrido fra novel (ovvero romanzo vero e proprio) e anatomy (ovvero satira menippea).

   Mi preme ora rilevare nella composizione dell’opera la sua compattezza e la sua rigorosa integrità pur nell’ampiezza notevole dell’ambito tematico-narrativo. L’opera sembra aver avuto la sua luce a stampa già tutta compiuta, ben definita nella sua interezza, visto che viene presentata al pubblico, non a puntate in pubblicazioni periodiche, come in molti altri casi, ma direttamente in forma di libro dopo una lunga stesura durata presumibilmente due anni (come si può dedurre dalle date di pubblicazione dei due volumi, 1869 e 1870). Per Mastriani, che lavorava alla velocità della luce, due anni sono tanti. E per la verità, la scrittura dell’opera durò forse anche di più di due anni, ovvero ben oltre la data impressa sul frontespizio del secondo volume. Troviamo infatti, proprio nella zona conclusiva del romanzo un’indicazione preziosa sui tempi di stesura, apparentemente estesi fino all’anno successivo [1].

   L’indice del romanzo va letto insieme ad altre indicazioni dello scrittore stesso per una corretta intelligenza della forma ibrida (novel + anatomy) e della struttura particolare (in parti, libri e capitoli) del romanzo. Osserviamo innanzi tutto il titolo completo dell’opera: I misteri di Napoli. Studi storico sociali. Il sottotitolo rimanda direttamente al sottotitolo de I vermi. Studi storici su le classi pericolose in Napoli, del 1863; e di conseguenza rimanda anche ai Figli del lusso, sèguito dell’opera I vermi del 1866. A ben vedere, come abbiamo modo di osservare altrove, anche I lazzari. Romanzo storico (1864) e Le ombre. Lavoro e miseria (1868) dipendono da I vermi che sono dunque il capostipite, per così dire, della suddetta forma generica ibrida scelta, elaborata e perfezionata dall’autore nei Misteri di Napoli. Ma lasciamo a lui la parola. Ecco un paio di citazioni utili tratte dalla Prefazione:

   «Comunque da lunga pezza io vagheggiassi nella mia mente questi Misteri di Napoli, non mi sapevo deliberare a darci una forma, una vita e, sopra tutto, un titolo. Datomi per naturale propensione e per gusto alla sintesi psicologica delle diverse classi che compongono il civile consorzio, volli attentamente studiare da vicino quella gran sezione degli abitanti d’un vasto centro di popolazione, i quali danno il maggior contingente agli sgabelli delle corti di Assise; scrissi I vermi, e quindi I figli del lusso […] e poco di poi scrissi Le ombre [2].

Non pochi tra i miei lettori che mi hanno seguito pazientemente nella mia carriera di romanziero hannomi addebitato di essermi da poco in qua discostato dal genere dei miei primi romanzi. Non ispetta a me giudicare se una tale asserzione sia vera. Confesso che eglino non s’ingannano del tutto; ma lo scrittore non dee forse camminare col suo tempo? Alcuni altri, troppo ombrosi, non seppero perdonare all’autore della Cieca di Sorrento e del Mio cadavere le scene troppo nude de’ Vermi e delle Ombre [3]».

  

   Mi sembra chiaro dunque, o meglio confermato, il peso referenziale de I vermi per le opere successive ai Misteri di Napoli. Nell’elenco delle opere “nuove” Mastriani non menziona I lazzari. Romanzo storico (1865), ma proprio il contenuto saggistico del romanzo, con tanto di riferimenti fattuali e di commenti politici, iscrive anche questo romanzo alla forma generica inaugurata da I vermi. Ma il discorso va allargato ulteriormente. Mi pare giusto vedere ne I vermi (1863) il risultato di una profonda riflessione etico-letteraria sviluppatasi con la stesura del Materialista (1862), ovvero con il primo post-borbonico scritto dal Nostro. Come ho provato a spiegare in precedenza, se non ci fosse stato il tracollo della dinastia borbonica, Mastriani non sarebbe mai arrivato al Materialista né tanto meno a I vermi. La forma generica ibrida si ritrova, con il solito dossier di riferimenti fattuali, storici, politici e religiosi anche in un altro importante romanzo, il Memorie di una monaca (1879).

   Diamo ora un’occhiata alla struttura fisica del romanzo, ovvero alla distribuzione del testo in tre parti, dieci “libri” e 322 capitoli [4]. Ognuna delle tre parti presenta un titolo molto significativo in quanto raccoglie il contenuto di vari “libri” sotto una figura emblematica. La prima parte si intitola Marta o la fede. Marta è l’unica figlia di Serafino Jommero detto Cecatiello, ladro di professione e di Rosa, pazza ninfomane fuggita dal manicomio. Con tutta la negatività di queste origini e un aspetto fisico tutt’altro che avvenente, Marta è un personaggio che incanta tutti per la sua bellezza interiore, per la sua bontà, per la sua generosità. La bellezza di Marta viene dalla sua profonda fede cristiana, vissuta in maniera operosa per il sollievo dei più umili e indifesi. Che c’entra un personaggio del genere con un romanzo di Mastriani che, per quanto originale possa essere criticamente stimato, non può non richiamare i misteri di Parigi di Eugène Sue [5] e dei suoi imitatori con le “canoniche” descrizioni di turpitudini e infamità varie dei bassifondi della città? La risposta ce la dà Mastriani stesso:

    «Mi si conceda di dire qualche cosa intorno allo scopo che mi prefissi in questo nuovo lavoro […] Egli è fuori di dubbio che un libro, il quale verrà dalla maggior parte de’ lettori considerato come un romanzo, e che porta in fronte il titolo presuntuosetto di Misteri di Napoli, debba far nascere il sospetto che ci sia dentro roba da scandalo, storie di delitti, scene da raccapricciare, ascose turpitudini strombazzate a’quattro venti e qui e colà qualche dramma di vituperevoli amori. […] Ma, dove io avessi ripescato nel fango della nostra società, non avrei fatto altro che ripetere, sotto altra forma, le brutture da me descritte ne’Vermi e nelle Ombre: il mio libro non sarebbe stato che una pallida imitazione d’una mia stessa opera o di altre di simile stampo. Ho voluto seguire un cammino affatto opposto [6].

   Occulti fatti si compiono nel seno delle popolose città. I grandi delitti, le opere inique, i luttuosi avvenimenti sono rivelati dalle cronache della stampa periodica: i lettori ricercano con avidità QUESTO PASTO GIORNALIERO DELLA LORO CURIOSITÀ. Ma evvi una categoria di fatti che non hanno altri testimoni che l’occhio di Dio, fatti che onorano la specie umana, e che non trovano altra apologia che nel cuore de’loro oscuri autori: sacrificî incredibili su l’ara della virtù e della onestà; lotte mirabili in cui resta vittorioso il principio morale; stupende rivelazioni della divina natura dell’anima; sublimi annegazioni, ignare a se medesime, di cui la morte reca il segreto innanzi a Dio [7]».

   Ecco spiegata la presenza di Marta in apertura dei Misteri di Napoli. Marta è la forza morale, cristiana e civile che si oppone alle brutture della società del tempo.

   La parte seconda è intestata al condensato delle ingiustizie e delle infamità sociali, all’origine dei peggiori mali che affliggono la serena convivenza umana: la brama di ricchezza, l’avarizia dantesca che calpesta ogni umano diritto e dignità. L’avarizia con le sue infinite turpitudini è esemplata in una scellerata famiglia di possidenti, i Massa Vitelli. Dalla virtù della fede della prima parte si passa dunque al peggiore dei vizi, l’avarizia, nella seconda; per giungere infine, nella terza, alla visione di una condizione umana ideale di cui la Palingenesia (titolo dell’ultimo “libro”), ovvero il Risorgimento storico italiano, è un sicuro e potente simbolo.

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   Ma apriamo finalmente quest’opera colossale, entriamo nel tessuto delle sue fabulae e delle sue digressioni, magari come un lettore dell’Ottocento, senza (troppi) pregiudizi critici e con una buona familiarità con la penna dell’autore. L’incipit è “geografico”, per così dire, topografico e toponomastico, come già s’era visto altrove (in altri romanzi e, in maniera esemplare, in Matteo l’idiota):

   «Nel Borgo Sant’Antonio Abate è un vicoletto addimandato de’Lepri, che mette capo in un altro vico dello stesso nome. In quel vicoletto è un portoncino scuro, affumicato, fetido e sgocciolante acqua da tutti i pori [8]».

   All’indicazione precisa del luogo si aggiunge l’indicazione precisa del tempo:

   «Una sera (era lo scorcio del mese di aprile dell’anno 1846), verso le due ore di scuro, due uomini, entrati nel vicoletto de’Lepri dalla parte de’Fossi a Pontenuovo, si cacciavano nel portoncino che abbiamo mostrato. Erano due facce sinistre [9]».

   “Vicoletto… portoncino scuro… due ore di scuro… facce sinistre…” è il sitting di un noir. E tale appunto può essere considerato questo primo libro, Cecatiello e la genesi de’ladri, del romanzo intero, I misteri di Napoli, la cui forma generica, che abbiamo detta ibrida, qui comincia a riconoscersi con i tratti del novel. Il novel, il romanzo vero e proprio, è fortemente ancorato a un ambiente e alla caratterizzazione psicologica del personaggio. Eccone due dei principali: le facce sinistre sono quelle di due ladri, uno dei quali, Serafino Jommero, è il Cecatiello del titolo del primo libro.

   Hanno appena compiuto un grosso colpo, trentamila ducati, e nel corso della rapina il secondo ladro, Pilato detto il Masto ed anche lo Strangolatore, ha ucciso con le proprie mani il proprietario del tesoro, ovvero il vecchio duca Tobia di Massa Vitelli. Il Masto, ex “imperatore”, ovvero capo riconosciuto del Camerone del carcere della Vicaria, è il camorrista capo della paranza (nucleo indipendente della camorra) chiamata Masseria nell’ambito “regionale” della Vicaria. Prima di raggiungere con Cecatiello “il portoncino scuro” del vicoletto de’Lepri, il Masto ha ammazzato, la stessa notte, anche un’altra persona, tale Tommaso l’accenditore di lumi (uno dei tanti mestieri della Napoli dei lumi a gas che Mastriani ci descrive) detto Tellecariello, associato alla camorra, il quale, per aver evitato ai due ladri un indesiderato incontro con la ronda della polizia, reclamava all’istante la sua tangente. È consuetudine camorristica che si faccia la sala (che si dia la mancia) ai facilitatori della rapina in proporzione allo sbruffo (bottino) e quindi Tellecariello:

   «Bene – ripigliò Tellecariello – lasciatemi vedere che cosa ci avete in codesto fagotto, e se la roba pizzicata valga un dritto di sala di due pezzi. – Sembrò che questa proposta non andasse molto a sangue a quei due galantuomini, che, datosi avviso per cenni, si accordarono a non fare il piacimento del camorrista. – Tu non avrai li due pezzi che chiedi, e né vedrai che cosa è nel fagotto – disse risolutamente l’uomo alto, a cui l’accenditore avea dato il nome di Masto, e che sembrava infatti avvezzo ad un certo predominio e comando. – Col tuo permesso, Masto, avrò li due pezzi e vedrò lo sbruffo. E l’accenditore stava per slanciarsi su l’ometto del fagotto, allorché gittò un grido acutissimo. – Madonna santissima! – L’uomo alto avea dato due colpi di coltello ne’reni e ne’lombi del disgraziato accenditore, che cadde [10]».

   Entriamo così nei Misteri di Napoli: di notte, con furti, assassinii, nefandezze e crudeltà di ogni genere… riscattate dall’innocenza virtuosa di Marta, la figlia del ladro.

   La trama si snoda in varie direzioni, ognuna con un luogo particolare di riferimento: dal covo della Masseria della camorra alle residenze (di città e di campagna) dei Massa Vitelli; dalla cartiera di Giugliano, luogo di lavoro di Marta, alle campagne di Casal di Principe, floride terre appestate dalla “mal’aria” (del “libro” secondo), ovvero dai “miasmi venefici” causati dalla macerazione della canapa che mietono numerose vittime fra braccianti e fittavoli della zona.

   Affianca Marta, nella sua generosa opera di soccorso e di sollievo dei poveri e diseredati, Paolo Onesimo della famiglia, appunto, degli Onesimi. Tale famiglia, vantando tra i suoi antenati un riconosciuto “beato” nella gloria celeste, è votata alla santità attraverso il perdono in tutte le circostanze avverse della vita. Gli Onesimi sono l’esempio degli onesti proletari della campagna cui è intestato il “libro” terzo della seconda parte. L’ultimo degli Onesimi, Sabato, seppur ha giurato sul crocifisso d’avorio di famiglia di perdonare sempre, così come hanno fatto i suoi antenati, suo padre e i suoi fratelli, si ribella alle ingiustizie sociali e diventa un brigante, il che porta la trama generale del romanzo al quarto ed ultimo “libro” della prima parte.

   I quarantuno capitoli di Tobia e la genesi della ricchezza, primo “libro” della seconda parte, fa da pendant al primo “libro” della prima parte sulla genesi dei ladri. La genealogia dei Massa Vitelli è un excursus sulle crudeltà e le ipocrisie, le estorsioni, i furti e le menzogne degli scellerati membri della famiglia di possidenti. Doppiogiochista fra Borboni e napoleonidi, il duca Tobia è il campione vivente di tutte le “qualità” elencate sopra fino alla notte del grande furto di Cecatiello e dello Strangolatore che gli toglie la vita con la sua morsa micidiale. Le ricchezze del primo “libro” della seconda parte portano al Libertinaggio del secondo “libro” in cui a far concorrenza ai soliti Massa Vitelli è un rampollo della famiglia reale, Don Antonio Borbone, conte di Lecce, ventenne, amico e compagno di “scostumatezze” del più attempato marchese Angelo Alfonso de’duchi di Massa Vitelli, nipote del duca e cugino del vizioso fedifrago duchino Filippo, diseredato dal padre Tobia che, per soprammercato gli ruba l’amante.

   Il terzo ed ultimo “libro” della seconda parte, Il colera si riferisce all’epidemia del “morbo asiatico” del 1836-1837, cronologicamente precedente rispetto ai fatti della trama principale che si svolge dal 1846 al 1861. E però la collocazione di questo argomento in calce alle turpitudini dei possidenti Massa Vitelli ha tutta l’apparenza di una giusta punizione, considerando anche che il figlio del patriarca Tobia, ovvero il duchino Filippo, rimane vittima del colera. Per Mastriani la giustizia divina non è soltanto cosa dell’altro mondo, dell’aldilà, ma è cosa ben presente anche in questo mondo per cui sempre, nel corso della esistenza commesse. E così, per esempio, proprio il duchino Filippo di Massa Vitelli, colonnello della Guardia Reale non per merito ma per intrallazzi politici, gran libertino e seduttore della moglie di un suo sottoposto, il tenente Vitagliano Arezzi, viene ripagato da questi con la stessa moneta e ammonito con una sentenza (ricorrente qui nei Misteri di Napoli e presente anche in altre opere) che esprime appunto l’idea della “santa giustizia” di Mastriani.

   «Le tendine che ricoprivano l’alcova si sollevarono; e agli occhi sbalorditi del colonnello apparve il tenente Vitagliano Arezzi. – Signor colonnello – disse questi freddamente – ricordatevi del giorno in cui vi colsi nell’armadio in casa mia; ora voi cogliete me sotto l’alcova. Chi soffre quel che altrui soffrire ha fatto, alla santa giustizia ha soddisfatto. – Era la seconda volta nella stessa giornata che questo motto fatale colpiva gli orecchi di Filippo di Massa Vitelli. La rabbia subentrò in lui ad un momento di confusione e di vergogna. La sua mano corse a ricercare la pistola. Vitagliano il divinò; e già gli avea puntata in faccia un’arma simile [11]».

   La terza parte, o meglio il suo primo “libro”, Il regno della forza, si apre con un esergo autoreferenziale notevolissimo. L’autore cita se stesso. Cita un passo di una pagina precedente degli stessi Misteri di Napoli: «La forza è l’impero del regno animale. Sostituire l’Intelligenza alla Forza, lo Spirito al Corpo, è l’incessante conato della Civiltà»[12]. La terza parte del romanzo è tutta volta a significare in questa continua lotta tra intelligenza e forza fisica, tra spirito e corpo, l’ineluttabilità della vittoria dell’intelligenza e dello spirito perché, come già indicato in una pagina precedente, «È ineluttabile che la società si avvia per gradi insensibili al regno della sua maggiore possibile perfezione» [13]. Il punto debole, di sofferenza diciamo così, di questa proiezione ideale del cammino della civiltà, è proprio la lentezza con cui avvengono i cambiamenti, i miglioramenti sociali. Per cui, se chiarissimo è il punto di arrivo, vuol dire che spetta al narratore, “realista”, “naturalista” o “verista” che dir si voglia, il compito di registrare le varie fasi intermedie, i “gradi insensibili” delle mutazioni sociali. La lotta fra realtà quotidiana e idealismo, ovvero fra corpo e anima, si esprime nella figura di Nazario, altro personaggio indimenticabile del romanzo.

   Nazario, figlio di Gesualdo, fittavolo del marchese Alfonso Maria di Massa Vitelli, alla morte del padre vedovo è raccolto dalla buona Marta che gli trova una ottima sistemazione presso un uomo colto e sensibile, modestissimo possidente, maestro, ovvero tutore, di gente di campagna: il signor Vincenzo, della cittadina di Caivano. Questi nutre ed educa sobriamente nelle lettere il piccolo orfano. Lontano dalle drammatiche esperienze di vita dei congiunti (la sorella maggiore, Rita, diventata l’amante di un famoso brigante, Angelantonio Rinaldi, mentre l’altra sorella, Francesca, che aborra la povertà, vende il suo corpo per vivere), Nazario cresce sereno, studia molto, comincia a scrivere versi. Alla morte del signor Vincenzo, nel 1856 (Mastriani pone una cura maniacale nella precisazione temporale degli eventi così come nella descrizione dei luoghi), Nazario si trasferisce a Napoli; completa un libro di poesie; scrive anche un’opera teatrale. Dopo vari alti e bassi è soccorso da un mecenate inglese. Prenderà la via dell’esilio volontario, seguendolo in Inghilterra.

   L’Inghilterra, per le sue leggi liberali, soprattutto in materia di lavoro, è anche la destinazione di Paolo Onesimo dopo la prematura morte dell’amata Marta, la quale resta, fino alla fine, personaggio simbolico della fede (come dal titolo della prima parte del romanzo), una fede che ha portato a tanti cambiamenti positivi nel corso degli anni dello sviluppo della trama, sia sociali e politici che personali. La palingenesi dell’ultimo “libro” della terza parte e del romanzo è relativa alla storia risorgimentale, parallela al migliorato stato del popolo cittadino e del proletariato delle campagne. Onesimo è pronto ad acquistare il mulino della Mandriglia per il quale ha lavorato per tanti anni; è pronto ora, da padrone, a trattare gli operai come fratelli, ma questo suo desiderio, questo suo lodevole programma, sembra una beffa del destino al capezzale della morente sua amata e promessa sposa. “Troppo tardi”, mormora la buona Marta prima di spirare.

   Ad Onesimo, votato alla santità, non è concesso imprecare contro i ricchi che hanno guastato l’aria di Giugliano e la salute della sua donna. Gli resta l’impegno generoso, la volontà ferma di fare del bene al prossimo, ai suoi compagni di lavoro in particolare, ora che la sua famiglia, passata e futura, è distrutta. Per questo, nella chiusa del romanzo, Onesimo si propone di andare in Inghilterra per studiare l’organizzazione delle trade unions e ritornare in patria con idee e programmi, volto ad accelerare, come sopra si diceva, l’ineluttabile cammino del progresso fino «al regno della sua maggiore possibile perfezione»[14], ovvero del regno di Cristo, visto che così si conclude la citazione del Bianchini:

   «Noi veggiamo nell’avvenire le istituzioni sociali elevarsi al livello delle istituzioni di Cristo Signore. LA MISERIA SPARIRÀ  DALLA TERRA. Chi sa se queste parole che or noi verghiamo avranno la sorte di cadere sotto gli occhi degli uomini felici dell’epoca a cui noi accenniamo e che vediamo rilucere di tanta luce nelle nebbie del futuro[15]».

   Questa è la fede civile e religiosa di Mastriani, per il quale l’ateismo non ha ragione di esistere fra gli uomini. Aveva già indicato il suo disprezzo per lo storico “ateismo beffardo” nel Materialista (e altrove) ricordando Giovan Battista Vico, ora arriva a dire che gli atei sono come le scimmie.

   Raccontare così, in poche pagine, “la storia” dei Misteri di Napoli, che s’è detto conta più di mille e seicento pagine, non è solo riduttivo, ma fuorviante addirittura se non si aggiunge qualcosa a proposito del carattere saggistico del romanzo (ricordando ancora una volta il sottotitolo: Studi storico-sociali) che ci ha indotti a parlare di forma generica ibrida, cioè di novel, romanzo vero e proprio, con anatomy, cioè satira menippea con commenti, ironie e sermoni sulla condizione sociale.

   Il modo più utile e pertinente di presentare la parte saggistica del romanzo mi pare una breve rassegna delle numerose digressioni. Numerose e di diversa estensioni sono le digressioni saggistiche di vario argomento in tutta l’opera di Mastriani. chi ricorda le digressioni lunghissime di Sotto altro cielo, in cui praticamente esse costituivano veri e propri piccoli saggi indipendenti dalla trama del romanzo, non può non registrare l’enorme differenza delle digressioni dei Misteri di Napoli, che non solo sono più brevi e più numerose, ma che a volte si sviluppano “in serie”, nel senso che da una digressione può nascerne un’altra come, del resto, dalla fabula del racconto principale possono ramificarsi trame secondarie diverse.

   La prima digressione di un certo rilievo riguarda un pensiero di Mastriani sulla giustizia e, in particolare, sull’amministrazione della giustizia nel suo tempo. Vediamo in che modo la digressione si innesta nel racconto e seguiamone quindi lo sviluppo fino alla conclusione. Siamo nel capitolo tredicesimo del primo “libro” della prima parte dei Misteri. L’autore sta descrivendo il personaggio Sacco di fiore, personaggio associato alla paranza della Masseria, ovvero della camorra della Vicaria comandata dal Masto, detto anche lo Strangolatore, il cui nome è Pilato. Abbiamo già incontrato Sacco di fiore che «nel quartiere la chiamavano donna Carmela», mentre «il soprannome glielo aveva dato la paranza» [16]; l’abbiamo incontrata all’inizio della narrazione quando ha accolto in casa sua i due ladri, Masto e Cecatiello, dopo il colpo grosso di Sant’Efrem vecchi in casa del duca Tobia di Massa Vitelli. La digressione ora nasce dalla biografia dettagliata di Sacco di fiore che l’autore ritiene importante farci conoscere. Ogni personaggio in Mastriani ha una storia che val la pena raccontare e ascoltare. Verrebbe quasi da dire che non ci sono personaggi minori nei romanzi di Mastriani. Una nuova trama narrativa, se non addirittura un nuovo romanzo, può nascere dal ritratto sbozzato di un personaggio minore.

   Il narratore ci dice dunque della infanzia e della adolescenza di Sacco di fiore/donna Carmela e quindi della sua unione di interesse con un brigadiere delle guardie di dogana. Questo brigadiere, Pasquale de Crescenzo, ex barbiere, era riuscito con adulazioni e piccoli raggiri a farsi nominare agente di dogana. Gli agenti di dogana non sono tutti onesti; fra essi ci sono quelli come lui che rubano allo Stato, nel senso che ottengono tangenti chiudendo un occhio sulla merce di contrabbando. All’autore si offre qui l’occasione di parlare del contrabbando: una piccola digressione. Il brigadiere de Crescenzo ha imparato, si diceva, a far soldi chiudendo un occhio sulle merci di contrabbando. Ora, siccome l’avidità di denaro non ha limiti soprattutto quando risulta poco faticoso ottenerlo e quando si ha una compagna che ne richiede continuamente, un bel giorno… dopo averli chiusi tutti e due gli occhi su un grosso carico di contrabbando, il nostro doganiere disonesto viene denunciato ai superiori e così cerca scampo, da Pomigliano d’Arco in cui era distaccato, a Napoli, dove presumibilmente può contare su qualche appoggio che gli permetta, è la sua speranza, di evitare il carcere. Ecco l’occasione, per Mastriani, per innestare una ulteriore digressione, sulla giustizia, con una serie di domande retoriche.

   «La fuga in Napoli non salva che provvisoriamente il brigadiere da’rigori della giustizia. Ed ora che ci troviamo questa parola sotto la penna, noi vogliamo fare a noi stessi questa domanda: Non deve l’umana Giustizia arrossare di farsi chiamare Giustizia? Quante torte sentenze non escono da quelle aule in cui si decretano le sorti dei rei o degli accusati? Noi veggiamo tuttodì assolti e francati di ogni pena uomini macchiati di turpi misfatti? Che cos’è quest’arte oratoria che s’impara nelle scuole e ne’collegi se non l’arte di far le fiche al codice penale? Non è tanto la maggiore riputazione di un avvocato criminale quanto maggiore è l’arte colla quale egli snatura i fatti, attenua o fa sparire i reati e annebbia l’intelletto di Astrea? La misura della pena è sempre proporzionata al delitto? La pena è sempre misurata alla persona, vale a dire, allo stato, al carattere, al temperamento, alla educazione, alla età e allo stato di cultura del reo? Non debbe il giudice tener conto di quelle speciali conformazioni organiche per cui certi uomini sono fatalmente spinti a delinquere per questa via o per quella?». [17]

   A questo punto, si parla di “fato” in termini “scientifici”, l’occasione è troppo ghiotta: l’autore non può evitare di far menzione dell’opera monumentale sull’argomento di Giuseppe Mastriani, suo fratello, ricordato indirettamente prima con l’argomentazione che segue e poi direttamente con una nota a pie’di pagina. Ecco l’argomentazione:

   «Quando diciamo fatalmente non intendiamo significare che noi minimamente ammettiamo quella stolta e assurda chimera che dicesi fato o destino; ma solo intendiamo quella propensione o tendenza più o meno pronunziata che la particolare fisica conformazione dà a ciascuno individuo della specie umana sia nel bene che nel male, sia per le opere d’ingegno e di genio, sia per certi vizi e certe passioni [18]».

   Ed ecco la nota a pie’di pagina apposta in calce al chiarimento del termine “fato”:

   «Intorno a ciò scrisse il nostro amatissimo fratello Giuseppe in un’opera intitolata Notomia morale della quale è sotto i torchi la seconda edizione». [19] Dalla digressione sulla giustizia il passo è breve per un commento “scientifico” sulla frenologia, di cui comunque si parlerà diffusamente anche in altri luoghi del romanzo e in altri romanzi:

   «Una scienza novella che prende ogni dì maggiore sviluppo ed incremento, la frenologia, ha mostrato fini alla evidenza che la tendenza a commettere certi reati è maggiore in certi uomini. Non crediamo che la più parte degli istinti animaleschi sono, diremmo, attaccati alla forma delle loro ossa; stupendo e inestricabile mistero della natura. Gli è certo che le apofisi distinguono gl’istinti de’bruti e le indole degli uomini. Guardate in un morotrofio la conformazione degli ossi frontali di quegl’infelici, ed osservate presso a poco la stessa fronte, lo stesso sincipite. Scendete nella terza Divisione del Bagno di Nisida, ed affissate attentamente la struttura del volto di que’delinquenti che portano sul capo il giallo berretto. Non hanno eglino un sol tipo, una sola forma? Non si direbbe che la natura abbia creato quegli uomini per essere ladri? E quegli altri che portano il berretto nero non vi dicono a prima vista, dalla feroce espressione dello sguardo, dalla tinta biliosa del volto, dalle fronti incavate e complesse, ch’eglino si macchiarono del sangue del loro simile? Non iscorgete guizzare negli occhi di questi micidiali un baleno sanguigno dell’iride del tigre o della lonza? A questo intender dee precipuamente la civiltà, a correggere cioè le male tendenze a cui ciaschedun uomo è spinto dal suo particolare organismo [20]».

   Ho riportato per esteso questo passo non solo perché offre un buon esempio della retorica delle digressioni nel romanzo, ma anche perché chiarisce aspetti fondamentali, “scientifici”, della epistemologia dello scrittore. Il Bagno di Nisida, si ricorderà, Mastriani ce l’aveva già visitare ne I vermi; nel Federico Lennois, poi, ci aveva confermato il suo interesse e la sua competenza in ambito medico-scientifico descrivendoci le condizioni dei pazienti del manicomio di Bicètre. La fede nella frenologia di Mastriani va intesa come fede nella modernità e nell’indubbio, ineluttabile avanzamento della civiltà fino al suo massimo livello. Questo massimo livello corrisponde, o meglio corrisponderà, all’avvento del cristianesimo civile, ovvero a una condizione sociale in cui i principi cristiani di eguaglianza e fratellanza saranno abbracciati dall’uomo e regoleranno armoniosamente la sua vita terrena.

   Credo, che a questo punto, che risulti abbastanza chiara la tendenza di Mastriani a sviare dalla narrazione principale ogni qualvolta gli si presenti l’occasione di discutere un tema che gli sta a cuore. Non sarà necessario allora insistere sui dettagli delle altre digressioni nel romanzo; mi limito a segnalarle succintamente e a indicare le pagine di riferimento.

   È notevole la digressione sull’infanzia: sulla salute, igiene e nutrimento dei neonati [21]. Una digressione simile lo scrittore l’aveva inserita già nel suo primo romanzo, Sotto altro cielo, una ventina d’anni prima, segno che, a suo modo di vedere, la situazione non era molto migliorata da allora, il che conferma un suo assunto sulla lentezza del comunque certo progresso sociale. L’alta mortalità infantile, vera e propria «strage degl’innocenti» [22] dice l’autore, si può e si deve evitare con le moderne norme d’igiene e con la giusta alimentazione, su cui dà ampi ragguagli.

   Digressione interessantissima è anche quella sulla eredità dei beni materiali, ovvero sull’assenza delle tasse di successione: un vero e proprio ostacolo per Mastriani, al riconoscimento della uguale dignità di tutti i cittadini al di là del loro ceto sociale. Il brano in questione costituisce uno dei tanti riferimenti, in questi Misteri di Napoli come in altri romanzi, alla perversa e abusiva pratica, prima che legge, della eredità diretta, «inventata per perpetrare ne’discendenti il monopolio delle spoliazioni e della rapina».[23]

   Altre digressioni hanno carattere storico-architettonico-urbano come la descrizione della fontana della Cuccuvaia (cioè del gufo) nel quartiere di Porto. Il luogo era già stato notato in un altro romanzo, Matteo l’idiota, ma qui se ne dà una descrizione storica dettagliata, dalla costruzione antica a opera di Giovanni da Nola al suo uso “presente” in tempo di colera, cioè del colera del 1836-1837, di luogo di raccolta dei cadaveri della giornata: «Egli era appunto appresso alla fontana di Porto che si ammonticchiavano i cadaveri nelle ore della sera».[24]

   Altri argomenti di digressione sono: «la perdita di tempo negli uffici pubblici»[25]; la necessità sociale di istituire, come per i militari e per i dipendenti pubblici, una pensione universale di vecchiaia [26], l’importanza del risparmio, con la doppia esigenza di istituire casse di risparmio dello Stato e di abolire il gioco del lotto che crea dipendenza e miseria soprattutto fra i cittadini meno abbienti [27]; Porta Capuana e la sua storia[28]; la devozione della Madonna [29]; la fame e le sue vittime nella società “civile”[30].

   Ci sono poi digressioni storiche notevolissime, variamente intessute nell’ordito della trama principale. Si tratta della morte di Ferdinando I, della morte di Francesco I e dell’ascesa al trono del ventenne Ferdinando II; della concessione della costituzione il 10 febbraio 1848; delle barricate del 15 maggio dello stesso anno nel giorno di apertura del neoeletto Parlamento; della rivolta dei “candido-spontanei” del 5 settembre sempre del fatidico anno 1848, ovvero della antiliberale “insurrezione” dei “Luciani” presi a sassate dagli eroici “Rossi” di Montecalvario, i quali – così è, contorta, la storia di Napoli – sono da Mastriani assimilati ai “valorosi” lazzari (chi altri se non i “Luciani” stessi?) che combatterono contro Championnet nel 1799 [31].

   Per concludere, c’è da dire che il Mastriani saggistico non è solo presente nelle numerose digressioni che ho sopra elencato. L’autore risponde, infatti, saggisticamente, ad ogni possibile stimolo linguistico, metonimico, di un termine o concetto particolare che magari lui stessi ha usato nella stesura del romanzo. Ricorre, per esempio, in tutta l’opera, in senso dispregiativo, il termine “ebreo” [32]. A un tratto l’autore ha però un’impennata riflessiva che gli fa cambiare opinione, o meglio gli fa invertire il luogo comune. Val la pena di citare per esteso. Il brano fa riferimento a una cambiale con altissimo interesse che il diseredato duchino Filippo di Massa Vitelli è costretto a firmare a vantaggio del cugino Alfonso:

   «Don Alfonso era un ebreo raffinato. A proposito vorremmo dire una parola colla massima segretezza, così, a quattr’occhi… Vorremmo domandare a qualche capitalista del genere di don Alfonso, se noi abbiamo il diritto di chiamare ebrei gli usurai ed altra gente di simile fattura, o se, meglio e con più ragione, gli ebrei non abbiano diritto di chiamar cristiani tutti i vampiri che succhiano sangue umano. Anzi, noi stessi, noi cristiani, noi cattolici, noi popoli civili, intelligenti, colti, umanissimi, abbiamo già dato alla parola cristiano una ignominiosa qualificazione, perciocché ce ne serviamo talvolta per indicare un uomo furbo, destro, abile a trovare espedienti di ogni sorta, e sopra modo abilissimo nel far denari. Non sentite ogni giorno questa espressione; Tizio è cristiano! Per significare che Tizio sa ben condurre le proprie faccende? Crediamo, in coscienza, che più ragioni si avrebbero gli ebrei. Don Alfonso era dunque un cristiano raffinato [33]».

   Resterebbe ancora molto da dire sul romanzo e sul suo stile. Al di là delle ben stabilite categorie critiche, bisognerebbe tener sempre presente che la grande estensione tematica, che logicamente rallenta il fluire della trama, è cosa comunque apprezzatissima dal lettore del tempo, avido di cultura, di conoscenze storiche e, più di tutto, di partecipazione sociale di cui la stampa e i romanzi di Mastriani, «l’iddio dei romanzieri» [34], sono sicuri, validi strumenti.

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[1] Ecco la citazione: «Oggi, nell’anno 1871 in cui scriviamo la presente pagina, in una delle più belle e cospicue città d’Italia, due poderosi ingegni, due poeti, due nomi di cui le lettere italiane si fregiano, PATISCONO LA FAME», I misteri di Napoli, cit. II. p. 586). Il maiuscolo è nel testo. Cito qui solo per segnalare la data. Su questo passo dei Misteri bisognerà ritornare. Non è affatto chiara l’identità dei due “poderosi ingegni” menzionati.

[2] Ivi, I, pp. IX-X.

[3] Ivi, p. X.

[4] Precisamente 118 capitoli nella prima parte, 107 nella seconda, 97 nella terza.

[5] Les Mystères de Paris vedono la luce come romanzo d’appendice sul Journal des dèbats (Parigi, 19 giugno-15 ottobre, 1843). Il romanzo esce subito, lo stesso anno, in Italia (traduzione di Filippo Berti, Firenze, Pezzati). Un’altra edizione, probabilmente non ignota al Mastriani apparve il 1867 (Milano, Pagnoni). Sicuramente più recente è la bella edizione illustrata Nerbini (Firenze s.a.), cui si va a sommare l’ultima edizione italiana, del 2007 (traduzione di Marcello Militello, prefazione di Umberto Eco, Milano, Rizzoli).

[6] Francesco Mastriani, I misteri di Napoli, Napoli, G. Nobile, 1869, cit. I, p. XI.

[7] Ivi, I, p. 5.

[8] Ivi, p. 5.

[9] Ibid.

[10] Ivi, I, pp. 9-10.

[11] Ivi, II, p. 131.

[12] Ivi, II, p.291. grassetto nel testo.

[13] Ivi, II, p. 238.

[14] Ivi, II, p. 338.

[15] Ivi, II, p. 238.

[16] Ivi, I, p. 58.

[17] Ivi, I, p. 63.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

Va detto incidentalmente che sul “fato” inteso in questo modo, Mastriani avrà ancora molto da dire, in particolare con un romanzo intero, notevole ma di poca fortuna editoriale e del tutto ignorato dalla critica. Parliamo dei Drammi di Napoli. Romanzo storico (Napoli, Regina, 1878, I-III). Anche ai biografi Cristiana Anna Addesso ed Emilio e Rosario Mastriani risulta questa essere l’unica edizione del romanzo, che comunque essi chiamano Fatum o i drammi di Napoli prendendo il titolo dal noto ms. Elenco de’miei romanzi piuttosto che dal frontespizio del volume stampato. Non sottovalutata ma addirittura ignorata dalla critica coeva e successiva di Mastriani è l’opera del fratello Giuseppe, Notomia morale ossia calcolo delle probabilità dei sentimenti umani, che tanto dovette servire al romanziere per la caratterizzazione dei suoi personaggi.

[20] Francesco Mastriani, I misteri di Napoli, Napoli, G. Nobile, 1869, cit. I, p. 63-64.

[21] Cfr., ivi, I, pp.276-281.

[22] Ivi, I, p. 281

[23] Ivi, I, p. 312

[24] Ivi, I, p. 242

[25] Cfr. Ivi, II, p. 249 sgg.

[26] Cfr. Ivi, II, p. 239 sgg.

[27] Cfr. Ivi, II, p. 485 sgg.

[28] Cfr. Ivi, II, p. 575 sgg.

[29] Cfr. Ivi, II, p. 600 sgg.

[30] Cfr. Ivi, II, p. 648 sgg.

[31] È opportuno ricordare che proprio allo scontro dei candido-spontanei (i Luciani, lazzari di Santa Lucia) non i Rossi di Montecalvario, cioè dei vicoli superiori di Toledo, Mastriani dedicherà un romanzo intero, Il Largo delle Baracche, del 1881.

[32] L’argomento richiederebbe una discussione piuttosto articolata ricordando almeno, con il notissimo Ebreo errante di Eugène Sue, le conferme e le rettifiche di Mastriani alla caratterizzazione dell’ebreo in due dei suoi romanzi, L’ebreo di Porta Nolana (Napoli, Stamperia Governativa, 1881) e La Jena delle Fontanelle (cit.).

[33] Francesco Mastriani, I misteri di Napoli, Napoli, G. Nobile, 1869, cit. II, p. 266.

[34] Filippo Mastriani, Cenni sulla vita e sugli scritti di Francesco Mastriani, Napoli, L. Gargiulo, 1891, p.87

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    Alla prefazione di Francesco Mastriani e all’esauriente commento di Francesco Guardiani ci ho poco da aggiungere.

   Senz’altro questo lavoro di Mastriani è da considerare il più importante tra quelli che sono usciti dalla sua magica penna, forse secondo come importanza e notorietà, solo al suo capolavoro, come lo definì il figlio Filippo, «La cieca di Sorrento». Voglio ricordare che nel 1966 di quest’opera, uscì una ristampa da parte delle Edizioni Casini di Firenze, una magnifica edizione in due volumi, per un totale di 1028 pagine; quindi un taglio abbastanza netto rispetto all’edizione originale di 1700 pagine, e in questa edizione ci fu fatta una sorta di lifting, ovvero fu riprodotta, nella scrittura, in maniera meno arcaica.

   In questa edizione ci troviamo un’interessante prefazione di Giorgio Luti, che considera lo scrittore “un indomito sostenitore dei diritti dell’uomo, il predicatore laico dal pulpito della giustizia”. Ma la cosa eccezionale è che l’editore ha valutato Francesco Mastriani tra «I GRANDI MAESTRI», confrontandolo con prestigiosi scrittori francesi come Balzac, Sue, Hugo, Daudet, Gautier, Stendhal. [1]

   Questa opera lo scrittore la considera degli «Studi storico-sociali», per cui in essa non ci troviamo una trama ben definita, ma diversi episodi che ruotano attorno a dei personaggi che sono parte integrante di questi studi-storici. Lo stesso Mastriani, conclude la sua lunga prefazione con la frase:

   “È storica la tela del mio racconto? Sono veri i personaggi di questo gran dramma? A questi quesiti non risponderò che con una sola parola: LEGGETE”.

   Il principale soggetto del libro direi che è l’eterna lotta che affligge l’umanità, che viene divisa in due categoria: padroni e servi. I primi godono la vita e i secondi soffrono. Nel libro i padroni vengono identificati dai ricchi e nobili duchi di Massa-Vitelli; mentre i servi vengono immedesimati nei proletari della campagna, e in particolare sugli Onesimo, proletari dell’agro aversano.

   Tra queste due condizioni: servi e padroni, Mastriani trova modo di inserirci una tematica a lui cara, la fede religiosa, e la identifica in uno dei personaggi principali del libro: Marta.

   Una buona parte del lavoro è dedicato al colera, e all’inizio di questa Terza Parte viene citato un verso biblico: «Vigilia, CHOLERA, et tortura viro infrunito» (L’insonnia, il vomito e i dolori sono per l’uomo insaziabile). [2] Vengono citati altresì episodi tratti dai Figli del lusso (1866), che descrivono l’origine del morbo. [3] Viene citato anche colui che dovrebbe essere stata la prima vittima del colera in Napoli, un tale doganiere Gennaro Maggi, in servizio presso la dogana di Procida. Questa notizia Mastriani la riporta in seguito in un altro suo lavoro: L’orfana del colera (1884). [4]

   Veniva usato in quel periodo di epidemia colerica un disinfettante che Mastriani così descrive: «per una delle più consuete precauzioni che si usavano in quel tempo, egli si era provveduto d’una boccettina contenente un disinfettante molto adoperato in allora, l’aceto dei quattro ladri». [5] Descrive anche un rimedio antichissimo per curare il male: «Fin dai remotissimi tempi (e ciò prova che il colèra è antichissimo flagello, nato poscia che la lebbra sparì dal mondo) narrava Celio Aureliano che il più comune rimedio adoperato dagli antichi contro il colèra erano le pillole composte di seme di giusquiamo, di anise e di oppio». [6]

   Tantissime furono le vittime a Napoli, nelle diverse invasioni coleriche, morti che venivano trasportati in apposite sezioni del cimitero, e si vedeva, come le descrive Mastriani «la processione de’pianoforti, come nella sua motteggevole vena il popolano chiamava le chiuse barelle che trasportavano gli estinti», [7]le quali barelle erano poste su dei carrettoni che il popolo chiamava la diligenza del Camposanto». [8]

    E nella prima invasione del morbo a Napoli Mastriani subì Quel primo dolore poco mancò non spezzasse la stame di questa mia vita» [9] la morte di sua madre Teresa Cava, che morì di colèra la mattina del 28 novembre 1836, a soli quarant’anni. Alcune pagine le dedica anche al genitore Filippo, che morì sei anni dopo la morte della moglie, e che era riuscito «O santo amor coniugale che ravviva la giovinezza del cuore sotto le canizie» [10] a far sì che la consorte avesse sepoltura particolare e non nella fosse comune con gli altri morti per colèra. E accanto alla sua cara Teresa, si fece seppellire: «Il solo non morto di colèra e che si trovi sepolto nel camposanto de’colerosi». [11]

   Altri suoi lavori sono citati in questa opera, Cosimo Giordano e la sua banda nella parte che è dedicata al brigantaggio, che l’autore considera cangrena d’una piaga sociale: «Quando la forza diventa legge al di sopra del dritto sorge un’altra forza che si pone al di sopra della legge. Questa novella forza si chiama brigantaggio». [12]

   Dal romanzo Eufemia, riporta una lunga digressione sull’eredità che considera «Una delle più assurde ed immorali leggi o costumanze della nostra società , si è appunto questa che dicesi eredità». [13]

   Una tematica che Mastriani affronta spesso nei suoi lavori è quella che riguarda i duelli, e in quest’opera cita un pensiero di un filosofo, uno dei suoi autori preferiti «Non dispiaccia a’nostri lettori che noi riportiamo in questa pagine ciò che il gran filosofo di Ginevra Gian Giacomo Rousseau, scrisse sul duello. Non crediamo che si possa meglio confutare questa barbarie in piena civiltà». [14]

   Viene citata anche un pensiero tratto da Il Principe, «Il duca Tobia seguiva alla lettera la massima di Machiavelli: è cosa veramente molto naturale e ordinaria di acquistare e sempre quando gli uomini le sanno che possino; ne saranno lodati e non biasimati». [15]

  Più volte Mastriani nei suoi lavori, lo fa anche nei «Misteri di Napoli», propone un premio alle virtù come ci sono dei castighi per le malefatte. Viene citato il Premio Monthion, che una volta veniva dato in Francia «all’atto più eroico in fatto di civil virtù». [16]

   Diversi i personaggi storici citati in questa opera, come il terribile Gaetano Peccheneda, voluto appositamente da re Ferdinando che «avea saputo scegliere bene il prefetto di polizia che conveniva a’tempi». Un intero capitolo è dedicato a questo personaggio, che accoppiava il cinismo alla crudeltà. [17]

   Ma anche personaggi dello spettacolo non mancano nella stesura del libro. Da ricordare il compositore pesarese Gioacchino Rossini, del quale racconta un aneddoto. Il suo impresario Domenico Barbaja ricorse ad uno stratagemma per far sì che il maestro completasse l’opera Otello, lo invitò a casa sua a mangiare i classici maccheroni al sugo, di cui Rossini era ghiotto, e lo chiuse in uno stanzino, dandogli questo alimento per pranzo e cena e minacciandolo di non liberarlo se non dopo aver completato lo spartito dell’Otello! «Questo capolavoro fu completato in otto giorni!». [18]

   Non mancano avvenimenti delittuosi nell’opera, ad opera di camorristi o delinquenti comuni, ma anche da parte di personaggi del popolo, come un cenciaiuolo del quartiere Porto, il quale si liberò della moglie in una maniera originale, la cosiddetta morte cellecatoria: «A mo’di celia egli l’avea persuasa a farsi tutta avvolgere e ristringere tra le fasce come si fa co’bimbi di fresco nati. Indi sempre ridendo e scherzando, com’egli la ebbe così ben carcerata, le scoperse e denudò soltanto le piante de’piedi, ciò fatto il marito, come se avesse voluto farla ridere cominciò a dileticarla sotto i piedi. La donna rideva e si agitava nelle fasce. E quegli a solleticargli sotto i piedi. Finalmente la donna non rise più… era morta nelle convulsioni». [19]

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[1] Francesco Mastriani, I misteri di Napoli, Firenze, Edizioni casini, 1966, pag. V.

[2] Francesco Mastriani, I misteri di Napoli, Napoli, G. Nobile, 1869, vol. II pag. 163

[3] Ibidem, pag. 164 II.

[4] Ibidem pp. 174-176 II.

[5] Ibidem, pag. 186 II.

[6] Ibidem, pag.173 II.

[7] Ibidem, pag.182 II.

[8] Ibidem, pag.190 II.

[9] Ibidem, pag. 193 II.

[10] Ibidem, pag. 198 II.

[11] Ibidem, pag.198 II.

[12] Ibidem. pag.460 I.

[13] Ibidem, pag.606 I.

[14] Ibidem, pag.71 II.

[15] Ibidem, pag.646 I.

[16] Ibidem, pag. 503 I.

[17] Ibidem, pag. 415 II.

[18] Ibidem, pag. 54 II.

[19] Ibidem, pag. 532 I.