Continuano a giungerci lettere di condoglianze per la morte del nostro Mastriani.
Ci eravamo proposto un assoluto silenzio sulle relazioni fra il popolare e compianto romanziero e l’amministrazione del nostro giornale; ma siccome certa stampa insiste, stimiamo opportuno qualche schiarimento.
Il compianto romanziero, con istrumento del 16 Agosto 1880, per notar Raffaele Tucci, aveva alienata la proprietà letteraria delle sue opere passate, presenti e future ad una casa editrice napoletana per lire trenta ogni foglio di stampa.
Nella stessa misura veniva compensato dal nostro giornale per una semplice riproduzione in appendice, restando la proprietà letteraria alla citata casa editrice.
Il contratto colla nostra amministrazione rinnova vasi ogni anno, di pieno accordo, e senza altro vincolo allo illustre scrittore oltre quello di non passare i suoi romanzi ad altri giornali della sola città di Napoli.
Siccome la casa editrice fin dal 1885 mancava ai suoi impegni, la nostra amministrazione, per sempre più agevolare il Mastriani, ne assunse i pagamenti, passando al Mastriani L. 200 mensuali.
Se le condizioni del lavoro intellettuale non sono liete in Italia, bisogna rimontare non a cause prossime, ma a cause remote.
Quanto alle esequie, il nostro giornale diede subito la somma richiesta dalla famiglia, né sapeva che questa si fosse diretta ad altri.
Quello che avremmo voluto tacere, se non fossimo stati costretti a parlare, si è la consuetudine invalsa finora nel nostro giornale di continuare cioè alla vedova per tempo indeterminato l’istesso assegno del defunto collaboratore.
La Cronaca Partenopea degli 11 Gennaio (Napoli)
Non ha avuto un solo giorno di riposo, in questi ultimi venti anni.
Ha proIl Roma del 9 Gennaio (Napoli)
Continuano a giungerci lettere di condoglianze per la morte del nostro Mastriani.
Ci eravamo proposto un assoluto silenzio sulle relazioni fra il popolare e compianto romanziero e l’amministrazione del nostro giornale; ma siccome certa stampa insiste, stimiamo opportuno qualche schiarimento.
Il compianto romanziero, con istrumento del 16 Agosto 1880, per notar Raffaele Tucci, aveva alienata la proprietà letteraria delle sue opere passate, presenti e future ad una casa editrice napoletana per lire trenta ogni foglio di stampa.
Nella stessa misura veniva compensato dal nostro giornale per una semplice riproduzione in appendice, restando la proprietà letteraria alla citata casa editrice.
Il contratto colla nostra amministrazione rinnova vasi ogni anno, di pieno accordo, e senza altro vincolo allo illustre scrittore oltre quello di non passare i suoi romanzi ad altri giornali della sola città di Napoli.
Siccome la casa editrice fin dal 1885 mancava ai suoi impegni, la nostra amministrazione, per sempre più agevolare il Mastriani, ne assunse i pagamenti, passando al Mastriani L. 200 mensuali.
Se le condizioni del lavoro intellettuale non sono liete in Italia, bisogna rimontare non a cause prossime, ma a cause remote.
Quanto alle esequie, il nostro giornale diede subito la somma richiesta dalla famiglia, né sapeva che questa si fosse diretta ad altri.
Quello che avremmo voluto tacere, se non fossimo stati costretti a parlare, si è la consuetudine invalsa finora nel nostro giornale di continuare cioè alla vedova per tempo indeterminato l’istesso assegno del defunto collaboratore.
La Cronaca Partenopea degli 11 Gennaio (Napoli)
Non ha avuto un solo giorno di riposo, in questi ultimi venti anni.
Ha prodotto febbrilmente, giorno per giorno, instancabile, per sostenere la sua esistenza, così come il più umile dei manovali.
Non aveva neppure il tempo di pensare. Doveva buttar giù, l’una dopo l’altra, le sue appendici, senza tregua, senza riposo, senza pensarci su: un lavoro ingrato, che ogni altro avrebbe esaurito e presto logorato. E non ne ricavava neppure il necessario: è vissuto nella sua povertà vereconda, in un estremo rione di Napoli, ad un terzo piano di un palazzetto modestissimo, in un quartierino più che modesto, povero.
Era ammalato da oltre un anno, ma non ha potuto riposarsi, forse nemmeno curarsi.
Si è spento, lentamente, senza imprecazioni, senza maledire nessuno. Era una cara persona, senza fiele, senza acrimonia, forse senza coscienza del suo qualunque valore. Strappava la vita, a frusto a frusto, lui che ha scritto forse trecento volumi che hanno avuto vero successo tra i suoi molti lettori.
Non era un grande artista, forse nemmeno un artista nel senso alto della parola; ma altrove con la grande popolarità che godeva, avrebbe potuto vivere agiatamente e lasciare alla famiglia, più che un nome onorato, più che lo sterile compianto di tutto un popolo, una fortuna più o meno cospicua. Scrivendo per bisogno, il bisogno ammazzò in lui i germi dell’artista, che si rivelarono fin da quando pubblicò La Cieca di Sorrento, Il mio cadavere, Federico Lennois.
Ha descritto, a preferenza, nei suoi cento romanzi, il popolino, con le sue passioni, con i suoi appetiti, con le sue bramosie, con le sue buone e con le sue cattive qualità; è sceso nei bassi fondi delle nostre popolazioni, ritraendoli a colori forse grossolani, con una forma ibrida, schietta e speciale, che dall’arcaismo scendeva al dialetto, qua e là elevandosi fatidica, solenne, sentenziosa.
dotto febbrilmente, giorno per giorno, instancabile, per sostenere la sua esistenza, così come il più umile dei manovali.
Non aveva neppure il tempo di pensare. Doveva buttar giù, l’una dopo l’altra, le sue appendici, senza tregua, senza riposo, senza pensarci su: un lavoro ingrato, che ogni altro avrebbe esaurito e presto logorato. E non ne ricavava neppure il necessario: è vissuto nella sua povertà vereconda, in un estremo rione di Napoli, ad un terzo piano di un palazzetto modestissimo, in un quartierino più che modesto, povero.
Era ammalato da oltre un anno, ma non ha potuto riposarsi, forse nemmeno curarsi.
Si è spento, lentamente, senza imprecazioni, senza maledire nessuno. Era una cara persona, senza fiele, senza acrimonia, forse senza coscienza del suo qualunque valore. Strappava la vita, a frusto a frusto, lui che ha scritto forse trecento volumi che hanno avuto vero successo tra i suoi molti lettori.
Non era un grande artista, forse nemmeno un artista nel senso alto della parola; ma altrove con la grande popolarità che godeva, avrebbe potuto vivere agiatamente e lasciare alla famiglia, più che un nome onorato, più che lo sterile compianto di tutto un popolo, una fortuna più o meno cospicua. Scrivendo per bisogno, il bisogno ammazzò in lui i germi dell’artista, che si rivelarono fin da quando pubblicò La Cieca di Sorrento, Il mio cadavere, Federico Lennois.
Ha descritto, a preferenza, nei suoi cento romanzi, il popolino, con le sue passioni, con i suoi appetiti, con le sue bramosie, con le sue buone e con le sue cattive qualità; è sceso nei bassi fondi delle nostre popolazioni, ritraendoli a colori forse grossolani, con una forma ibrida, schietta e speciale, che dall’arcaismo scendeva al dialetto, qua e là elevandosi fatidica, solenne, sentenziosa.