Signor Mastriani

   Nella vostra importantissima opera I Vermi diceste:

   «La carità è un sentimento così innato nei Napolitani………… Disgraziatamente, di questo sì nobile sentimento la cattiveria, l’improba mendicità, il vagabondaggio e la scioperatezza abusarono talmente che una sterminata classe di accattoni inondò il nostro paese, la quale si die’ a speculare sull’indole benigna e compassionevole dei Napolitani».

   Or bene, se le storie, le cronache e tutti quei zibaldoni che la mente umana ha saputo inventare per la memoria dei fatti passati, posseggono e segnano avvenimenti in cui si rileva il massimo delle arguzie per alimentare a spese dei gonzi il cattivo germe del vagabondaggio e della falsa e turpe accattoneria, io penso che non hanno potuto mai registrarne uno, ove si scopra da un lato il massimo dei semplicioni e la malvagia e raffinata scrocconeria dall’altro. Di questi non a guari veniva mene fatto sentire uno che, se non è giunto alle orecchie della giustizia per averne il meritato guiderdone, non vorrei almeno che rimanesse occulto alla esecrazione degli onesti ed alla conoscenza vostra, come colui che ha consacrato e mente e cuore e tutto sé stesso per correggere i costumi e per educare ed ingentilire il paese ove si ebbe i natali.

   Or non è molto, vivea in un paesello preso Salerno un curato che, per i principii di cristiana carità, per l’indole magnifica e pel modo semplicissimo nel quale menava avanti i suoi giorni, passava pel migliore fra tutto il clero del paese; ma più che queste sue doti, l’essere uno di quei tali cui sorride la fortuna lo aveva fatto giungere tra quel clero ad essere il più alto locato; il perché incominciò a godere molti privilegi. Fu incaricato di sorvegliare su tutti i religiosi del paese, di regolare conservatorii, insomma di tutto quello che può fare un vescovo nella sua diocesi o il papa nel mondo cattolico. Ma sventuratamente era abbastanza superstiziosetto e per tal cagione addivenuto il cucio dei suoi dipendenti, comechè tra quelli non vi fossero state delle troppe buone lame. Né a ciò mancava un’altra sua dote, l’essere creduto a segno da imbeccarsi l’impossibile; laonde bastava che gli venisse riferita una cosa, comechè falsa, sul conto di un suo subalterno (massime poi se il delatore fosse stato una pinzochera) per addivenire immantinente il suo carnefice.

   Per suo contrapposto viveva nello stesso tempo un tale cui, e per la perspicacia, e per lo spirito malvagio, s’avrebbe potuto dare molto adeguatamente l’alto incarico del bargello. Costui s’apparteneva a comodissima famiglia, ma la poca condotta dei suoi antenati ed il continuo sciupo che fece delle sue sostanze, lo avevano fatto addivenire miserabilissimo. Il perché a campare innanzi la vita, rinunziando ad ogni sentimento di onestà e poco piacendogli darsi ad un onesto lavoro qualunque, si era dato al più turpe e sfacciato accattonaggio della terra; e, presentandoglisi il destro, avrebbe pure saputo servirsi dell’avere altrui colle sue proprie mani. Il continuato esercizio della sua industria, come la pensano oggi i molti che vi si danno senza la purissima necessità, lo aveva fatto ad diventare sfacciato bastantemente, e per tal cagione lo trovavate bugiardo, pessima lingua e versipelle.

   È uopo pertanto dire che io per cittadina carità vi taccio il nome di questi due individui; ma perché voi non li possiate distinguere, il curato il chiamerò D. Giovanbattista, e il mendico, rubandomi il diritto d’invenzione ad un eccellente romanziere francese, lo chiamerò Quasimodo.

   E siccome accade spessissimo che basta dare un passo che non sia regolare per darne poi altri dieci ed anche di più, così avvenne anche che il nostro Quasimodo dall’accattoneria, straripando, passò nella più bugiarda e falsa scrocconeria della terra.

   Quasimodo conosceva molto di vicino il curato D. Giovanbattista e molto poi le sue opere immense di cristiana carità con cui largheggiava spessissimo in elemosine a’ poverelli, massime di quei che le ree vicissitudini della terra avevano resi indigenti. Non tardò a concepire in mente sua un mattissimo disegno pel suo utile, incominciò a rappresentare la sua parte nel dramma sociale.

   Primieramente gli fu necessità seguire l’esempio della cornacchia della favola, e gli fu forza camuffarsi e coprire la sua persona del manto di colui che è il bravissimo fra i cittadini; poscia, composto il suo nuovo viso a quella penitenza che dalle umane traversie ha avuto origine ed a rassegnazione, defilato s’andò a confessare a D. Giovanbattista.

   Bugie a migliaia affastellò, ed iperboliche rie andò pescando immense pel vasto pelago del falso. Disse come gli fosse incominciata a rincrescere la vita in sì miserevole condizione, narrò essere propensissimo pel suicidio se il timore dello inferno non glielo vietasse e non gli facesse arrestare la mano che dove a ferire.

   Il mariuolo era giunto al suo intento…

   D. Giovanbattista lo credè di verità, pensò buono lo stato religioso del penitente, verissima la condizione povera di lui e fatto ciò che gli era stato riammucchiato d’avanti la sua vita; cose tutte che lo commossero a dismisura e gli fecero asciugare una lagrima di compassione. Per la sua mente passò l’idea che la grande necessità, ed anche la fame un giorno forse gli avrebbero potuto far porre ad effetto i suoi pensamenti, e risolvè dover egli assegnare allo sciagurato convenevole somma mensuale onde non dar campo che un’anima si potesse dannare.

   Il risoluto mandò ad effetto, e Quasimodo si vide fra le sue mani snocciolati in bellissime monete d’argento i primi sei ducati da dovergli bastare pel primo mese.

   In un paesello come quello ove non è tanta penuria di vittovaglia ed ove la vita in generale non costa molto, due carlini al giorno sarebbero stati sufficienti per farlo vivere comodissimo; ma né questa sola era l’entrata di quel malvagio, altre ancora. Egli riceveva roba continua ed abbondante da molti pietosi che tenevano presente il suo passato stato, e parecchie famiglie a lui strette in parentela lo andavano anche spessissimo rifornendo del bisognevole; il perché avrebbe potuto vivere più che comodissimo. Gli davano da vestire più che decentemente, gli davano biancheria di ogni sorte, gli davano danari; nonpertanto era sempre più miserabile, e sempre più lacero si vedea nelle vestimenta.

   Il vizio allorché s’è inveterato nell’uomo, lo succhia e lo consuma senza che quello se ne avveda.

   Quasimodo adunque era viziosissimo fuori ogni credere. giuocava continuamente e in abbondanza, gli piacevano i manicaretti delicati, gli piaceva il molto vino, ed anco molto le donne gli piacevano; cose le quali s’assorbivano quello che introitare avrebbe potuto, né bastava. Né sarebbe bastato ancora tutto quello che nuove scroccone rie gli avrebbero potuto fruttare; lo sarebbe andato tutto assorbito e divorato dal putridume delle sue sozze voglie.

   Un adagio di quel popolo tramanda che: Tante volte va la quartara (1) all’acqua fino a che vi resti il manico.

   Lo scroccone lo conosceva benissimo e ne comprendeva tutto il suo lugubre significato; sapeva pure che quel genere di vita non avrebbe potuto durare, e sapeva che forse sarebbe venuto un tempo che la fama delle sue lordure si sarebbe sparsa per quelle menti benefattrici ed egli avrebbe potuto perdere il tutto. Con tutto questo che sapeva non aveva mai pensato di rinsavire; pensiero alcuno non gli aveva dato il fantasma d’una vita veramente indigentissima. La via che aveva preso a battere continuava sempre; e si estesero in modo le fila della sua falsa e bugiarda persona che, spezzandosi, lo stavano precipitando, se il curato non fosse stato veramente d’indole compassionevole, nel vero abisso.

   Quasimodo venne quasi da tutti i suoi benefattori abbandonato, solo qualche parente gli era ancora rimasto amico e quell’anima pietosa di D. Giovanbattista.

   Usava nella casa di questo curato molto familiarmente un tale che, dall’aspetto e dal parlare, pareva un bravissim’uomo.

   Giulio Bertraldi, che così chiamerò questo terzo personaggio, difatti era d’indole e di costumi semplicissimi. Egli che faceva l’industria su diversi generi di pubblico consumo, viveva piuttostochè agiatamente. Una piccola casipola aveva tolta in fitto nella pubblica piazza per far conoscere di che s’industriava e per procacciarsi affari, e il genere poi in abbondanza lo teneva a casa. Così chi voleva in poca quantità si portava nel magazzino, secondochè veniva da tutti la botteguola appellata, e chi poi voleva far compra all’ingrosso andava a casa, ove la moglie faceva le veci sue.

   Di olii, salumi, salami, e formaggi il Bertraldi quando era il carnevale, come quivi è costume, impinguava a dismisura la già vuotata dispensa del nostro curato, e lo provvedeva di ciò che per un anno gli avrebbe potuto essere abbisognevole.

   Questi fatti vennero a conoscenza dello accattone, e in cuor suo nacque gli desiderio di fare che anche la casa sua tenesse di tale bene di Dio. E ne pensò subito il modo.

   Un bel mattino Quasimodo va a casa di Giulio e gli dice, come al curato abbisognassero ancora altri prosciutti, altri caciocavalli, altre soppressate, infine gli rimandasse un’altra volta quello che, giorni non erano molti, mandato gli aveva stante che la dispensa non era ancora ben zeppa. Ed avendo inteso che l’altro gli osservava, come due giorni erano passati che a casa il curato era stato per pagarsi il conto della mandata roba e gli avea detto essere molto bene del tutto fornito, non indugiò a rispondergli, che tanto gli era stato detto e che egli certamente non poteva conoscere i pensieri altrui.

   Il viso dello scroccone era troppo serio per garantirlo di verità, e il semplicione del caciolio senza pensare a male disse:

‒ Orbè; quando il curato lo vuole, io domani il servirò. Poi soggiunse: digli che il mandasse a pigliare.

   Il mattino seguente una donna si presentò a casa di Giulio e si ricevè veramente in finissima qualità il ben di Dio.

   È inutile dire chi fosse stata quella donna, dirò solo che la casa di lei accolse il tutto interamente, ove n’andava a mangiare in sì bella compagnia il Quasimodo; e dove poi il furbo mariuolo, facendo una gran rampa della ricevuta nota che ammontava a venti ducati in circa e caricatasi la sua pipa di foggia stranissima, pose fuoco al suo saporoso tabacco di Benevento.

   Frattanto tutto era andato a meraviglia, e quel cattivo tutto in santa pace colla sua sirena si stava trangugiando, senza che alcun’anima vivente avesse avuto sentore del fatto. Nessuno se aveva saputo il puro niente, e ne D. Giovanbattista si avrebbe potuto pensare nemmeno una consimil cosa.

   Ed era a questo brutto scherzo parecchio tempo passato, e il nostro negoziante non si vedendo chiamare per aversi l’importo della sua roba, mandò pel tale che quella ambasciata gli aveva porta al quale, a sé venuto, fece intendere che era uopo dire al suo mandatario, al sig. curato, che gli bisognavano quei danari e che se avesse potuto, gli avrebbe fatta somma grazia col mandarglieli.

   Allora Quasimodo, pensando modo come porsi al salvo e baloccandosi d’entrambi gli sciocchi o come si possono chiamare, andò dal curato e dissegli come al suo amico, Giulio Bertraldi, era venuto forte pentimento delle sue peccata e pensava confessarsi. Volere dunque conoscere quando, in che ora, ed ove a lui tornasse comodo donargli ascolto. Ed avutone la precisa posta pel giorno, per l’ora, e pel luogo, s’andò defilato dal pizzicagnolo dissegli, come il curato gli faceva sentire che alla dimane senza più porre tempo in mezzo fosse andato in chiesa in sull’aggiornare che intendeva pagargli i venti ducati.

   Al pulito furto, o come voglia venir chiamato, quel maligno aveva voluto aggiungere ancora le beffe.

   Il semplicione imbeccò anche tutto, e il dì seguente v’andò.

   Era in sull’aggiornare e il negoziante avendo intesi alquanti rintocchi alla campana della parrocchia, che erano quei che si usano pel l’Angelus Domini, si levò e, senz’altro fare, in chiesa s’andò quatto quatto.

   Giunto, entrò.

   Il buio ancora regnava quivi; solo il fioco raggio di alcune lampade, ne allontanavano, con debolissimi sprazzi di luce, le condensate tenebre. Pochi uomini e pochissime donne in età molto avanzata, stavano ascoltando la messa che l’economo di quella chiesa in quel mentre celebrava; e quelle membra in riflesso alla lividissima luce che quelle lampade mandavano, mille ombre d’altrettanti spettri di cimitero proiettavano sul pavimento.

   Il curato era intento a confessare una donna di aspetto piuttosto giovanile. Giulio lo vide occupato e, senza dar segno di sorte, s’andò a ginocchiare di rimpetto al concessionario per farlo accorto della sua presenza.

   D. Giovanbattista a caso si smosse dalla postura in cui stava, ed avvedutosi di Giulio gli fè segno colla destra mano come colui che avesse voluto dire, ora verrò e ascolterò le tue colpe; nel contempo che l’altro comprese, ora verrò e sarai pagato.

   In questa dolce idea per entrambi passò una buona mezz’ora, e D. Giovanbattista finito di confessare quella giovane donna, uscì dal confessionale e, avviandosi verso la sacrestia, fè segno a chi l’attendeva di seguirlo.

   Il pizzicagnolo si levò e lo tenne dietro. E giunti entrambi nel luogo designato, il parroco sedè e s’atteggiò come chi si disponesse ad ascoltare una confessione, e colla guancia destra sulla destra palma il braccio della quale stava pure poggiato sulla coscia destra, mentre l’altro meravigliò forte per tale cosa. Nonpertanto pensò forse avesse voluto prima dirsi una qualche preghiera, e rimase come una statua quivi ritto e piantato ad aspettarlo.

   Passò tempo diverso e nessuno dei due dava segno di vita, tanto erano rimasti immobili e muti. Il curato alla fine si smosse e chiese:

   ‒ Non volete dunque inginocchiarvi?

   ‒ A che scopo? Osservò il caciolio.

   ‒ Come a che scopo; e non volete confessarvi?

   ‒ Confessarmi?…

   ‒ Almeno…

   ‒ Se debbo essere pagato…

   ‒ Pagato… e di che cosa?…

   E mille altre domande e risposte vi furono sullo stesso tenore fino a che tra essi non venne chiarito l’equivoco e la terribile beffa che aveva concertata a loro danno quel malvivente accattone. Poscia il povero curato pagò l’importo del pessimo scherzo, siccome in molti crederono, per non fare che il suo nome venisse da mille bocche malamente strombazzato.

   Ed ecco quello che venivami fatto sentire (che m’auguro vogliate tenervi di buon grado e come pegno di mia stima e come quello che, quantunque di stile umilissimo e di concetti assai poveri, consona pure santamente e vieppiù ribadisce le giuste vostre idee enunciate si sopra;) ed in che modo gli astuti e scaltri malvagi, profittando dell’altrui semplicità ed indole credevolissima, traggono profitto per alimentare la loro vita e, ciò che è peggio, i loro vizii. Pare impossibile che in piena luce del secolo decimo nono vi potessero essere ancora di simili esseri cui una mal sentita cristiana carità, non li fa avveduti a chi profondono le loro elemosine, e, nei quali molta dose di balordaggine, li fa rendere i zimbelli del proprio paese. Eppure sotto il sole di questi ve ne sono ancora i moltissimi.

   Abbiatevi i sensi della mia profonda stima, e credetemi.

   Più che vostro affez. Amico e discepolo

                                                                     ANTONIO DE NAPOLI fu Marco

      Napoli lì 27 giugno 1867

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    Fu pubblicato sul giornale La Domenica il 30 giugno e il 7 luglio 1867.

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   (1) Colla parola quartara tutto il basso popolo di quella provincia significa un tale vaso col quale le fanciulle pel contado vanno nelle ore della sera, allorché sono tornate dalla campagna ad attingere l’acqua.