AMORE E LETTERATURA

 

 

   On est détrompè sans avoir joui;

   il reste encore des illusions,

   et l’on n’a plus de desirs.

                                      Chateaubriant

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   I moderni scrittori, che tanta scrupolosa disanima han portato su i progressi sociali, sulle innovazioni del secolo, e su i passi dell’intelligenza, han poi trasandato lo studio più umile dell’umana specie, quello del cuore.

   Qualche romanziere, qualche poeta ci han dato è vero dei bozzi imperfetti ed esagerati delle passioni; ma ne’ loro scritti più che la natura traspare la scuola cui appartengono, o l’individuo che li dettò.

   L’arbitrio dei sistemi, il lusso dei versi, l’atrabile de’ nostri autori, e massime d’ oltremonti, la smania delle più strane novità, hanno sfigurato, svisato, annuvolato il cuor dell’uomo, avvolgendolo in misteriosi e fantastici orrori, che forse furono proprio ne’ Neroni e ne’ Caligola, ma non mai de’ placidi sibariti che viaggiano con le strade di ferro e con i pacchetti a vapore. No, il nostro secolo non ha mai prodotto i personaggi de’ nostri romanzieri e drammaturgi; il Teatro è in oggi un gioco di fantasia, una lanterna magica, in cui s’ingrandiscono enormemente i pigmei delle nostre passioni.

   Il secolo XIX produce però una specie d’incurabile infermità in molti uomini; infermità che per nulla trapela all’esterno, che non si manifesta con grida spasmodiche, ma che rode, come una vena di fuoco, la giovinezza e la vita. Niun poeta, niun drammaturgo ha mai scritto questo stato che io chiamerei (se le malattie morali avessero il loro dizionario patologico) atrofia morale del cuore.

   Soltanto Byron, tra gli inglesi, Giorgio Sand tra i francesi, conobbero e descrissero questo malore; ma dando troppo nero colorito alle loro frasi non il fecero distinguere dalla ipocondrica misantropia e dal tormentoso scetticismo.

   Questa malattia ha il suo germe nello sviluppo della intelligenza e delle idee filosofiche. La solitudine, i libri, gli esempi nutriscono lo spirito, lasciando vuoto il cuore; si sa tutto senza aver nulla provato; le impressioni ricevute dalla fantasia tengono luogo delle reali; e si è disingannato senza aver goduto.

   Il mondo è vecchio, e quelli che nascono a’ giorni nostri portano tutti una impronta della vecchiezza del tempo, d’onde emana quella specie di misteriosa tristezza che si mischia alle gioie della nostra gioventù, quel mortale disinganno che amareggia i piaceri de’ nostri begli anni, quella stanchezza di vita che pesa sul dorso de’ giovani, e quella indefinibile noia che più numerosi rende i suicidi. Il giovine del nostro secolo si slancia di buon’ora nel vortice del sistema; e delle opinioni: non curante e scettico egli ondeggia tra i mostri della sua fantasia, e vi trova il nulla o la morte: se il suo cuore è buono, se i primi anni della sua fanciullezza furono nudridi col mele della santa parola, talvolta il suo pensiero tornerà verso i ricordi, cercherà nel passato un sollievo ai suoi mali; l’eco della religione riproducendosi nel suo cuore, vi spargerà la calma e la freschezza.

   Ma lo stato più ordinario perché meno tempestoso è quell’apatia, quella indifferenza ai piaceri cagionata da un prematuro e falso allarme della vita; dico falso, perché nel bollor della passioni, quando le repressa energia della giovinezza si converte in oziosa e profonda malinconia, le considerazioni della mente non vengono schiette, e l’atrabile ha molta parte ne’ giudizi che si formano sulla società e sugli uomini.

   Questo stoicismo de’ nostri giorni ha qualche cosa del fatalismo ottomano, se non che i suoi principi debbonsi ripetere non pure ne’ sofismi della corrente filosofia ma nella vanità del cuore benanche il quale, spingendosi verso gli uomini con tutto l’abbandono dell’amore, è indietro respinto dalla sterile ed agghiacciante realtà o dalla mal dissimulata cupidigia – Qual’ è l’arma più potente per combattere questo morbo che minaccia invadere gl’ingegni più svegliati della nostra Italia in particolare, ove l’invincibile tendenza all’ozio, una smania di piaceri, e la seduttrice dolcezza dell’aria mettono più sovente ne’ cuori profondi radici di malinconia?

   L’arma più valente è l’incanto e la poesia che derivano da un puro amore. Mi gridino l’anatema addosso tutti que’ loschi di mente che vorrebbero soltanto insaccar roba nel cervello, e non avessero poi nel bel mezzo del petto un vulcano, che se non trova pabolo  ad isfogar le sue fiamme, cova nel buio una tremenda e sorda mina che finisce con l’intera distruzione dell’individuo.

   A che servono codesti libri di dannosa letteratura? Se togli un po’ di boria, e di mal umore, null’altro producono nei giovani del nostro secolo.

   Non è però mia intenzione che i nostri giovani da mane a sera si volgessero in cure troppo molli ed aliene alla nobile vocazione dell’uomo. Mi preservi il cielo da simili errori; ma che eglino, educati alla gentilezza delle lettere italiane, dotati di bella e poetica fantasia, abbiano ad inselvatichirsi con le misantropiche utopie della letteratura di moda; ed invece di spingersi in nobile volo restino palustremente a lamentarsi  come gufi dell’egoismo del secolo e della ingratitudine verso i buoni ingegni; è questo il gran morbo che solo estirpar si potrebbe dalle aride sue radici, qualora il cuore de’ giovani espansivo e generoso fosse verso gli uomini, e meno freddo e positivo verso le donne.

                                                                 …… Francesco Mastriani

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   Fu pubblicato sul giornale Il Sibilo il 6 febbraio 1845