ARMONIA PRESTABILITA

   Memorie di due sposi

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   ELLA

   1 Giugno 1815 – Sono nata alla mezza. Tutta la famiglia è in pieno giubilo. Non si è mai veduta una bambina con tanto d’occhi da fuori! Ma io sono così magra che la mia levatrice non sa per qual parte del corpo afferrarmi.

   2 Giugno – Il comparello di mammà mi ha imposto il primo nome; Zio Arciprete mi ha dato il secondo e D. Michelangiolo, l’amico di casa, mi ha dato il terzo. Sicché, i tre nomi che si appongono al mio corpicino sono Vincenza, Carmine, Sinforosa.

Il papà e la mammà credono di aver vinto un terno, coll’essersi affaticati a regalare alla società un pezzo osteologico del mio peso e misura; onde non capono in sé per la gioia, ed hanno invitato tutte le comarelle del palazzo e delle vicinanze. La sera ci è baccano, festa, tarallini e vino nella neve.

   Il papà si chiama D. Pietrantonio; ha quarantuno anno; è calvo come la palma della sua mano destra; ha un ventre d’una rispettabile protuberanza ed è impiegato alla Municipalità.

   Questa volta egli è altero di registrare una nascita, di cui egli è l’autore.

   Il papà è un uomo eccellente; adempie con iscrupolosa esattezza a’doveri del suo ufficio; ed è lo specchio de’mariti affezionati e fedeli. I malevoli, i denigratori dell’altrui stima asseriscono che una ragione della sua fedeltà alla moglie è riposta nella eccessiva convessità del suo addome; ma alle male lingue non si dee dare ascolto.

   Mammà si chiama D. Cornelia, nome romano assai maestoso, l’etimologia del quale si perde ne’fasti della galanteria de’figli di Romolo; la mammà ha 32 anni finiti (non si sa da quanto tempo); è magra, sottile, con un capriccio di baffi sul labbro superiore, che gli osservatori han creduto di scorgere anche sul mio.

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   EGLI

   1 Dicembre 1815 – Sono nato allo spuntar del giorno, e al suon della zampogna e della cennamella. Gli astrologi domestici predicono di me grandi cose per essere io nato sotto il segno zodiacale del Capricorno. Non si è veduto mai un bambinello con un naso più grosso del mio. Questo mio naso forma la delizia de’miei genitori. Tutte le signore e signorine che vengono a visitare la mamma puerpera mi baciano alla punta del naso, e si estasiano sulla sua straordinaria bellezza e grossezza. Un poeta ha detto ch’io sarò un secondo Guadagnoli; un latinista ha giurato ch’io sarò la seconda edizione di Ovidio Nasone; e la moglie di notar Ruffino, mettendo un sospirone, ha detto ch’io farò gran fortuna in questo mondo.

   2 Dicembre – Lo stato civile piglia nota de’miei nomi; di cui la posterità si occuperà, se avrà tempo. Io mi chiamo Vincenzino, Ciccillo, Totonno, Peppino. Vincenzo è il nome del mio avo paterno, Francesco è quello del mio avo materno, Antonio è il nome di mio padre, e Giuseppe quello di mia madre. io sono dunque destinato a raccogliere tutte le virtù degli avi e de’genitori, e a ricordarne i nomi a quelli che non li hanno mai conosciuti, e che non si sarebbero affatto dato pensiero di conoscerli.

   Alla sera del 2 dicembre ci è festa di ballo con acquette e dolci. Io sono il primogenito, e sono stato aspettato con lunghi desideri e preghiere. Io mi sono fatto pregare un poco per onorare il mondo colla mia presenza.

   (Pubblicato il 1 Dicembre 1855)

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   ELLA

   1 Giugno 1820 – Salto parecchi anni, perché i primi anni della vita sono presso a poco gli stessi per tutta l’umana schiatta. Nel primo e nell’ultimo periodo di questa farsa che si addimanda la vita l’uomo (hic et haec homo) non è che un tubo digestivo, un canale di consumazione, un articolo di lusso; giacchè egli non è produttivo d’alcuna cosa. Le solite moine pe’primi denti, e le prime parole formano tutti i più importanti episodi de’primi cinque anni. Tormento de’vicini, degli amici di famiglia, delle balie, i fanciulli esercitano la loro missione, cioè lo esercitare l’altrui pazienza. Passiamo innanzi.

   1 Giugno 1825 – Ho dieci anni; la mia eccessiva magrezza non ne può più; ciò non pertanto io mangio per quattro, e ogni cinque o sei giorni ho un’infermità che minaccia i miei giorni. Il papà e la mammà perdono il capo ogni volta che io sto ammalata.

   Le bambolette di legno, i frutti secchi e i pasticcetti sono la mia passione. Essendo d’una salute poco forte, i miei genitori non han voluto mandarmi alla maestra, e invece mi han messo vicino un vampiro di pedante che m’insegna le prime letture. Sono due anni e non ho imparato altro che le due prime lettere dell’alfabeto. Ma so declamare a memoria Le Cigale ayant chantè, e l’altra favola Maître Corbeau sur un arbre perché. È vero ch’io non comprendo un fico di quel che dico, e tanto meno que’ signori innanzi a’quali io declamo; ma ciò non toglie che tutti mi trovano un prodigio di talento e di bellezza, e mi baciano in fronte, il solo sito dove ci è spazio per un bacio. Il babbo mi dice che bisogna farsi baciare soltanto dalle donne, perché io sono già grandetta e non conviene dar confidenza agli uomini.

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   EGLI

   1 Giugno 1820 – Facciamo un taglio, tronchiamo i noiosi episodî di quelli primi anni imbecilleschi in cui non si ha altra vita che quella delle piante.

   1 Dicembre 1825 – Ho dieci anni; il mio naso è cresciuto a detrimento della mia persona che è rimasta piccina e del mio ingegno che al dire de’miei rispettabili maestri, è come quello del maiale. Ma quello che ha veramente preso proporzioni spaventevoli e colossali è il mio appetito, che è d’una alacrità che fa paura. Nel tutto assieme, io sono un bel ragazzo.

   Tutt’i panni di papà passano a me; le sue giubbe, i suoi corpetti, i suoi calzoni. La festa io mi vesto di gala, e sembro un uomo fatto. Mi han comprato un bel cappello alto presso a poco quanto me. Quando io mi veggo col cappello in testa nello specchio del salotto, trovo una strana somiglianza tra me e un mostricino di caricature che sta sul mensoletto, e che fa tanto ridere le visite che vengono a baciar la mamma.

   Io vado a scuola. sono quattro anni dacché io sono condannato a queste galere. Ogni giorno ho un cavallo e un giorno sì e un altro no, soffro il digiuno, sofferenza orribile alla quale non so resistere. È vero che la mamma mi fa trovare il doppio del pranzo; ma intanto, quelle ore che mi separano dalla casa sono per me le ore dello inferno.

   In quattro anni non ho imparato altro che habeo habes e hic poeta, il poeta. Mi hanno messo tra le mani un certo libro che si chiama Portoreale. Ecco un nome che non dimenticherò mai per tutta la vita, e anche al di là, se memoria rimane delle cose di quaggiù. Sono persuaso che oltre la tomba troverò nel Portoreale il mio inferno.

   (Pubblicato il 4 Dicembre 1855)

   ELLA

   1.° Luglio 1826 – Ho undici anni compiti; sono alta e ben formata, ma la mia magrezza è sempre quella stessa che sapete. Vesto ancora le bombolette, ma mi piace molto di più pensare a’miei proprii vestiti.

   Ho imparato a ballare. Il mio maestro di ballo è un vecchio di settant’anni, che adempie al tempo stesso anche all’ufficio di suonatore di violino.

   Jeri sera il babbo e la mamma mi han condotta ad una società. prima di uscire, mi hanno raccomandato tante cose, e tra le altre, di far bene la riverenza: mi hanno fatto studiare bene a memorie le mie favole di Lafontaine, per declamarle in mezzo alla galleria.

   Sono stata situata due ore vicino alla mammà; non ho fatto nessun movimento per non far maltrattare la mia acconciatura: la mia vesticina è insaldata come un pallone.

   Hanno ballato tanto tempo senza pensare a far ballare anche me. Finalmente un signore lungo lungo, cogli occhiali, al quale ho inteso dare il titolo di signor professore, mi è stato presentato dal padrone di casa, per fare una quadriglia con me! Io mi sentiva venir le convulsioni a quel posto dov’era stata immobile. Il professore non mi ha detto neppure una parola; abbiamo ballato con molta serietà.

   Poi mi ha fatto ballare la gavotta con un fanciullo di sei anni. Mi sono sentita gonfiare il cuore quando ho udito gli applausi che sono scoppiati dopo che la gavotta era finita.

   Da ultimo ho declamato il mio Lafontaine; ma non so perché tutti gli uomini sonosene andati nelle altre stanze. Tutte le mammà mi hanno applaudita.

EGLI

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   1.° Dicembre 1826 – Ho undici anni; sono ancora piccino della persona; ma il mio naso è sempre una bellezza a vedere; ed io comincio ad accorgermi che non dà troppa grazia alla mia faccia; tanto più che minaccia di prendere una forma aquilina.

   Vado ancora alla scuola; ma ho mutato ventiquattro istituti, perché i miei genitori non vogliono che i miei professori mi battano; e, in confidenza, io sono di tale impertinenza che strappo le bastonate anche ad un morto.

   In quanto a’miei studi ho finalmente imparato a leggere; ma i libri m’ispirano tal ripugnanza, tal noia, che sono risoluto di farmi ammazzare piuttosto che aprirne uno.

   Fare il soldato, andare al Molo, alla Villa, la ricreazione e le sfogliatelle sono sempre la mia passione; su tutt’i mesi dell’anno, adoro Ottobre, e gli ultimi dieci giorni di Dicembre.

   Consumo tre pani al giorno, due penne, un quaderno di carta, un lapis, e un paio di scarpe ogni settimana. ricevo per merenda due grana al giorno, che io consacro al fruttaiolo; le castagne lesse e le bruciatelle sono il mio cuore.

   I miei genitori mi portano dovunque vanno, e ieri sera andai con loro ad una società. Mi posi i calzoni di circassia e la cravatta insaldata.

   Stetti serio tutta la serata, di maniera che tutta la società facea i suoi congratulamenti la babbo e la mamma per la mia sodezza. Se avessero saputo quello che ci tengo in corpo!

   Ho risoluto d’imparare a ballare, perché deve essere una bella cosa lo sfrenarsi con tante belle ragazze!

   (Pubblicato il 7 Dicembre 1855)

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   ELLA

   1 Giugno 1828 – Oh mio Dio! che mi è accaduto! Ho tredici anni, e non mai per lo addietro mi è avvenuto quello che ora mi è accaduto.

   Questa mattina, nel baciar la mano alla mamma, mi sono fatta rossa rossa; e la mamma mi ha baciata con le lagrime agli occhi.

   Io sento qualche cosa che non so esprimere. Ho preso la mia bamboletta, e l’ho vestita; ma non ci trovo più quel piacere che una volta ci trovava. Mi faccio rossa per niente.

   Non so perché la vista degli uomini mi fa abbassar gli occhi; anche mio padre m’impone una certa soggezione!

   Mi sento nello stresso tempo un malessere e un benessere, una voglia di piangere e di ridere, ma non tanto di ridere quanto di piangere. Mi sento qui sul petto una cosa che non so dire, e poi, dentro al cuore, un desiderio, una tenerezza, una malinconia…

   Ho domandato a mammà se io sto ammalata; ed ella mi ha sorriso e mi ha tornato a baciare.

   La mammà ha detto che ora non conviene che io porti più le veste corte; giacchè ormai sono grandetta, sono, a quello ch’ella dice, una zitella.

   Zitella! È curioso. Questa parola mi fa pensare a tante cose cui per lo dianzi, non ho mai pensato!

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   EGLI

   1 Dicembre 1828 – La mamma questa mattina mi ha regalato niente meno che un orologio d’argento grosso quanto quello che porta il papà, e mi ha detto che oggi io finisco tredici anni, e che ormai debbo mettere la testa a far bene perché sono un uomo.

   In fatti, il portare in saccoccia un orologio d’argento mi dà una cert’aria d’importanza!

   Il sarto mi ha portato questa mattina una giamberga, che era una volta del papà; l’hanno rivoltata, come ha detto il sarto. Io dunque porterò un orologio e una giamberga, o, per meglio dire, l’orologio e la giamberga porteranno me.

   Sono passato allo studio dell’umanità. Io non capisco propriamente ciò che significa questo studio; ma voglio metter la testa a far bene, come dice la mamma, basta che non mi facciano veder libri, che sono l’odio mio.

   La mia debolezza è quella di mettere in burla i miei maestri, e questa debolezza mi dura ancora!

   È curioso! Da qualche tempo a questa parte le donne mi guardano con un cert’occhio; e si mettono a ridere e cianciano tra loro.

   È curioso; io pure da poco in qua sento una certa voglia, come per esempio, di stare in compagnia di donne più che di uomini. I miei compagni di scuola mi divertono; amo la loro società, ma Lisetta, la cameriera, mi piace più di loro, e soprattutto Giulietta la mia cugina che è presso a poco della mia età, e Errichetta, la figliuola di D. Ambrogio al primo piano, e finanche quella gattella secca e sparuta che ho rimpetto, figlia di D. Pietrantonio che abita rimpetto a noi.

   (Pubblicato il 10 Dicembre 1855)

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   ELLA

   1 Giugno 1829 – Sempre che mi metto a lavorare dietro la finestra, mi veggo di rimpetto quella brutta creatura di Don Vincenzino di rimpetto; che si pone a guardarmi con una pertinacia. Voglio vedere chi è più duro di capo, o io a non muovermi dal mio posto, o egli a non allontanarsi dal balcone.

   Dacché ritorna dalla scuola, non fa altro che mettersi a quel balcone e guardarmi. La mamma si è avveduta di questo, e par che ciò non le colga, perché non mi ha detto neppure di allontanarmi dalla finestra.

   Ma poche sere fa, udii il papà e la mammà che tenevano tra loro certi strani discorsi sul mio conto. Essi pensavano che io non li udissi; e tra altre cose che dicevano, sentii perfettamente pronunziare il nome di Don Vincenzino di rimpetto.

   La mamma diceva:

   ‒ Alla fine de’conti, Pietrantonio, è meglio presto che tardi, e, se la cosa è destinata, bisogna fare la volontà del cielo. Il ragazzo di Don Antonio non è brutto, è figlio unico; e ho inteso dire che l’anno venturo Don Antonio lo piazzerà appresso a se nel suo impiego.

   E il babbo diceva:

   ‒ Ma mi pare mo, Cornelia mia, che quel mandrillo mi abbia l’aria d’un marito? E ti pare che possiamo porre in testa a Tetella queste cose! Lascia che passino altri cinque o sei anni, e poi vedremo.

   E la mamma:

   ‒ Sì, altri cinque o sei anni!… Già tu sei tardi in tutte le tue cose. A me piacciono le cose verdi verdi; e mi sa mille anni di veder Tetella maritata.

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   EGLI

   1 giugno 1829 – Eccola, al suo posto, dietro a quella finestra! Non così tosto mi vede tornar dalla scuola, che va a piantarsi dietro que’cristalli; e, quando io mi metto a guardarla, essa dà un’occhiata al lavorio che ha tra le mani, e cento occhiate a me.

   È piccola, secca, sparuta; eppur mi piace; quegli occhi sono belli e tondi; si direbbe che la faccia è tutt’occhi, come la mia è tutta naso. Se un giorno noi saremo marito e moglie, io le presterò un poco del mio odorato, ed ella un poco della sua vista.

   La mamma mi secca perché vuole ch’io vada a ripassare le mie lezioni di umanità. Maledetti i libri e chi l’inventò!

   Ella mi guarda e sorride! Oh se potessi vederla da vicino! Ho risoluto di aspettarla domenica quando esce colla mamma. Voglio assolutamente vederla una volta da faccia a faccia.

   Il babbo mi ha promesso di non farmi andar più l’anno venturo alla scuola e invece di portarmi con lui al suo impiego. Oh! allora io sarò  IMPIEGATO!

   Sarò un uomo come tutti gli altri, potrò pensare ad ammogliarmi!

   Ora io sono ancora un ragazzo, ma allora! Oh vorrei saldare a pie’pari quest’anno crudele e noioso ed eterno che mi separa dall’anno venturo. E quando avrò venti anni!!

   (Pubblicato l’11 Dicembre 1855)

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   ELLA

   1 Giugno 1830 – Jeri Vincenzino è andato all’impiego col padre; dunque oggi o domani potrebbe parlare a papà mio. Io gli vogli un bene pazzo!

   Che piacere che adesso viene quasi tutte le sere, e si siede vicino a me, e mi guarda sempre. Quando la mamma ci lascia un po’soli, io vorrei che egli non fosse così tumido com’è; vorrei che mi dicesse qualche parola, che si dichiarasse finalmente. è vero che i suoi occhi mi hanno fatto capire che mi ama, ma vorrei sentircelo dire propriamente dalla sua bocca. Che diavolo! egli è un uomo! Oh se io portassi i calzoni! Che cosa non farei quando mi trovassi da solo a solo colla mia bella!

   Questo parlar cogli occhi continuamente è una cosa che mi fa venire le vertigini. La mamma ogni mattina mi dimanda se Vincenzino si è spiegato; ed io debbo avere la mortificazione di dirle che egli non ne ha fatto niente. Finirà che mi spiegherò io per lui. Ma spero che ormai, essendo divenuto un impiegato, voglia dichiararsi in una di queste sere.

   Agnesina, mia cugina, trova che Vincenzino ha la faccia di scemo, ma io so quanto è invidiosa questa viperetta la quale, perché ha 25 anni e non si è maritata, vorrebbe che tutte le zitelle rimanessero zitelle, e che il mondo rimanesse tisico, consunto per mancanza di matrimoni.

   Non importa che Vincenzino ha la faccia di scemo; io gli voglio bene è sarà il mio sposo.

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   EGLI

   1 Giugno 1830 – Jeri sono andato all’impiego con papà; mi han fatto sedere davanti a un tavolino, e mi hanno dato a copiare una carta. Ho sudato freddo, perché il carattere della carta dalla quale io dovea copiare era un altro carattere; le lettere non erano chiare. Io non ne ho capito una parola. Papà stava in un’altra stanza, ed io ho avuto soggezione di alzarmi ogni momento per andare a farmi interpretare quell’infame scrittura che mi mettea la febbre ne’polsi. Ho creato a mia fantasia molte parole che non ho saputo decifrare e indovinare. Credo che ho posto un’ora e mezzo per copiare mezza pagina; tanto più che la penna era troppo fina, l’inchiostro abbondante; due o tre sgorbi son caduti giù dalla penna sulla carta.

   Avea vergogna di mostrare il primo saggio della mia impiegatura; ma intanto, un uomo con tanto di pancia che era seduto rimpetto a me, e che chiamavano D. Pietro, mi ha domandato se io avea fatto; e ho dovuto rispondere che sì; e gli ho mostrato la mia copia.    L’uomo-pancia ha letto con molta serietà la mia carta, indi, rivolto a una specie di cangrù che gli stava affianco, gli ha detto queste parole che mi hanno consolato: «Ecco un marmottino  che promette di diventar capo d’uffizio!» Detto ciò, seriamente ha preso la carta dalla quale io avea copiata, e l’ha data a un altro scimmiottino che era nella medesima stanza.

   Io non mi sono dato più pensiero di niente, e mi sono messo a pensare alla mia cara Vincenzina, che sposerò, non appena avrò ricevuto la prima gratificazione.

   (Pubblicato l’15 Dicembre 1855)

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   ELLA

   1 Giugno 1831 – Oh finalmente! Vincenzino ha parlato! Si è spiegato! Ha detto di amarmi, di volermi sposare; si è dichiarato! Oh che gioia! Un altro poco, e io moriva per la contentezza! Non seppi rispondergli altro che: «Anch’io ti voglio tanto bene da tanto tempo, Vincenzino mio! Quando parlerai a papà?»

   La cosa andò così. Ieri sera, egli stava seduto vicino a me, secondo il solito; io facea la calzetta, e la mamma dormiva mentre stava rimendando i calzoni di mio fratello.

   Vincenzino mi guardava come non mi ha guardato mai; la punta del suo naso erasi fatta tutta rossa, e i suoi occhi erano di fuoco.

   La sua mano (per la prima volta) ardì prender la mia… Il mio cuore palpitava… palpitava, ed il suo, m’immagino… il poveretto non potea espirare per la commozione!… Non so come avvenne, ma io feci un grande starnuto; egli mi disse : Buona sorte! E poi, stretta la mia mano tra le sue la baciò, e mi disse: Vincenzina mia… e si fermò e poi cominciò novellamente: Vincenzina mia… e si fermò di bel nuovo, e non potea parlare! Ma, finalmente come volle il cielo, gli uscì dalla bocca: Io ti voglio tanto bene; tu sei, io sono… noi siamo nati per essere marito e moglie; tu ti chiami Vincenza ed io Vincenzo.

   Allora io non ho fatto più la calza; la mia mano non era più mia; io mi sono fatta rossa rossa, ed ho risposto quelle parole che ho detto più sopra.

   Quanto era bello il mio Vincenzino in quel momento che si dichiarava! Pareva un genio, tranne il naso!

   E la mamma dormiva; ma stamane mi ha detto che aveva udito, tutto il nostro dialogo.

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   EGLI

   1 Giugno 1831 – Mi sono spiegato! Mi sono spiegato! Non ho potuto chiudere gli occhi per la consolazione! Ieri sera è successo l’affare! Da tanto tempo io volea parlare, e mi mancava il coraggio. Ma ieri sera ho fatto anima e core, e ho parlato! Oggi non posso più retrocedere; e mi conviene sposar Vincenzina. Oggimai io sono un uomo! – A Pasqua passata ebbi trenta carlini di gratificazione, e mi pare che sia tempo di pensare a far cose da se. Gli ascensi non mi possono mancare, come D. Pietro mi assicurava; Vincenzina avrà la sua dote; papà mi darà qualche cosa; e va bene.

   Ma quando è cara quella Vincenzina! Che bella manina!… E quegli occhi! Io non ci posso pensare, senza sentirmi formicolar per le vene un piacere che non so esprimere. Quando era cara quella vocina quando mi disse: «Anch’io ti voglio tanto bene Vincenzino mio!!»

   Questa sera Vincenzina mi vedrà per la prima volta col soprabito che mi ha fatto il sarto, con quel bavero alto alto che mi sembra il capitello  d’una colonna!

   Il fatto che io promisi ieri sera di parlare a papà, cioè di parlare a papà suo, e debbo mantenere la mia promessa. Che cosa dirò a D. Pietrantonio? Come comincerò il discorso? Io non sono troppo felice a discorrere; m’imbroglio, non mi vengono le parole in bocca… Ma, non ci è caso! Bisogna mantenere la parola ad ogni costo… Prenderò due anni di tempo; sarò più avanzato nel mio impiego, e in due anni possono nascere tante cose!

   Intanto questa sera parlerò a D. Cornelia, D. Cornelia non m’impone soggezione; ella mi vuol bene.

   (Pubblicato il 17 Dicembre 1855)

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   ELLA

   ‒ Ha parlato a papà! Ha preso due anni di tempo! Dunque ormai la cosa è sicura! Non ci è più timore. Da qui a due anni sarò maritata. Maritata! Io non capo ne’panni per la contentezza! Maritata! Io potrò uscire quando a me pare e piace, potrò essere presente a certi discorsi che fanno gli uomini, e a’quali ora la mamma non vuole che io sia presente; potrò comandare alla serva e farmi dare l’eccellenza. E potrò vestire galantemente, giacchè Vincenzino dovrà farmi tutti gli abiti che usciranno in moda e potrà far crepare d’invidia quella scimia di mia cugina che soffia sempre agli orecchi de’miei genitori per non farmi maritare! Ma ella creperà, ed io sarò maritata da qui ad altri due anni.

   E come farò per far passare con prestezza questi due anni che mi sembreranno due lunghissimi secoli! Ora Vincenzino potrà venire in questa casa tutte le volte che gli piacerà; anzi, io voglia che ci venga pure il mattino, prima e dopo dell’impiego.

   Ho più piacere che ci venga di mattina; giacchè papà non ci è, ed è meglio. Con mammà la cosa è diversa! Possiamo star soli dieci minuti; possiamo dirci due parolette in libertà.

   E stasera lo voglio accomodare io, al mio Vincenzino! Ah! egli pensa di fare il galante anche con quella smorfia di Teresina che abita al primo piano; ma l’avrà da fare con me! Oh! io sono gelosa finanche dell’aria, e poveretto lui se mi darà motivi di gelosia!

    Che brutta creatura è quella Teresina! Già, è conosciuta da tutto il quartiere come una sfacciatella; è tanto brutta e vuol fare la bellina; ma io la farò stare a dovere. ‒ E poi ha fatto l’amore con tutti i D. Ciccilli del quartiere. ‒ Che brutta smorfia, Signore perdonami!!

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   EGLI

   ‒ Ho parlato! Mi sono dichiarato! Ho impegnato la mia parola, ed ora, caschi il mondo, voglio o non voglio, da qui a due anni, debbo esser marito!

   È curiosa! Ma, dacché ho parlato con D. Pietrantonio, dacché ho promesso di sposar la mia Vincenzina, io non mi sento più così infuocato come prima, e la stessa Vincenzina non mi sembra più così bella.

   Ieri le stava seduto vicino, e per la prima volta io era distratto e pensoso; e, se non fosse stato un acuto pizzicotto che la mia bella mi applicò sul braccio per richiamarmi all’ammirazione di lei, non so dove sarei andato a sbattere col pensiero!

   Comincio a trovar insipido il far l’amore col permesso de’superiori. È meglio far le cose di nascosto; ci è un poco più di sapore. Ad ogni modo, ci sono e non bisogna pentirsi così presto.

   Dicono che l’ammogliarsi è una bestialità; fosse mai ciò vero! Per bacco, la dev’essere così; perocchè tutt’i mariti dicono lo stesso. Io dunque farò una bestialità! Ma pure, quando penso che a simile bestialità io sono debitore della mia vita, non posso del tutto convenire nella opinione de’signori mariti.

   E fosse anche una bestialità; ho dato la mia parola, e debbo adempirla con qualunque sacrificio. Che diascine! Sono un uomo o un ragazzo? Mio padre sa di latino, e Zio canonico mi ripetono sempre certe parole che dicono, se non erro, Promissio boni viri est obbligatio. Dunque io debbo ammogliarmi!

   Mi mettono innanzi i mezzi di fortuna, i pesi del matrimonio, l’educazione de’figli e tante altre cose che mi spaventano! A tutto questo penserà il cielo; per ora io debbo pensare a mettermi in possesso della mia cara Vincenzina.

   (Pubblicato il 18 Dicembre 1855)

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   ELLA

   ‒ Io non posso vivere senza il mio Vincenzino. Sono già diciotto mesi che do l’amore con lui, ed è per me come se l’affare fosse cominciato ieri. Egli viene in casa mia regolarmente tre volte al giorno; ma è un vero supplizio il non poterci dire una parola da sola a solo! Mammà non ci lascia un momento.

   Altre sei mesi ed io sarò sua moglie! Sto contando i mesi giorno per giorno, ed i giorni minuto per minuto! Che piacere quando sarò sua moglie! La domenica mattina uscirò appoggiata al braccio di mio marito! Sentirò mormorarmi alle spalle: La sposa! Oh! ecco la sposa! Che bella veste che ha addosso! Quanto è bella! E, dopo il pranzo di estate andremo alla Villa, al teatro S. Carlino; staremo in un palchetto mio marito ed io solamente starò a mano a mano con lui, giacchè la sua mano deve star sempre nella mia, anche quando saremo marito e moglie. Staremo sempre ritirati nella nostra caserella! Oh quando penso a questo, mi batte il cuore in un modo!… Come sarò felice! Uh! ma io sarò gelosa come una vipera. Non voglia il cielo, ed egli guarderà in faccia ad un’altra donna, me lo mangerò vivo. Sì, egli, il mio Vincenzino, con quel bel naso aggraziato, con quegli occhietti furbi, dev’essere tutto mio, soltanto mio. Io me lo son faticato, me lo sono stentato, ed io sola debbo godermelo, questo maritino che il cielo mi ha destinato.

   Sposerò a maggio, come dice la mammà, come farò per far passare questi sei mesi che mi separano da maggio? Come creperanno d’invidia le mie amiche, quando mi vedranno maritata, e soprattutto quella Teresina che mi bacia sempre! Ogni suo bacio è un morso di vipera.

   EGLI

   ‒ Sto pensando come ho da fare per fare un regalo a Vincenzina ora che si accosta il Natale. De’sei ducati di gratificazione, quattro se li piglia papà; qualche carlinello mi serve per tenerlo in saccoccia nelle feste, e che cosa potrò fare col rimanente? Per ora non le ho dato altro che un anello; e temo che a questo si limiteranno tutt’i regali d’amore.

   Come sono infelice per non aver potuto avvezzarmi a fumare! Ho fatto tante volte la prova, ed un atroce disturbo di stomaco è stato immancabile. Una sera fui preso da un capogiro e caddi in casa di Vincenzina; avrei voluto piuttosto che il fulmine mi avesse incenerito! Mi guardai dal dirle quale era stata la vera cagione del male che mi aveva assalito; dissi che non mi sentiva bene, che avea dolor di capo.

   Come debbono essere felici gl’innamorati che fumano! Che importanza non acquista un uomo col sigaro in bocca! Io non comprendo come un uomo possa essere uomo senza fumare! Ed ecco, io non sono ancora un uomo! Che rabbia! Ma voglia o non voglia il mio stomaco, debbe avvezzarsi al sigaro; altrimenti peggio per lui!

   Avrei almeno un modo da ammazzar la noia in quelle lunghe ore della sera che sto in casa di Vincenzina, coll’eterna mammà in prospettiva! Mi sa mille anni di essere sposo per finire di essere innamorato, per terminarla con questa vita disperata che sto passando!

   Quando sarò marito odierò mia suocera.

   Ed ecco la ragione per cui i generi e le nuore odiano le suocere; si ricordano sempre con raccapriccio di queste carnefici de’loro amori.

   (Pubblicato il 22 gennaio 1856)

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   ELLA

   ‒ Voglio morire; voglio buttarmi da un balcone, voglio bere aceto e sale ad ogni momento per morir tisica! Vincenzino non è venuto in tutto il corso della giornata di ieri! Maledetta la mia ostinazione, maledetti i puntigli; maledetta la mia sorte nera! Tutto si era aggiustato; egli mi avea chiesto scusa di essere andato a’Fiorentini senza il mio permesso; ed io mi sono incaparbita a non volergli parlare tutta la sera; egli mi pregava, piangeva quasi, ed io lì, dura come una bestia che sono, a non dargli resta. Finalmente Vincenzino ha preso il cappello e senza salutare nessuno se n’è andato, mormorando alcune parole che io non ho potuto comprendere. La fantesca che io gli ho mandato subito appresso, mi assicura che egli dicea di volere andare a gittarsi dal Ponte della Sanità; ma, fortunatamente, sembra che l’aria esterna gli abbia fatto mutare idea; giacchè, invece di correre al Ponte della Sanità, la fantesca il vide entrare in uno stanzino di pizzaiuolo!

   Mamma mia, come faccio! Egli non è venuto ieri; non è neppur passato sotto al mio balcone! Egli dunque non mi ama più! Dunque, è finita per me! Il matrimonio si è scombinato! Io rimarrò zitella per tutta la mia vita! E le mie amiche rideranno! E quella Teresina, creperà di gioia!

   No, io voglio morire; voglio buttarmi da un balcone! E mammà che non se ne incarica! Che non manda a chiamar Vincenzino! Bisogna che io mi faccia venire una convulsione! Io voglio Vincenzino mio! Io voglio Vincenzino mio!

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   EGLI

   ‒ Ah! ella credeva che avesse da fare con un collegiale! Io mi accorsi della sua fantesca che mi seguiva, ed entrai a bella posta dal pizzaiuolo, per dimostrarle la mia indifferenza.

   Ho risoluto di non andare più da lei se prima ella non mi scrive una lettera colla quale mi chieda scusa della sua superbia e ostinatezza. La vedremo! Con me non si scherza!

   Ma come ha potuto far passare la giornata di ieri senza mandarmi a dire una sola parola! Quando penso che l’altra sera io mi avvilii fino a piangere! E tutto questo perché io sono andato al teatro senza dirglielo! Come se io ne avessi avuto il tempo! Il mio amico Ernesto venne  prendermi nel momento che io stavo per coricarmi, e indusse mio padre a farmi andare con lui a’Fiorentini! Come poteva io cogliere il tempo per andarla ad avvertire?

   Tanto meglio se si scombinerà questo matrimonio! Riacquisterò la mia libertà, e risparmierò il regalo di Natale! Giacchè ella non mi ama più, è meglio che questo matrimonio non si faccia.

   Eppure, io l’amo ancora, la perfida, la crudele, e quando penso che ella non s’incarica più di me, non si cura di me, e lascia passare un giorno senza mandare a casa mia per informarsi se son vivo o morto, mi piglia il demonio, e farei cose da matti!

   No, non è possibile che io viva senza la mia Vincenzina. Giacchè essa non manda da me, sta sera andrò io da lei, e tutto sarà finito! Io non mi fido! non mi fido! L’amo l’amo; è a me più cara, più del sol che mi rischiara. Io voglio Vincenzina mia! Io voglio Vincenzina mia.

   (Pubblicato il 23 gennaio 1856)

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   ELLA

   ‒ Jeri Vincenzino ha parlato con papà pel nostro prossimo matrimonio! Avrei dato il resto de’miei giorni per esser presente alla loro conversazione. Il cuore mi batteva in tal modo! la mamma non capiva in se per la gioia: pareva quasi quasi più contenta di me; andava e veniva su e giù per la casa, parlava da sé sola e rideva e piangeva, e ogni volta che passava dinanzi ad una sacra immagine io la vedeva fermarsi e mormorare una preghiera. Io non capisco cosa abbia la mamma!

   Ella è entrata più di cento volte, e sotto vari pretesti nella stanza dove mio padre stava parlando col mio Vincenzino; e ogni volta che ne usciva, la sua faccia era più rossa, più raggianti i suoi occhi, e mi guardava in un modo curioso!

   Finalmente, dopo un’ora di conversazione, Vincenzino è uscito di quella stanza. Non ho veduta mai così arrossita la punta del suo naso!

   Avrei dato l’altro resto della mia vita per rimanere un momento da sola a solo con Vincenzino per sapere che cosa avea combinato con papà; ma la solita mamma non ci ha lasciati di vista; e non so perché mi si è fatto un mistero di tutto.

   In tutto il corso della serata, Vincenzino è stato d’una serietà e d’una freddezza che mi hanno messo di cattivo umore; non ha detto che poche parole; parea distratto, svogliato. Mi è riuscito, alla sfuggita, di dargli una pestata che gli ha fatto gittare un grido. La mamma si è spaventata ed ha chiesto la ragione di quel grido. Egli ha risposto che si era fatto male ad un callo, essendo urtato col piede contro una traversa della sedia. Il fatto sta che ciò lo ha messo di più cattivo umore.

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   EGLI

   ‒ Jeri ho parlato con D. Pietrantonio per combinare quel che si ha da fare pel prossimo matrimonio. Mi ha domandato se oltre al mio soldo di trentasei ducati… annuali, ci erano altri lucri al mio impiego. Ho detto di sì, mentre dacché sono impiegato, i lucri sono spariti. Abbiamo combinato molte cose; ma in sostanza nulla si è fissato di positivo, siccome accade in tutte le conferenze di qualunque specie.

   L’essenziale è che D. Pietrantonio mi offre, vita sua durante, casa franca, tavola franca e moglie anche franca. Ho fatto la riflessione che D. Pietrantonio non è vecchio; epperò ci è da scialare per qualche tempo. Abbiamo assodato sommariamente altre cose, salvo sempre l’approvazione del mio signor padre.

   Quel D. Pietrantonio mi ha fatto tante e tante raccomandazioni relative a sua figlia, che ne ho il capo stordito; mi ha fatto un discorso edificante sui doveri degli sposi, sui piaceri della concordia… in famiglia, e sulla necessità della domestica economia.

   Da quanto D. Pietrantonio mi ha detto mi sono formato in mente un’idea, che un marito dev’essere qualche cosa di serio. In fatti, ora che ci penso, tutt’i mariti hanno una cert’aria, una certa gravità specifica; sono chiamati uomini serî; e, non so perché, il loro ventre piglia subito certe rispettabili proporzioni. Io dunque diventerò tra poco un uomo serio! Oh come dovrò essere curioso!

   (Pubblicato il 28 gennaio 1856)

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   ELLA

   ‒ Tra otto giorni sarò sua moglie! Sarò maritata! La stanza nuziale è preparata; il letto maritale è situato! Oh che confusione ho nel capo! Tutto ciò mi sembra che non possa accadere; che io non debba essere sposa! È una felicità che non mi sembra possibile! eppure, domenica abbiamo dato parola; le pubblicazioni si sono fatte; il corredo è pronto. Si era detto e convenuto che dovevamo sposare alla fine del mese; ma non so perché mia madre ha voluto che sposassimo prima.

   Avrò domani o poidimane la mia vesta di sposa! Com’è bella! E le altre veste che sono ordinate per me, e lo sciallo e la mantiglietta, e i bei cappelli, e tante e tante altre cose tutte nuove, tutte belle, tutte fatte espressamente per me. Che gioia! Che bella cosa è mai il matrimonio! Da qualche giorno mia madre mi guarda con una tenerezza! Fa certi occhi grossi di pianto!… ma, mentre piange… ella sorride.

   Io non posso più dormire. Da qualche tempo i miei occhi non si chiudono più al sonno. Mi metto a pensare a tante cose! E la mia fantasia vola… vola; e mi volto e mi rivolto nel letto senza poter riposare. Il piacere mi soffoca, mi uccide; mi assale una impazienza nervosa; vorrei che i giorni e le notti fossero rapidissimi.

   Vincenzino si è fatto un altro uomo! Dacchè abbiam dato parola, egli è più serio, taciturno; ha già l’aria d’un marito. Mi ha detto che si è fatto una magnifica chasse pel giorno degli sponsali. Oh come dovrà parer bello!

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   EGLI

   ‒ Oggi ad otto! E come farò denaro pe’gelati? D. Pietrantonio mi ha fatto capire che i complimenti spetta allo sposo il farli! Ne ho parlato a papà, il quale dice di non volerne saper niente, perché non ha denaro. Sia benedetto il cielo! E quella scellerata di Donna Cornelia che ha voluto per forza affrettare il giorno degli sponsali! Se avessi avuto almeno il tempo fino alla fine del mese1

   Come farò? Non ci è altro rimedio che ricorrere a Don Ciccio, che presta il denaro  al trenta per cento al mese. Mi farò dare una trentina di piastre. Cominciamo i pesi del matrimonio. I gelati comprati al 30 per 100 al mese sono brutti auspici per la mia luna di miele.

   Non ci è che fare! mi ci trovo, e bisogna starci: chi vuole il dolce, deve aver l’amaro, l’amaro è Don Ciccio.

   Ma io vorrei sapere perché si hanno a fare questi complimenti quand’uno si ammoglia! Non sarebbe meglio di cantare la nenia de’morti! Regola generale ed infallibile: uno che si ammoglia muore alla società, si mummifica e diventa un pezzo archeologico che fa la moltiplica. Or dunque, perché questi complimenti?

   (Pubblicato il 29 gennaio 1856)

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   ELLA

   ‒ Domani è il gran giorno! Domani io sarò maritata! Vincenzino sarà mio, mio per sempre! Potremo finalmente star noi due soli nella nostra cameretta senza importuni testimoni! Quanto è bella quella cameretta apparecchiata a riceverci! E quel letto con quelle bianche materasse, colle iniziali de’nostri due nomi intrecciate!

  A me non par vero che domani sposiamo. Mi pareva che ci volesse ancora tanto tempo! Vincenzino ed io abbiamo quasi la medesima età, ci è soltanto sei mesi di differenza tra noi. Mia madre avea detto che io avea quindici in sedici anni, mentre ne ho ventidue suonati.

   Domani, domenica, sposiamo, e domenica ad otto faremo la prima uscita. O Dio, e come resisterò a tanta felicità che mi si prepara? Dunque, per una povera giovane che rimane zitella tante dolcezze non esistono! Hanno dunque ragione le donne di voler maritarsi per forza, fosse anche col diascolo.

   Mammà mi fa perdere il capo per tante cose che mi dice.

   Tutte le mie cugine ed amiche mi baciano, mi sorridono, mi dicono pure tante belle cose; ma ci è del fiele, dell’odio ne’loro baci, ne’loro sorrisi, nelle loro parole. Si vede chiaramente che l’invidia le rode, e massime quella Teresina che non ha trovato mai un cane che l’abbia guardata.

   Ieri sera per la prima volta ho chiamato papà e mammà i genitori di Vincenzino: così mia madre mi disse che facessi: baciai loro la mano, e Donna… Cosa mi dette un bacio in fronte ch’io trovai un po’freddo. In quanto a D. Vincenzo padre egli è un buon uomo, e sembra contento di questo matrimonio. Vedremo in appresso.

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   EGLI

   ‒ Domani mi rompo il collo! Alla buon’ora! Hanno voluto così, così sia! Ecco ciò che significa mettersi a far l’amore senza quella necessaria avvedutezza che tengono gli uomini e non già i fanciulli.

   Il fatto è che io sto nello inferno! Ci vuole un fiume di denaro; mio padre non vuol saperne, perché dice che ora spetta a me il pensarci; e intanto, come si fa?

   Mi son fatto dare le venti piastre da D. Ciccio; ho preso in anticipazione dalla cassa del mio impiego tre soldi che fan ducati nove; mammà mi ha dato altri trenta carlini dal frutto de’suoi risparmii domestici; sicché ho in tutto ducati 36.  Del conto che mi son fatto, per le spese di oggi e domani, senza contar le regalie il cui numero è minaccioso, mi bisognano almeno 48 ducati, senza che mi rimanga un grano in tasca da comprarne bombons per la mia sposa!

   Come diascine farò? E questo non è niente, quanto che non ho pagato ancora il sarto che mi ha portato gli abiti nuovi.

   Non posso dare un passo senza sentirmi dare delle congratulazioni e delle stoccate che io riparo alla meglio per quanto posso.

   Basta; lasciamo fare al cielo. Dicono, che il matrimonio è di buon augurio e che porta fortuna! Così speriamo.

   Non ho neppure il tempo di pensare alla mia felicità! Non ho neppure il tempo di pensare alla mia cara Vincenzina che domani finalmente sarà mia davvero, e che potrò finalmente stringere fra le mie braccia! Questo pensiero compensa tutto.

   (Pubblicato il 31 gennaio 1856)

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   ELLA

   ‒ Eccomi giunta al più bel giorno della mia vita! Mammà è venuta ad abbracciarmi stamane non sì tosto mi sono alzata; mi ha dato un diluvio di baci; ed abbiamo pianto insieme.

   Io non capisco perché mammà piange. Dal canto mio, confesso che sono più disposta a ridere che a piangere: mi sembrano di assai cattivo augurio queste lagrime.

   Che confusione nella casa! Che disordine, che parapiglia! Gente che va e viene; visite di parenti e di amici; e tutti vogliono vedermi, come se io fossi divenuta una bestia rara.

   È venuto il mio Vincenzino: questa mattina mi sembra assai più bello di quello che è; ma egli è pallido, ha le occhiaie, ha i capelli scompigliati, e si direbbe che gli è accaduta qualche disgrazia.

   Gli ho domandato parecchie volte perché sta così; ed egli poco mi ha risposto; sembra distratto, concentrato ne’suoi pensieri. Che cosa ha pel capo?

   Ho passato in rassegna gli abiti che dovrò mettermi questa sera: non mi sazio di contemplare la mia veste bianca; me la sono provata cento volte; e ogni volta che l’indosso, mammà si mette a piangere.

   Mi sento stordita, confusa, non capisco niente, il cuore mi palpita in un modo: tutti mi guardano con estrema curiosità come se io avessi fatta un’altra faccia o avessi un altro corpo! Non ho appetito. Mi sento accesa da capo a piedi. Oh mio Dio avessi mai la febbre!

   Mi chiama la mamma nella sua camera. Ecco la sesta volta che mi chiama. Ricominceremo colle lagrime. È deciso! Qualche disgrazia certamente dovrò passare!

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   EGLI

   ‒ Questa mattina mi sono alzato, ed ho fatto la terribile scoperta di un capello bianco sul mio capo. Ecco il primo effetto del matrimonio! In verità, io non so come diascine farò sta sera? Io non ho più in tasca che pochi ducati! E mio padre che si ostina a non volerne saper niente. Io dunque a chi devo ricorrere? E quel Don Pietrantonio, al quale ho gittato un lampi di questa mia deficienza di fondi, e che ha riso come se io avessi scherzato!

   Ma, corpo di Satanna! Farei cose che non ho fatto mai in vita mia!

   Ho gittato i sei carlinelli a dritta e a manca: tutto si addossa sulle mie spalle! Lo sposo adunque rappresenta una macchina che caccia danaro! Ho dovuto fare un diluvio di piccole spese, che io non prevedea e che non avrei potuto giammai prevedere.

   Sono andato a trovar Vincenzina, la quale mi ha fatto rabbia colla sua allegria! Star allegra quando io sto su tutte le furie, e avere l’impertinenza di domandarmene il motivo! Come queste donne non s’incaricano affatto delle miserie umane, e pensano soltanto a divertirsi!

   Mi sento stordito, confuso, non capisco niente; il capo mi gira in un modo! Tutti mi dicono delle insipidezze, delle impertinenze, non ho appetito; mi sento acceso da capo a piedi. Oh mio Dio, avessi mai la febbre!

   E quando penso che da qui a qualche giorno scade la mia obbligazione con Don Ciccio!

   E hanno il coraggio di dire che questo è il più bel giorno della vita! Lo auguro a tutti i miei nemici capitali.

   (Pubblicato il 6 febbraio 1856)