Io vorrei propriamente sapere a che ci avrebbe giovato la portentosa civiltà nostra col solito corredo d’invenzioni e scoperte, col solito vapore per terra e per mare, col solito telegrafo-elettrico e illuminazione a gas, se non avessimo guadagnato un tantinello di più di buon senso su i rispettabili parrucconi che ci hanno preceduto sul proscenio del mondo su cui al presente stiamo rappresentando la nostra commedia, per dar luogo a quella che rappresenteranno i nostri figli e nipoti. Or dunque s’egli è vero che abbiamo guadagnato due dramme di buon senso di più, sarebbe ormai tempo di dare il bando a certe cose che sanno di muffoso, di rancido, di puzzolente, di vecchiume, di ridicolo e tra queste cose stantie e putrefatte mettiamo l’AMORE.
Si, signori, il secolo decimo nono, giunto ad oltre il mezzo del cammino della sua vita, ha ben altro pel capo che l’amore, ha ben altri negozi per le mani che questo marmottino scimunito e ragazzo imbecille. Noi gli abbiamo rotto l’arco, spezzata la faretra, strappata la benda; gli abbiam dato un calcio solennissimo, e lo abbiamo mandato a trovare i codini e i guardinfanti. Addio serenate, addio bigliettini galanti, addio mezz’ore, addio parlate a papà: il regno d’amore è finito.
E dopo ciò, possiamo tollerare che somigliante anacronismo duri tuttavia ne’ drammi, nelle commedie e soprattutto ne’ melodrammi? Vergogna questa che dovrebbe far arrossare la nostra fronte se da molto tempo anche il rossore non fosse uscito di moda.
Noi dunque gridiamo con tutte le forze de’ nostri polmoni che si desse per sempre il bando dalle scene a questa inettezza. Si gitti alle fiamme tutto il vecchio repertorio teatrale di musica e di prosa; e si trovi una passione più nobile, più dignitosa, più degna dell’epoca nostra. Proponiamo un premio per chi troverà la passione che possa supplire al decrepito amore negl’intrighi teatrali.
È cosa davvero sconcia e ridevole il vedere nel teatro lirico il tenore destinato a far sempre lo spasimante appresso al soprano e coniugar sempre su tutt’i tuoni il verbo amare. Che interesse può ispirarvi un duetto tra tenore e soprano quando voi sapete anticipatamente che si tratta delle solite moine tra due amanti? E se è un terzetto col baritono, sapete che è il solito rivale che vuol soddisfazione dal tenore, o il solito padre che si adira perché il tenore fa l’amore con sua figlia, mentre tra lui e lei ci è quel solito odiuccio di trenta generazioni. In somma, spremete il sugo d’un libretto per musica, e troverete sempre più o meno il tenore amante del soprano figlia del basso, odio di famiglie e pettegolerie di questo genere.
Non sarebbe più dignitoso, più bello, più interessante che il tenore rappresentasse, per esempio, la parte di qualche principetto in deficit, che ricorresse per denaro ad uno scicco usuraio (il baritono) il quale chiedesse, per esempio, il soprano, moglie o sorella del tenore? Questo sarebbe un soggetto assai più analogo alla felice epoca nostra, e che mirabilmente si presterebbe a’ più graziosi episodi.
Ma sia questo, sia altro il perno su cui dovrebbe aggirarsi l’azione del melodramma, sarebbe sempre preferibile alla noiosa, intollerabile, puerile e ridicola faccenda dell’ amore, che ormai non esiste nel cuor de’ collegiali in vacanze.
Francesco Mastriani
Fu pubblicato sul giornale Il Palazzo di Cristallo il 27 novembre 1855