COMMENTI

   Questo romanzo è considerato da Mastriani di genere storico. Infatti, il protagonista, il marchese don Gaudenzio Cappellieri era discendente diretto di don Ippolito Cappellieri che era stato cameriere di cappa e di spada del pontefice Gregorio XIII che fu papa dal 13 maggio 1572 alla morte.

   La trama del romanzo è abbastanza semplice, due storie d’amore abbastanza contrastate che si risolvono in maniera felice. Storie contornate dai tentativi gesuitici di impossessarsi della vistosa eredità dei Cappellieri. Romanzo che si può considerare di genere narrativo, ma anche in alcuni casi descrittivo.

   L’unico momento in cui la narrazione devia dalla vicenda privata per agganciarsi al contesto storico è costituito da una digressione sulla Compagnia di Gesù che nel tempo in cui la trama è ambientata sta per essere soppressa ( L’ordine fu soppresso da papa Clemente XIV nel 1773 e ricostituito da papa Pio VII nel 1814). Nel quarto capitolo del primo volume l’autore fornisce informazioni in merito ai commerci e agli interessi economici della Compagnia sia in Europa che in Paraguay, dove era presente con trenta missioni[1]

   Sempre in questo capitolo vi sono altre notizie della Compagnia di Gesù di Santo Ignazio Loyola: Una volta la Compagnia di Gesù era arcipossente: i papi, gl’imperatori, i re erano creati e sbalzati da’figliuoli di Loyola nelle cui reti avvolgeasi il mondo. Oggi la setta comincia a dileguarsi dinanzi alla luce del progresso che abbatte i vecchi edifici e le fondamenta di ogni abusivo potere .[2]

   Nel capitolo undicesimo viene citata l’alchimia, che è una scienza empirica del passato spesso a carattere magico, e che in questo romanzo trova in un medico tedesco bavarese, un suo seguace. Si legge appo gli Arabi l’alchimia giunse fino alla presunzione di rifare il mondo daccapo, dove un celeste cataclisma o la collera di Dio il trabalzasse nel caosse o nel niente.[3]

   Quasi tutte le protagoniste del romanzo sono donne, e a tal riguardo l’autore ne traccia un quadro molto realistico quando descrive i maltrattamenti che le donne subiscono dagli uomini. Nel capitolo quinto si legge È questa una delle più mostruose ingiustizie fra le tante che commettono i signori uomini contro il sesso gentile; anzi, è più che una ingiustizia, è una ribellione al divino volere, è un oltraggio alla provvidenza, ed è un disprezzo verso la più bella creatura di Dio, qual si è la donna. Noi teniamo per fermo che nel paragone valga più, nell’ordine del bene, una donna che dieci uomini, e nel mondo si farebbero meno spropositi se ci fossero tre quarti di donna e solo un quarto di uomini.[4]

   Un pensiero anche alle donne che non riescono a trovare marito, le zitellone, nel capitolo dodicesimo Suole avvenire che in quelle famiglie in cui sono varie donne da marito, qualora le più anziane siano rimaste nubili per motivi indipendenti dalla loro volontà, diventano queste zitellone tiranne di quelle tra le suore che ancora per la loro età e la loro bellezza non hanno perduta la speranza di maritarsi.[5]

   Questo pensiero di Mastriani lo troviamo in altri suoi romanzi.

   Interessante l’accostamento che la studiosa Chiara Coppin fa di suor Genoveffa con il celebre personaggio della monaca di Monza: In primo luogo, come il personaggio manzoniano, sin dalla tenera età era stata destinata al chiostro per volere dei genitori; come nei Promessi sposi il nome di Geltrude, nelle intenzioni di suo padre, doveva richiamare immediatamente l’idea del chiostro e la nobiltà della Santa a cui era appartenuta, così nel romanzo di Mastriani la scelta del nome claustrale di Clotilde, suor Genoveffa sembra avere funzioni simili. [6]

  Ritroviamo spesso Alessandro Manzoni e i suoi Promessi sposi nei lavori letterari di Mastriani. Nella sua prefazione alle edizioni di Gennaro Salvati dei suoi romanzi, egli scrisse: Si è fatto di me vivente ancora quello strazio che fu fatto del Manzoni e del Guerrazzi passati a miglior vita. Meno male che questi illustri italiani non lasciarono molti volumi alla famelica e vandalica speculazione libraia! [7]

   Nel suo romanzo più famoso, La cieca di Sorrento, cita invece il romanzo dello scrittore milanese: Il libro, in sulla cui lettura era tutta intenta Geltrude e che tanto chiamar area l’attenzione di Beatrice, era il famoso romanzo di Manzoni: I promessi sposi. Quella storia così semplice e cara, quelle angosce di due vergini anime che si amano ed a cui la prepotenza e la malvagità fanno aspra guerra, commovevano oltremodo il cuor della fanciulla,[8]

                       ROSARIO MASTRIANI

[1] Chiara Coppin, I romanzi storici di Francesco Mastriani, Napoli, Edizioni Sinestesie, 2018

[2] Francesco Mastriani, Homuncolo o i gesuiti e il testamento, Napoli, G. Regina, 1878, cap.IV, p.46

[3] Ibidem, cap. XI. p.21

[4] Ibidem, cap.V. p.59

[5] Ibidem, cap.XII, p.29

[6] Chiara Coppin, I romanzi storici di Francesco Mastriani, Napoli, Edizioni Sinestesie, 2018

[7] Francesco Mastriani, Sotto altro cielo, Napoli, Stab. Tip. Gennaro Salvati, senza anno forse 1892

[8] Francesco Mastriani, La cieca di Sorrento, Napoli, Tipografia dell’Omnibus, 1851. Parte Terza, cap.II. p.91

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   Consideriamo ora la figura del gesuita, che in Mastriani ha sempre qualcosa di sinistro. Il gesuita è per lui una metafora bell’e pronta per ogni prete immorale, turpe, falso, ipocrita e, soprattutto, avido di ricchezze ereditarie. È un personaggio standardizzato che ricompare con leggere varianti in parecchi romanzi. Qui di seguito lo vedremo all’opera in tre romanzi, ovvero in Homuncolo o I gesuiti e il testamento, in Caterina la pettinatrice di via Carbonara e in L’occhio del morto. In maniera distesa si discute soltanto del primo romanzo; degli altri due ci si limita a mettere in evidenza la funzionalità narrativa della figura stereotipata del gesuita.

“Homuncolo”, che è quanto dire “feto” o “infante”[1], si riferisce, nel romanzo omonimo, al legittimo ultimo rampollo della nobile e ricchissima famiglia Cappellieri. La sua venuta al mondo da un ventre ritenuto sterile mette scompiglio nel disegno gesuitico di appropriarsi dell’eredità. Il romanzo esce la prima volta a puntate sul quotidiano Roma fra febbraio e marzo del 1877, con il titolo Homuncolo. Cronaca napolitana del sec. XVII (ma XVIII). In volume, l’anno dopo “per í tipi” di Gabriele Regina, presenta un titolo leggermente diverso: sparita la “cronaca” vi compaiono “I gesuiti” e “il testamento” con tanto di precisazione di genere, “romanzo storico”, cioè: Homuncolo o I gesuiti e il testamento. Romanzo storico (Napoli, Regina, 1878).

I fatti narrati nel romanzo, che si riferiscono all’anno 1759, ruotano intorno a un vecchio testamento olografo del capostipite della famiglia Cappellieri, Ippolito, del 1574. In questo documento si dice che l’immenso patrimonio dei Cappellieri passerà ai gesuiti se fra i discendenti di Ippolito mancherà un erede maschio [2]. E proprio questa sembra essere la situazione, cioè l’assenza dì un erede maschio, ora che Don Gaudenzio, sessantenne, vedovo con una figlia diciassettenne (Virginia) ha sposato una donna non ancora trentenne (Balbina) irrimediabilmente sterile. La situazione stimola l’attenzione degli avidi gesuiti che, attraverso il bellissimo, fatuo e perfido Padre Luigi, ex “curato” delle missioni del Paraguay, vogliono assolutamente assicurarsi l’eredità come da antico testamento olografo. I gesuiti sono aiutati nel loro disegno da Don Policarpio, intimo di casa Cappellieri e da Donna Scolastica, zitella cinquantenne, acida, invidiosa, bigotta e crudele, che vuole assolutamente chiudere in convento la bella Virginia, figlia di Don Gaudenzio. Questi si è da tanto estraniato dal destino della figlia che ha avuto l’insopportabile difetto di nascere femmina e quindi inabile a raccogliere la sua eredità. Le due sorelle di Donna Scolastica non destano preoccupazioni gesuitiche perché una, Donna Clotilde, bella e saggia 40enne, è monaca (Suor Genoveffa nel monastero della Visitazione), mentre l’altra, Ippolita, 30enne, riconosciuta tisica e inabile a procreare.

Entra in scena dottor Johan di Baviera, 35-40enne “medico-alchimista”. Questi cura e salva Ippolita. Se ne innamora e con lei genera Homuncolo, il futuro erede Cappellieri. Nel frattempo Virginia, innamorata dell’operaio Luciano Ricci, è salvata dal chiostro prima dalla zia Ippolita e poi dalla zia Clotilde/Suor Genoveffa. Quest’ultima, si scopre nei risvolti della storia sempre più chiaramente, è la madre naturale di Luciano Ricci, concepito insieme al governatore del monastero Oliviero Cortal. Luciano dunque si e innamorato della cugina ed è il primo erede del patrimonio della famiglia Cappellieri. Non un solo erede maschio, ma due bloccano “la trappola” tesa dai gesuiti che restano quindi beffati. Dopo la morte di Don Gaudenzio, per colpo apoplettico, Luciano dichiara che condividerà amichevolmente il patrimonio con il cugino Homuncolo, con felicità di tutta la famiglia.

Dicevo sopra che per quel che riguarda la storia della Compagnia di Gesù prima della soppressione dell’ordine, Mastriani conosce poco o niente, ma meglio sarebbe dire che ha letto e si è fidato di quanto c’è di più fazioso sull’argomento. Nessuna sorpresa, del resto, a trent’anni dalla pubblicazione del Gesuita moderno di Gioberti. Quale che sia la fonte (o siano le fonti), nel romanzo Homuncolo Mastriani si inventa un personaggio, un sacerdote gesuita, del tutto improbabile (il Don Giacinto incontrato sopra, damerino dalle mani bianche) che dimostra chiaramente quanto fantasiosa fosse la sua conoscenza dei primi gesuiti, come ancora meglio si vedrà più sotto dall’analisi di alcuni brani del romanzo.

Il quarto capitolo del primo volume del romanzo presenta il ritratto di Padre Giacinto della Compagnia di Gesù, «confessore di quasi tutta la famiglia Cappellieri» [3]. Comprendiamo già che nascerà da quel “quasi” l’escamotage che risolverà l’intreccio. Dopo aver a lungo discusso dell’ infingardaggine secolare dei gesuiti nel procacciarsi patrimoni ereditari nobiliari, nel presentare il personaggio di Don Giacinto, subdolo, giovanissimo prete della Compagnia di Gesù cui è delegato l’ultimo atto per l’acquisizione dell’eredità Cappellieri, Mastriani si lancia in una lunga digressione “storica” sulle missioni del Paraguay. Inizia mettendo le mani in avanti, quasi a parare una possibile critica di superficialità, dicendo che si parlerà dei gesuiti, ma restando nell’area perimetrale del romanzo: «Dopo tutto ciò che si è scritto da oltre un secolo sulla Compagnia di Gesù, noi ci terremo paghi di non dilungarci dal fatto nostro, senza caricare le tinte, come, ad onor del vero, è costumanza oggidì nel parlare del clero» [4]. Delle missioni del Paraguay, sembra dirci, “è costretto” a parlarci per via di Don Giacinto, curato, appunto, di una di quelle trenta missioni [5]. E a proposito della “costumanza di oggidì”, da cui lo scrittore prende le distanze, in effetti egli parla di un altro prete, Padre Giacomo (non gesuita), di cui loda la devozione sincera e la bontà. Il problema quindi non è il clero, ma l’ordine, anzi la “setta”, di Sant’Ignazio:

Noi rispettiamo il prete, e l’onoriamo quando adempie con coscienza al suo divino ministerio; gli siamo avversi quando egli è settario; giacché le sette, a qualunque principio obbediscano, e sia qualsivoglia il loro obbiettivo, ci furono sempre altamente antipatiche, imperciocché nelle sette v’è sempre qualche cosa di tenebroso che noi detestiamo. È d’uopo aver sempre il coraggio della propria opinione ed a fronte aperta svelarla e professarla. Ora il gesuita è settario. [6]

Questo termine, “settario”, è particolarmente gravido di sinistri significati per Mastriani. Lo ritroveremo l’anno dopo in un brano autoreferenziale di grande intensità, nell’introduzione dei Drammi di Napoli (1878), un’opera rarissima e importante di cui sarebbe il caso di approntare un’edizione moderna commentata. Mastriani discute lì della propria sfortuna critica pur con un travolgente e duraturo successo popolare. Gli sì nega di essere stato il primo scrittore verista e gli sì antepone Dalbono [7] per “napoletanità”. La ragione, conclude, è che «nelle lettere c’è il settariismo».[8] Ma vediamo la citazione per intero. È un brano straordinario, che invita a riflettere non solo sulla posizione di Mastriani nell’ambito della cultura napoletana, ma sul giudizio di chi ha dettato legge nella definizione del canone della letteratura italiana.

I Drammi di Napoli formano parte di quella serie di miei lavori che hanno per iscopo lo STUDIO DEL VERO in tutte le classi della nostra società. E qui mi sia concesso il dire qualche cosa di me. Evvi una malintesa modestia o timidezza; e questa e quella che ci fa restii a far valere i nostri dritti. Un pubblicista napolitano, il cui nome è assai chiaro nelle lettere, disse che il romanziero francese Emilio Zola ha creato pel primo quella scuola che dicesi del realismo o del vero. Questo pubblicista o si mostra ignorante delle patrie cose, e questo è imperdonabile in chi si occupa di critica letteraria, o è di mala fede e questa è cattiveria che disconviene a chi per la coltura della mente debbe avere ingentilito il cuore, od è invidioso della fama de’ propri concittadini, e questa è vergognosa codardia.

Come si può avere il coraggio di dire che il Zola è stato il primo a creare la scuola del realismo nel romanzo, quando io, Francesco Mastriani, apersi nel romanzo questa arditissima scuola co’ miei Vermi, colle mie Ombre, co’ miei Misteri di Napoli? Non ispetta a me certamente il giudicare delle opere mie; ma parmi ch’io mi abbia il dritto di levare alta la voce contro una insinuazione che puzza d’ingiustizia a un miglio in distanza. Che il Petruccelli della Gattina chiama platitudes i miei romanzi; che un giornale di Napoli con ispuderatezza senza pari togliesse il mio nome tra i novellieri moderni; che il De Sanctis dica che il Dalbono è il più napolitano tra gli scrittori Napolitani, dopo che il Mastriani ha scritto finora CINQUANTA romanzi, tutti intesi a svolgere la virtù ed i vizi, l’indole e i costumi del popolo dì Napoli; di tutto ciò non mi sono fatto mai le meraviglie e nè mi sono doluto giammai, perocchè so che anche nelle lettere ci è il settariismo, per non dire altra parola, e so, d’altra parte, che anche quelli che si vantano di grande amor patrio non possono svezzarsi dal feticismo delle cose straniere. Ma che sì voglia tormi anche quel merito, che pure mi attirò su le prime il Crucifigatur dai Farisei della letteratura, è sì villana cosa che il tacerla mi fa male al cuore. Ho tanto e poi tanto taciuto per carità cittadina! [9]

Mastriani ce l’ha soprattutto con Francesco De Sanctis, già ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia che inneggia al “primato” degli odiatissimi francesi e di quel Zola, in particolare, che vent’anni dopo I vermi è diventato il padre del Verismo [10] . E qual è, viene da chiedersi infine, la “setta” di De Sanctis? Non credo possano sussistere dubbi, è la setta dei pipistrelli [11], è la massoneria. I gesuiti, dunque, sono come i massoni. E tanto basta, e avanza, nella mente dello scrittore, per condannarli.

                                                                                              FRANCESCO GUARDIANI

 

[1] “Homuncolo”, nel titolo con tanto di “h” etimologica, sembra alludere anche al «nome dato dagli alchimisti a un essere fittizio» e al «minuscolo individuo che sarebbe già presente nell’uovo o nello spermatozoo ancor prima della fecondazione» (cfr. alla voce Omuncolo, in Treccani.it treccani.it/ vocabolario/omuncolo/).

[2] Precisamente così: «In mancanza di erede maschio di sesso maschile, l’eredità sarebbe toccata al primo figlio maschio di una delle discendenti […] E qualora nella discendenza fossero mancati eredi maschi, la eredità Cappellieri sarebbe passata nel godimento della Compagnia di Gesù» – FRANCESCO MASTRIANI, Homuncolo o i Gesuiti e il testamento. Romanzo storico, I-II (volumi con numerazione indipendente), Napoli, Regina, 1878, I, p. 25.

[3] Ivi, I, P. 45

[4] ibid

[5] In effetti, al massimo del suo splendore, dopo oltre un secolo di storia comunitaria, la provincia gesuitica di Paracuaria, un ampio territorio oggi diviso fra Argentina, Brasile e Paraguay, contava trenta “riduzioni” con un totale di circa 150.000 abitanti. Mi è stato impossibile identificare la fonte, su questo ben informata, di Mastriani nel mare magnum della letteratura gesuitica dell’Ottocento.

[6] MASTRIANI, Homuncolo, cit., I, p. 25.

[7] Non sì capisce se si tratta di Cesare Dalbono o del fratello Carlo Tito. Probabilmente si tratta del primo, che De Sanctis (suo d caustico giudizio, vd. citazione successiva) ebbe come compagno di scuola dal maestro Basilio Puoti.

[8] FRANCESCO MASTRIANI, Fatum o I drammi di Napoli, 1-III, Napoli, Regina, l 878, p. XI.

[9] Ivi, pp. X-XI

[10] Ecco Mastriani, sullo stesso argomento, in una delle ultime sue scritture, ovvero nella prefazione alla riedizione di Sotto altro cielo (Napoli, Salvati, s.a. [ma 1892]): «Cominciai, dopo il 60, a scrivere il romanzo sociale. Scrissi i Vermi, le Ombre, I Misteri di Napoli, I Figli del lusso. Che ne dica qualche nostro criticuzzo infranciosato, nessuno può contrastarmi la priorità in Italia in quel genere che oggidì si domanda verismo. Ma non voglio entrare a discutere delle cose mie, non essendomi proposto, in questa prefazioncella, che rilevare le ragioni della presente novella edizione che conterrà tutti i miei scritti» (ivi, p. XIII). In una nota a piè di pagina nella Rediviva (1877), Mastriani aveva scritto, senza fare nomi, una frase altrettanto risentita nei confronti dei critici assenti o “smemorati”: «Se Dio mi concederà agio e salute da scrivere le mie Memorie dirò cose della mia vita che parranno il più meraviglioso romanzo ch’io abbia mai scritto. Nessuno scrittore in Italia fu più operoso di me; come nissuno ebbe a lottare con più costante avversità di fortuna. Se la simpatia de’ miei concittadini fu largo compenso penso alle mie sudate fatiche, non fu pertanto meno penoso il calvario, in cui mi lasciarono quelli che aveano l’obbligo di ricordarsi di me» (Id., La rediviva, Napoli, Regina, III, p. 27).

[11] Prendo dalla sotto riportata conclusione della prefazione di Sotto altro cielo (Napoli, Salvati, 1892) la metafora dei pipistrelli, sicuro di non allontanarmi, dalla intenzione dello scrittore: «Ultimamente, protestandomi graditissimo a tutti quei gentili che con parole di lode e con ogni altra maniera di amorevoli conforti mi sostennero nella mia lunga e spinosa carriera, dichiaro che mi giovai della critica onesta e coscienziosa, ma sprezzai e sprezzerò sempre le maligne insinuazioni degl’imberbi criticuzzi e le morsicature di quei pipistrelli a cui la luce del vero offende la cita» (ivi, p.XVI).