DEDICHE

AL

MIO AMATISSIMO FRATELLO

GIUSEPPE

Sono molti anni dacchè l’industrioso operaio è succeduto nel paese nostro al lazzaro, il cui tipo si è perduto nella progredita civiltà dei nostri costumi. Pur, quanti torti giudizi, quante calunniose amenità dello straniero su questa classe del nostro popolo, che ebbe in ogni tempo i suoi splendori e le sue miserie, e le glorie in maggior numero delle infamie!

   In questo mio libro mi propongo di dipingere al vero l’indole, i gusti, le tendenze, i costumi, il naturale insomma dei nostri popolani e tesserne sommariamente la storia civile e domestica pel volgersi dei secoli, e seguirli fino alla loro compiuta trasformazione avvenuta ai nostri tempi. Mostrare quale virtù civili si sarebbero sviluppate nei nostri lazzari, ove l’opera della secolare tirannide non ne avesse snaturati i germi, sarà benanco lo scopo dell’opera mia.

   A te, amatissimo fratello, dedico nuovamente questo mio lavoro (siccome feci nella prima edizione pe’tipi del Gargiulo), a testimonianza di affetto e di sincera stima pel severo culto della verità e della ragione da te serbato in tempi difficili e perversi, in cui la simulazione e l’ipocrisia sono, per così dire, levate al posto di civili virtù.

   A te, che fosti sempre propugnatore del giusto e dell’onesto contro l’illegalità e l’arbitrio; che nutristi sempre principii sentimenti democratici anche quando il dispotismo andava a ricercare il pensiero nelle latebre del cervello; a te dedico questo mio lavoro, parendomi che i sacri affetti di famiglia consacrino un libro meglio che le cortigianie ai potenti ed ai ricchi.

   Vivi felice

       Napoli, 26 agosto 1873

                                                                                                                                                                                                                                                                   F.M.

 

 

 

   MIO DILETTISSIMO FRATELLO

Io ti ringrazio sinceramente di questa nuova testimonianza alla nostra fraterna affezione; la quale accetto assai volentieri, e te ne so grado infinito. Per essa dimostri come le opere dello ingegno acquistino maggior valore dallo affetto e come il medesimo si disordini facilmente, quando non è dalla famiglia santificato.

Assai mi compiaccio del tema che in questo tuo lavoro hai preso a trattare. I nostri legislatori (e se dico antichi e moderni, non isbaglio), i quali parlano sempre di popolo, non si danno alcun pensiero della plebe e dei miserabili. Tutto si fa per un cert’ordine di persone, e per l’infimo ceto, nulla. Se ti fai oggi a volgere uno sguardo alle scuole popolari, dovrai senz’altro maravigliarti domandando: e dov’è quella gente misera, che ha di educazione e d’istruzione tanto supremo ed urgente bisogno? Che se ti ponessi ad indagare di sì rea trascuraggine la cagione, ti si dovrebbe commuovere il cuore di sdegno ad un tempo e di pietà: né so che cosa pensar potresti della libertà.

Bene tu dunque adoperi, il quale togli a dipingere l’indole, i gusti, le tendenze e i costumi dei nostri popolani, tessendone la storia fino alla loro compiuta trasformazione, che dici avvenuta nei nostri giorni, e che veramente io non iscorgo per anco in tutto compiuta. La buona accoglienza che si fa alle tue scritture e gli attrattivi del tuo stile potranno per avventure far quello che lavori più gravi e meno letti più fruttuosamente ma con istento maggiore conseguono.

Quanto a me, vorrei dirti pure una parola intorno al culto della verità e della ragione e ai frutti, spesso amari ma talvolta dolcissimi, che ne colsi. Ma, non potendo ciò fare negli stretti confini in cui debbo contenermi, lascio stare, persuaso altresì che ormai l’è tempo che i lettori passino alla lettura del romanzo. E così Dio ti conservi e ti prosperi.

GIUSEPPE MASTRIANI