Filippo Mastriani

Filippo Mastriani (1)

                                               Requies de labore

                                                                       GIOB.

 

   Ancora echeggia il suono degli ultimi soffocati lamenti del buon vecchio; ancora è presente al mio sguardo esterrefatto la espressione di quegli occhi, in cui tutta erasi raccolta la vita. L’alba del 21 aprile (1842) sorgeva estrema per nostro padre; ma essa schiudeva all’anima di lui un’aurora quasi simile a quella di cui vestissi il Figliuolo dell’Uomo sul monte alla presenza degli Apostoli, che caddero per troppa luce – Fratelli miei, e voi tutti suoi congiunti, nipoti ed amici, cessate il pianto, l’ora della sua sofferenza è passata: io ho veduto sulla sua fronte agghiacciata dalla morte levarsi caratteri misteriosi, che ne hanno spianato le rughe della vecchiezza, e le tracce dell’ ultima infermità, e la sua fisionomia è tornata serena e fresca come quando bambino addormentassi la prima volta tra le braccia della madre. Oh, sì, rallegratevi meco. E gioite; i suoi anni sono stati numerati nel libro della divina Giustizia come anni di espiazione, e la sua anima è rimasta innanzi a Dio pura di macchie, come la sua memoria innanzi al giudizio più severo degli uomini. Io l’ho veduto (ed i miei occhi erano aperti, ed io vegliava vicino al suo cadavere), io l’ho veduto sorridere di un sorriso che gli errava sulle labbra senza muoverle, come se l’aura sottile di un incenso gli avesse baciato la tempia di argento. Oh me in quel momento io tremava di un’ emozione indicibile, che gettava un torrente di gioia in mezzo al mio duolo! Oh come il mondo e le sue larve mi caddero dal cuore! Che vengano di presente i nostri filosofi a dirmi essere l’immortalità dell’anima una speranza come tutte le altre del cuore umano, vuota di realtà. Io direi loro, contemplate il cadavere di vostro padre.

   Non è la storia di sua vita ch’io voglio riandare; troppo lungo ed arduo assunto imprenderei, ned essa tornar potrebbe di sollievo alla piaga mortale che lasciata ha ne’nostri cuori una tanta sciagura, dappoichè se la sua vita fu spesa tutta in sacrificio a’ miseri, non però ne cols’egli sulla terra nettare e rose. Tiriam, laonde, un velo su quanto soffrì il suo cuore di patriarca, chè l’anima di un figliuolo non regge a’ricordi de’triboli onde fu travagliato il genitore; no, mio divisamento non è quello di richiamar alle vostre menti quante spine raccolse nel cammino di questa valle, quell’ uomo giusto degli antichi tempi; e, d’altra parte, di che prò ci sarebbe questa memoria? Non sappiamo noi tutti che la sciagura è gemella della virtù?  volgiam piuttosto il nostro pensiero a cose più consolanti; rimembriamo le immense opere di carità da lui fatte; quelle almeno che sono a nostra conoscenza, e che il dabben uomo non poteva nascondere alla nostra venerazione; ed oh in qual pelago di care ricordanze andrei a slanciarmi! Più facile è il numerare le ore di sua vita, che i benefizî da lui a larga mano versati su i bisognosi. Ma la sua beneficenza non era quella del ricco, che getta il superfluo sulle teste de’primi intriganti che lo circondano e l’adulano; egli sapea scavar nel buio la miseria disperata, la vergognosa infermità, la timida fame, e su queste figlie dell’uomo spargeva il balsamo dell’umana pietà. Né il superfluo egli prodigava per gl’infelici, che anzi quell’accesissimo desio del ben fare sollevandolo all’eroismo della carità, l’uomo pietoso togliev’al sonno le ore sacre al riposo, per risarcire con la fatica i danni che soffriva la fortuna della famiglia, cui tenne mai sempre agiata e felice. E queste mie parole tenersi non debbono come dettate per isfogo di amor filiale, perocchè bella testimonianza han fatto della sua beneficenza e probità i moltissimi maestri d’opera e lavoranti, che alla nuova di sua morte son venuti a piangere sul suo cadavere, il quale in luttuose vesti hanno poscia scortato fino al luogo dell’ultimo asilo, insino al Campo-Santo, alla cui opera egli assisteva come Ingegnere di dettaglio.

   Vero Cristiano egli era. La parola del Cristo era la norma intima del viver suo; né ippocrita mostra egli faceva di atti religiosi. Toccato dalla divina grazia, ortodosso senza fanatismo, il Vangelo adorava e la Chiesa, non come la turba di taluni cristiani mossi da infantile abitudine, ma come si adora bensì il dettame di COLUI, il nome del quale pronunziato in terra, sveglia un’osanna di gloria nel regno degli Angioli. Epperò la Bibbia era la sola Storia del cuore, su cui continuamente, nelle ore di tregua de’suoi lavori, volgeva le stanche ma avide pupille – In quanto poi a profane storie ei prendeva singolar diletto nello svolgere quella di Napoleone; che di mente quadra e matematica come l’Eroe de’nostri tempi, egli deliziavasi ad unire i fatti dell’antica saggezza a quelli della moderna portentosa civiltà.

   Tenerissimo figliuolo egli era – E di questo, fratelli miei, quale prova darvi potrei, che voi meglio di me non sappiate? L’amore immenso ch’egli portava alla madre sua, era tale che giunto era fino al dolce fanatismo di crederla donna destinata ad aumentare il novero delle sante. E chi di voi non sa la fede ch’egli aveva nel sacchetto delle Sacre immagini datogli dalla madre? – Oh ben ricordo il giorno tremendo in cui la nostra carissima genitrice tolta venne al nostro amore ed al suo! Ancora suonami all’orecchio la parola straziante ch’egli disse quando caduto per caso a terra il detto sacchetto, ch’egli aveva sospeso al capezzale della inferma consorte, affinchè l’anima della madre implorato le avesse da Dio la grazia della mondana salute, il misero vecchio muto immobile, e quasi stupido pel dolore, disse, in veder caduto quel da lui tenuto quasi reliquiario, ho perduto la mia Teresa, e con una lagrima scottante in sul ciglio, la fronte baciò di quella infelice la quale periva di cholera, fra le braccia del marito.

  Fratello esemplare egli era: interrogate su questo i suoi nipoti, che tanto amaramente alla sua morte mischiato hanno con noi le lagrime di profondo e vero dolore; interrogate sul rispetto e sulla divozion e de’loro zii; interrogateli sul rispetto e sulla divozione de’loro zii; interrogateli sugl’immensi sacrifizi da lui fatti a prò de’fratelli, sulle avversità divise nonché le gioie, sul rammarico delle partenze e sul giubilo de’ritorni!

   Ma l’esempio d’un amore profondo e tale che degno è di passare alla memoria de’ più tardi nostri nipoti, è l’amore onde compreso egli era per la moglie. Quella chimera da romanzo, quel sogno da poetica fantasia, l’amore insomma in tutta l’ abnegazione della individual felicità, in tutta la espansione di un’anima temperata alle fiamme della cristiana carità, dove a verificarsi in lui verso la moglie – Uomini del nostro secolo, voi che avete innalzato un trono all’egoismo e ne avete fatto il sovrano de’vostri cuori, questi esempi di profondo ed eterno amore parranno a voi paradossi, o favole da solitarie fanciulle; epperò non a voi scettici d’ogni sentimento dirigo le mie parole, bensì a’miei fratelli, e a tutti coloro per i quali la storia di mio padre è stata un episodio della loro – Né quella buona ancella del Signore men caldamente rispondeva agli affetti del marito; chè anzi ella fu sottomessa e docile senza bassezza, diligente e provvida pel bene de’figliuoli: entrambi non aveano che un pensiero, un desiderio, una vita. Non mai alterco di sort’alcuna ad intorbitar veniva le ore delle loro cordiali e domestiche confidenze; non mai quel fantasma dalle forme di gelo e dal cuore di fuoco, la gelosia, a roder si faceva quei petti in cui riposava con abbandono la certezza di esser amato. E la morte della moglie fu la morte di quell’uomo che tanto amavala: perocchè se pochi altri anni egli visse, furono questi anni di continua morte, anni di lagrime e di malinconia (2) .

   Dal giorno nel quale orbi rimanemmo, egli della sposa, noi della madre, il fantasma della morte si posò scarno ed agghiacciato sulla fronte del povero vecchio; pensieri scuri come le viscere della terra si addensavano in quel capo, attraverso le distrazioni della più angosciosa esistenza. Di notte in ispezialità egli nudriva con la tacita elegia dell’anima, la immagine di un cadavere, ed era quello della moglie. Al chiaror della fosca candela, seduto al suo eterno scrittoio, con le braccia penzoloni sulle ginocchia, (in que’momenti in cui riprendeva lena del continuo lavoro) e l’occhio fisso a terra, quell’infelice, cui la morte tolto avea la parte più cara del cuore, scioglieva il freno de’suoi affetti verso l’ombra della moglie, e l’abbracciava e la baciava, e tutta in questa tenerezza illusoria consumava l’energia di sua vita. In quei solenni momenti l’uomo di sessant’anni tornava giovine di cuore per abbandonarsi a tutta la calda fissazione di una larva adorata. Chi sa quante notturne lagrime ha bevuto la tavola di quello scrittoio, su cui di giorno egli poggiava la mano vacillante per procurare il pane de’figliuoli! (3) – Chi sa quanti misteri di affetti sono passati tra quelle mura testimoni di giorni più felici. Mentre il sonno duro e nutritivo della spensierata giovinezza pesava sulle nostre palpebre stanche da’piaceri del giorno, un uomo solitario tra mucchi di carte scritte col sudore della fronte, faticava pe’figli. E piangeva per la moglie.

   O fratelli miei, e quest’uomo che tanto ci amava, questo padre, noi più non l’abbiamo!! Poca terra da lui mille volte visitata e baciata in vita, perché la terra ove la sua diletta Consorte dorme il sonno de’giusti, poca terra ha raccolte le sue ceneri accanto a quelle della moglie! Una stessa zolla ricopre i loro corpi; ed il tempo, questa misura della vita, passerà su di essi veloce al pari di un’aura fino al giorno dell’estremo Giudizio.

   Se qualche cosa nell’amarissimo duolo che pesa su i nostri petti può consolarci, è il pensiero che un legame eterno e indissolubile stringe sotto l’ala del Signore quelle due anime, neofite della celeste Beatitudine, le quali implorano la mondana felicità su noi che orfani ed infelici sapremo con le virtù, il cui germe eglino posero ne’nostri cuori, e col vicendevole amore che ci unirà, lasciare il nome di Filippo, del padre nostro, benedetto ne’figliuoli, e lagrimato su i registri della morte.

   Poche altre parole.

   Era bello di corpo e di volto: la sua fronte ampia e sincera rivelava la giustezza e la profondità della sua mente, come la soavità de’suoi occhi ben chiara dimostrava la estrema sensibilità del suo cuore. Per noi non serve (che abbiamo scolpita nella mente e nel cuore i pregi dell’animo e la corporale figura dell’amato defunto) ma chi volesse farsi dell’ultima una idea  assai prossima al vero, vegga le figure di Napoleone nella Storia del Grand’uomo, edizione di Torino presso Fontana, nel 1839, alle pagine 885 e 896.

   Durante la occupazione militare fu generalmente incaricato delle opere di fortificazioni nel regno. Ne’ forti di S.Elmo, Granatello, Vigliena, ne’Castelli nuovo, del Carmine, e dell’uovo, alla Campanella, in Massa sono pere sue. A Nola diresse il Reclusorio, ed il Quartier nuovo, a Portici rifece le reali cavallerizze, come pure in Aversa ed al Ponte della Maddalena. In molte opere fu adoperato in Resina, nella Favorita, e nelle riattazioni de’palazzi Coscia e Francavilla; come in molti quartieri militari. Fece il disegno ed eseguì l’opera della Sala de’modelli in Cartel nuovo; e nel febbrajo del 1813 gli fu affidato il magnifico funerale del generale francese Dery nella chiesa dello Spirito Santo. Moltissime altre opere particolari fece o diresse. – Gli fu offerto dal Governo il grado di colonnello del Genio, ma ei si negò, per non vestire uniforme e non lasciare la sua professione, della quale era passionato cultore.

   I principali edifizj pe’quali lavorò sono il palazzo de’ Ministri ed il Campo santo nuovo.

   Dal ministro Medici, al quale fu sempre attaccatissimo e godeva la confidenza, non profittò come avrebbe potuto facendo a suo profitto far valere la influenza del potente uomo di Stato. Ed anzi era Filippo da quegli stimolato a chiedere, ed un giorno nel quale nel palazzo in Ottajano gli profferiva impiego pe’figli, rispose: debbono faticare. I Ministri Caropreso e D’Andrea ebbero di lui molta stima, come Stefano Gasse e tutt’i primarj architetti del suo tempo.

   Da’suoi scritti rilevasi che diresse tante opere per le spese delle quali si erogarono oltre i tre milioni. Avrebbe potuto lasciare alla famiglia una fortuna straordinaria; ma non volle guadagnare se non quello  che propriamente ed unicamente credeva spettasse alle sue fatiche. Rifiutò mai sempre qualunque pagamento anticipato, e tanto maggiormente qualunque complimento ch’egli rendesse direttogli per porlo nell’interesse delle opere da fare. quando taluno de’molti, che per opera di lui si arricchirono, e che ora sfoggiano in palazzi e carrozze e tenute, gli mandava danaro, ed erano somme vistosissime, oltre quello che a lui spettava, tutto irremovibilmente ricusava quel di più.

   Fu mediocre poeta, ed alquanti scritti conservansi da’figli.

   Noi porremo al caro antenato questa memoria.

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Filippo Mastriani

Tolto alla patria carissima, alla scienza architettonica,

alla famiglia dolente

Nel 21 aprile 1842

Fu buon figlio, miglior marito, ottimo padre:

Tenne per guida l’Onore, per fine la Virtù:

Delle offerte e della confidenza de’Grandi non si avvalse:

(Rara prudenza)

Stimò esser fortuna la dovizia, come mezzo

Per soccorrere ed ajutare gl’infelici.

Fedele alla parola, costante all’amicizia

Assiduo allo studio, preciso negli obblighi

Moderato nella propizia, all’avversa fortuna inalterato,

Per quanti lo conobbero

Sarà motivo di lungo pianto.

Questa pietra posero piangendo

I figli, i nipoti

 

(1) Queste parole di caldissimo affetto, erano dettate dal mio carissimo cugino Francesco, col quale noi tutti discendenti dell’amatissimo padre e zio che si perdeva (nel quale eransi riconcentrate tutte le nostre affezioni, come l’ultimo de’fratelli) versammo amarissime lagrime, assistendo alle ore estreme dell’Uomo che fu l’ultimo nostro conforto, l’amico che ci rimaneva, le esempio continuo, lo specchio fedele sul quale tutti cercavamo assistenza e consiglio. – R.M.

   (2) L’amor virtuoso e perciò vero, disinteressato, immutabile, rende capaci di quel tale attaccamento a tutta prova alla consorte; ed è assai difficile che un tale amore non sia fedelmente corrisposto. La Cascone moglie del primo Gaetano Mastriani, la Giuseppina de Cristofaro, vedova di Antonio, la Gaetana Blank di Giuseppe, la Teresa Mastriani moglie che fu di Michele Montani de Rodriguez, la Maria Saragau di Saverio, la Teresa Cava di Filippo furono (e sono le viventi Giuseppina e Gaetana) sempre oggetto della venerazione de’parenti per le loro virtù, per la illibata condotta, per cieco attaccamento ai doveri tutti di famiglia – R.M.

   (3) Dopo la perdita della moglie, in ogni anniversario del giorno onomastico di lei, egli si chiudeva l’intera giornata nella sua stanza dove è restato per la famiglia un mistero l’ impiego che egli facea di angosciose 24 ore. Tutta la famiglia non uscia di casa, né si ricevevano visite di amici, che avessero potuto con la loro inopportuna giovialità turbare la sacra e dolce tristezza delle ricordanze attaccate a quel giorno. Tre o quattro volte l’anno andava egli a visitare il cadavere della moglie, conservando la chiave della cassa mortuaria depositata nel Capo Santo de’colerici.