FRANCESCO MASTRIANI LE PLUS NOTABLE FEUILLETONISTE D’ITALIE

   Nel suo famoso studio La miseria in Napoli, del 1877, Jessie White Mario afferma senza mezzi termini: “Chi vuole apprezzare i lavori del Mastriani deve prima vedere Napoli, poi leggerli”; [1] più di trent’anni dopo, in un saggio incluso nel quarto volume della sua Letteratura della Nuova Italia, Benedetto Croce annota: “C’era invece allora in Napoli un romanziere d’appendici, che non è solo importante per la conoscenza dei costumi e della psicologia del popolo e della piccola borghesia partenopea, ma rimane il più notabile romanziere del genere che l’Italia abbia dato […] Si fanno tante ricerche e saggi critici su argomenti poco interessanti; ma nessuno ha pensato ancora a dedicare un saggio al povero Mastriani, che lo meriterebbe”. [2] Le parole di Croce e più sinteticamente quelle dell’accesa intellettuale inglese (militante mazziniana e moglie del garibaldino Alberto Mario) inquadrano e centrano alla perfezione la personalità e la maggior parte dell’opera di Francesco Mastriani, autentico e prolificissimo appendicista (un vero “forzato della penna”: [3] ben centoquattordici romanzi in quarantatrè anni, dal 1848 al 1891) morto quasi completamente cieco in due modeste stanzucce a Capodimonte, “solo, aiutato dalla pietà dei vicini, oltre che dal figlio Filippo, che è stato il suo più attento biografo, dimenticato dai pochi amici che aveva avuto e naturalmente da quei giornali e da quelle case editrici che per tanti anni lo avevano sfruttato”. [4]

   I’indigenza, malattia, solitudine, squallore: tutte cose, purtroppo, verissime, tanto che all’ultimo momento si rende addirittura necessaria una sottoscrizione per l’acquisto delle medicine e bisogna ricorrere a una colletta per far fronte alle spese di un funerale che sia almeno decente. In quell’occasione, Matilde Serao commenta con sincera amarezza dalle pagine del Corriere di Napoli: “Questo povero vecchio che si è spento oscuramente, carico di anni e di dolori, affranto da un duro e incessante lavoro che gli lesinava il pane, tormentato da un’invincibile miseria, non soccorso dalla fredda speculazione giornalistica che lo ha tanto sfruttato […] era, veramente, tra i più forti ed efficaci nostri romanzieri”; [5] mentre Giovanni Bovio, ribadendo il giudizio della scrittrice, aggiunge “Fu l’individuazione di questo popolo napoletano: lavorare e sognare, soffrire pazientemente e morire […] S’intendevano l’un l’altro; egli aveva vissuto l’ultimo tugurio e il popolo si riconosceva in lui. In altro paese sarebbe divenuto ricco, ma l’Italia, povera come lui, non merita rimprovero. Gli operai che domani accompagneranno questo loro maestro alla fossa, sentiranno che la questione sociale non è più un quarto stato, è umana”. [6]

   Gli operai – e con loro tutta una folla variegata e lazzara, dai venditori ambulanti alle sartine, dai piccoli artigiani ai tenitori di lotto piccolo, dai mariuoli di mezza tacca alle donnette trafelate cariche di troppi figli e troppi guai – che avevano letto avidamente (o si erano fatto leggere, poco importa, ma avevano evidentemente compreso) i suoi libri dove non erano più “riuniti e accomunati sotto l’offesa di popolino contabile”, [7] a nome del Fascio Operaio delle Associazioni Indipendenti di Napoli seguiranno compatti il feretro di quell’ “Iddio dei romanzieri” [8] durante il suo funerale “poverissimo e napoletanissimo” [9] dopo aver “affisso un manifesto per le vie della città” su cui si leggeva: “Operai. È dovere per voi rendere tributo a Francesco Mastriani con accompagnarne il cadavere sino alla sepoltura.

   “È morto un lavoratore, cui l’opera onesta della mente non diede il pane per la vita, come a noi non lo dà l’opera assidua delle braccia.

   “Noi renderemo solo quello ch’è in nostro potere, ossequio postumo a chi come noi soffrì dolori inenarrabili, comuni ad una gente che aspetta la redenzione sua nel mondo, a chi le pene rilevò d’un popolo, a chi non nascose delle plebi le virtù onorate.

   “Il fascio operaio delle Associazioni indipendenti di Napoli.

   “Il Presidente Nappa Ferdinando”.[10]

   Altrettanto significativo di quello di Croce (il quale non manca, tra l’altro, di ricordare che “Mastriani ebbe come lettori tutta Napoli, all’infuori della gente letterata”) [11] appare, pur nella sua deliberata negatività, il ritratto che Federigo Verdinois fornisce dello scrittore in Profili letterari napoletani: “Mastriani vuol essere nuovo e originale; non si stanca di fantasticare, come di creare e di scrivere. Ed è anche originalissimo nella forma, la quale ha certe sue particolari contorsioni e certe frasi e certe parole che paiono di una nuova lingua. Mi si presentò un primo d’aprile per uno di questi pesci che gli avevano fatto pescare. Una mia lettera lo invitava ad un abboccamento per una certa opera sulla quale bisognava mettersi d’accordo. Venne tutto premuroso, mi domandò di che si trattasse, mostrandomi la lettera che io non avevo mai sognato di scrivere. Lo guardai con una simpatica curiosità, meravigliandomi di trovarlo così vivace e nervoso e pieno di foga giovanile in una età che da un bel pezzo ha dato il suo addio alla primavera della vita. Parlava rapido e concitato; gestiva, accompagnava con l’espressione degli occhi il significato delle parole. […] Mi svolse davanti dieci tele di romanzi e andò via tutto soddisfatto, tessendone una undecima. Tele, naturalmente, di fabbrica tutta sua ed originali come lo stile e la lingua. Una morta, per esempio, che resusciti con un nuovo processo ignoto alla scienza medica; un ebete che risolva un problema filosofico e raggiunga per la via dell’odio la suprema felicità dell’amore; una figlia che si trovi improvvisamente, e per un facile intreccio genealogico, ad essere madre di suo padre e la nipote di suo fratello; il giudizio universale, il ritorno caotico, e il dopo mondo. Su per giù, gli turbinano per la mente tutti quei fantasmi, lo accompagnano per la via, se lo portano a braccetto, salgono con lui nelle scuole dove va a dar lezione di francese e d’inglese, fanno qua e là capolino nella conversazione, appariscono e spariscono nelle appendici dei giornali per tornar di nuovo a lui e farsi rimpastare e rimpolpare nel mondo dei sogni applicato al mondo nostro di tutti i giorni. […] In un altro paese, avendo nient’altro che quella sua vena, egli avrebbe avuta una vena d’oro: sarebbe milionario, ed invece riesce appena a sbarcar la giornata. Fa, per chi abbia vaghezza di saperlo, a questo modo: propone un suo romanzo ad un giornale, ne propone un altro ad un altro. È accettato subito. Si fanno le condizioni, che sono facilissime: tanto al giorno per tanto tempo. Incomincia a scrivere le due prima appendici, due righe alla stamperia, dieci in omnibus, venti a desinare, e così via: domani vedrà dove è rimasto per ripigliare il filo dell’uno e dell’altro. non c’è pericolo che li confonda, trova sempre al suo posto i suoi eroi e le sue eroine, le segue, li fa muovere a suo talento, li ammazza, li risuscita, li marita, li seziona, e vi spiega punto per punto com’hanno fatta l’anima e quanti battiti abbia il loro cuore. a questo modo, tira via a scrivere per due mesi. I due romanzi volgono alla fine; il giornale si è venduto meglio, avendo trovato un gran numero di lettori fra la gente minuta, che si appassiona vivamente a quelle vicende strane o maravigliose per le quali passano dei personaggi della loro classe. Allora il direttore del giornale prega il romanziere che non chiuda così presto il suo romanzo; che seguiti a scrivere per altri due mesi. Il Mastriani non cerca di meglio; tira fuori un nuovo personaggio, sposta l’azione, prolunga l’agonia di un moribondo o la meditazione di un filosofo o il viaggio di un cavaliere o la corrispondenza di due innamorati, e il gioco è fatto, e lo scrittore si trova di aver campato per quattro mesi ed è pronto a ricominciare. Si capisce così che egli abbia potuto mettere insieme una mezza biblioteca e che i lettori abbiano meno tempo di leggere ch’egli non abbia di scrivere”. [12]

   Autore d’”appendice” dunque, e autore “sociale” nonché fortemente “regionale”: Mastriani appariva al popolino napoletano (sono ancora parole di Benedetto Croce) come il suo “filosofo, educatore, consigliere e vindice”. [13]

   Più tardo Corrado Alvaro, nell’Itinerario italiano, estende il giudizio crociano e centra in pieno almeno un punto della fantasia dello scrittore: “Trovò nella sua città la dimensione fantastica e il mistero che sono stati quasi sempre le qualità più attraenti di uno romanziere. Non appare per nulla gratuito, nella sua opera numerosa e disordinata, che un intrico di personaggi e di avventure, di strade e di luoghi, di smarrimenti e ritrovamenti, accade tra Borgo Loreto, sanità, Vicaria, Chiaia: davanti alle sue invenzioni non ci prende alcun dubbio che quanto egli racconta si possa svolgere a Napoli”. [14]

   Ha ragione Domenico Rea quando afferma che i centoquattordici romanzi di Mastriani “sono da considerare come una sorte di voce recitante del quarto stato purgatoriale napoletano, identificato con l’impreciso termine di popolino”, [15] in realtà privo pressoché di tutto, abituato a sopravvivere in una sorta di endemica mendicità “Vi sono alcune disgraziate famiglie gettate in mezzo alle generazioni come un branco di uccelli in mezzo a fornace rovente, scottarsi dappertutto, e indi a poco a poco morire soffocati, ecco il loro destino”, [16] Questa epigrafe “abbagliante” (la definisce ancora Domenico Rea) [17] si trova proprio nelle pagine della Cieca di Sorrento, romanzo appartenente alla prima fase di Mastriani, quella più genericamente “aristocratica-appendicistica”, [18] anteriore all’unificazione del 1860 – e quindi ancora soggetta all’ineffabile censura borbonica ‒, incentrata su vicende di puro intrigo a sfondo patetico-sentimentale caratterizzate, inoltre, da una ricerca di soluzioni macabre e patologiche ereditate dalla gothic fiction. In realtà i libri di questa prima fase annunziano già con chiarezza, sia pure in un mondo di “fantasmi aristocratici” [19] (e senza l’invenzione linguistica quasi di gusto espressionista peculiare del periodo successivo), la calata dell’autore verso il “ventre” infernale e segreto dei quartieri bassi che esplode come un bubbone purulento davanti agli occhi del lettore in romanzi come I vermi, Le ombre, I lazzari, Il barcaiuolo d’Amalfi, Il bettoliere di Borgo Loreto, I misteri di Napoli, La Medea di Porta Medina… Nonostante le sue fantasticherie, il giovane “professore” [20] dimostra di avere già qualche idea portante piuttosto chiara: “Sa da che parte pende la bilancia; sa dove colpire ripetutamente e senza stancarsi”. [21] In modo assai giusto, Gustave Hèrelle lo definirà nel suo saggio postumo del 1894 “un socialiste par charitè, quelque chose comme un socialiste chrètien”. [22] Nei primi romanzi, il suo particolare realismo è soltanto un acquisito istintivo “La sua immaginazione infocata, come un relitto tratto dal mare, riporta in superficie nelle incrostazioni anche qualcosa della natura degli abissi”. [23]

   Soprattutto nella Cieca di Sorrento (titolo notissimo, entrato addirittura in proverbio, più volte sfruttato dal teatro e dal cinema) [24] le descrizioni dei personaggi e dei luoghi cominciano a essere vive e vere, Napoli è osservata con occhi più attenti, desiderosi di non fermarsi alla superficie delle cose: “In quel laberinto d’infiniti viottoli, ronchi e stradelle non più larghe d’un distender di braccia, dai cento barbari nomi, vestigia funeste di straniera gente, attraversando le quali si ha sempre una certa sospensione di animo, come quando si visita un carcere o un ospedale; in quell’ ammasso di luride e nere case ammucchiate le une sulle altre, e così poco rallegrate dalla luce del sole; in quei quartieri, dove l’occhio e il pensiero dell’opulenza penetrano di rado, e che pur raccolgono nelle loro umide pareti, oneste famiglie di operai, in quella rete, insomma, di popolati chiassuoli antichi, di cui si compongono i quartieri del Mercato, del Pendino e del Mandracchio, e che con un solo e generico nome si dicono la “vecchia Napoli”, giace un vicoletto, o meglio un bugigattolo, uno di quei mille che destano una specie di paura allo stesso napoletano che per la prima volta va a visitarli. Questo vicoletto storto, malaugurato e fetido porta il nome di vico Chiavettieri al Pendino: indarno, o lettore, ti sforzeresti di trovarlo in quell’almanacco ibero-gallo-latino di vice-regale memoria, tranne che per qualche casualità in esso t’imbatta”.[25]

   È l’apertura del romanzo, la descrizione del luogo dove abita il protagonista, Gaetano Pisani. Siamo nel 1851, e il giovane Mastriani si mette alla prova, saggia le proprie capacità d’indagine sociale: sperimenta, indaga, annota… Alle spalle – a Napoli come nel resto della penisola – ha il vuoto, se si esclude quell “incunabolo del romanzo sociale in Italia” [26] che è Ginevra o l’orfana della Nunziata, di Antonio Ranieri, del 1839, scritto “non per odio ma per carità de’fratelli” [27] e che costò al discutibile sodale di Giacomo Leopardi quarantacinque gloriosissimi e sbandieratissimi giorni di reclusione nelle carceri borboniche. Al “pregevole” romanzo di Ranieri (che, tra l’altro, aveva sortito a suo tempo l’effetto di far assegnare cinquantamila ducati all’anno in più agli ospizi dei quali l’autore aveva mostrato “la spaventosa infelicità”) [28] Mastriani si rifarà più volte, anche citandolo palesamente: [29] è un libro, con ogni evidenza, che sollecita e mette in moto la sua macchina immaginativa, cosa che non accade, ad esempio, con I promessi sposi: la compostezza manzoniana ha poco o nulla da spartire con la realtà cupa, sordida e maledetta che gli si presenta dinanzi agli occhi tutti i giorni. “Mastriani è nato in mezzo ai poveri, vive fra i poveri, ha sposato una povera signora Concetta, ha avuto quattro figli e ne ha perduti tre, è angariato dalla vita di tutti i giorni”: [30] anche pagando – come quasi tutti gli scrittori italiani – il suo pedaggio a Manzoni, è al Victor Hugo più visionario e spettacolare, al Dumas del Conte di Montecristo, ai Misteri di Parigi di Eugène Sue che ben presto si svolgerà (e come potrebbe essere altrimenti?) la sua attenzione, e nelle pagine della Cieca di Sorrento, pur nella convenzionalità dell’impianto e nella “confusa preoccupazione dei problemi sociali”, [31] se ne possono già scorgere le prime avvisaglie. Più tardi, concluso il periodo “romanticizzante” (anche se La contessa di Montès, continuazione e fine della Cieca, è del 1869, lo stesso anno in cui comincia ad uscire in dispense I misteri di Napoli…), [32] quando questo “travet della penna” [33] avrà avuto il tempo di maturare nella coscienza “le fluviali disfunzioni della sua città”, [34] ecco che arriveranno le spericolate acrobazie e i ritmi martellanti della sua lingua geniale, sospesa tra la scuola purista di Basilio Puoti (proprio in quegli anni tanto in auge a Napoli) e il cunto popolare, tra il melodramma e le espressioni gergali colte a volo dalle bocche di un popolo baroccamente super-parlante. Un magma linguistico sfolgorante, sonoro e sontuoso, gravido di suoni, odori, sapori, carne e sangue, usato con una sorta di furore iconoclasta, capace di aderire “come un involucro alle cose”.[35]

                           RICCARDO REIM

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[1] JESSIE WHITE MARIO, La miseria in Napoli, Firenze, Le Monnier, 1877. La White Mario, a proposito di Mastriani, fa il nome di Dickens, citando soprattutto il romanzo Oliver Twist.

[2] BENEDETTO CROCE, La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900, in La letteratura della Nuova Italia, vol. IV (appendice), Bari, La terza, 1915 (il saggio in questione risale al 1919).

[3] GIANPAOLO INFUSINO, Francesco Mastriani, prolifico scrittore napoletano dell’800, torna d’attualità, in «Il Mattino», 15 aprile 1981.

[4] GIAMPAOLO INFUSINO, Il forzato della penna, cit.

[5] L’articolo della Serao è dell’8 gennaio 1891, e viene riproposto, con alcune lievi modifiche, nella Prefazione della scrittrice a Francesco Mastriani, Messalina, Napoli, G. Regina, 1901.

[6] La citazione (del 1891) è ripresa da DOMENICO REA, Presentazione a Francesco Mastriani, La cieca di Sorrento, Milano, Bietti, 1971.

[7] DOMENICO REA, Presentazione a Francesco Mastriani, La cieca di Sorrento. cit.

[8] Il testo del biglietto è tratto dalla biografia dello scrittore dettata dal figlio Filippo. La citazione è ripresa dalla nota (anonima) che correda il volume FRANCESCO MASTRIANI, I lazzari, Napoli, ABE, 1976.

[9] MATILDE SERAO, Prefazione a Francesco Mastriani, Messalina, cit.

[10] La citazione è ripresa da ANGELA BIANCHINI, La luce a gas e il feuilleton: due invenzioni dell’Ottocento, Napoli, Liguori, 1986.

[11] BENEDETTO CROCE, La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900, cit.

[12] FEDERICO VERDINOIS, Profili letterari napoletani, Napoli, Morano, 1881. Verdinois, per inciso, pur non esprimendo un giudizio positivo sul Mastriani del Vermi e dei Misteri di Napoli, mostra di apprezzare (sia pure con alcune riserve, e non senza una certa sufficienza) la produzione giovanile dello scrittore: “Certamente – e non temo di affermare una cosa paradossale – egli è oggi il primo anzi il solo romanziere italiano, se si può dire che in Italia vi siano romanzieri e romanzi. Di questo fatto, per varie particolari ragioni che qui non è il luogo di dire dubito assai […] come anche non dubito che, in altre condizioni di vita quotidiana e di studi, il Mastriani avrebbe un nome pari alla assiduità del suo lavoro e alla molteplicità delle cose che scriva. Un tempo – molto tempo fa, nel principio della sua carriera – egli scriveva tanto meglio di oggi e riuscì a produrre dei romanzi non indegni di lode e che avevano soprattutto la qualità poco comune del farsi leggere. La cieca di Sorrento si può leggere anche oggi con diletto e con interesse. Allora non lo stringeva il bisogno, il quale per forte che si possa avere il sentimento dell’arte, non perde nulla della sua imperiosità. Poteva studiare, rivedere, limare, se non altro pensare; e ad ogni modo non essere costretto ad accettare le condizioni non larghe di pagamento, non dovendo far vivere quegli altri figli che vengono appresso e che costano tanta parte dell’anima e tanto denaro. Ma a quel tempo non si poteva vivere di letteratura e mancavano giornali, editori, pubblico; mentre da un’altra parte la vigile revisione inceppava in mille modi chi si faceva pigliare dalla infelice idea dello scrivere”.

[13] BENEDETTO CROCE, La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900, cit.

[14] CORRADO ALVARO, Itinerario italiano, Roma, Novissima, 1933

[15] DOMENICO REA, Presentazione a Francesco Mastriani, La cieca di Sorrento, cit.

[16] FRANCESCO MASTRIANI, La cieca di Sorrento, Parte Prima, cap. II, Il teatro anatomico.

[17] DOMENICO REA, Presentazione a Francesco Mastriani, La cieca di Sorrento, cit.

[18] GIUSEPPE ZACCARIA, Il romanzo d’appendice. Aspetti della narrativa popolare nei secoli XIX e XX, Torino, Paravia, 1977.

[19] ANGELA BIANCHINI, La luce a gas e il feuilleton: due invenzioni dell’Ottocento, cit.

[20] Così lo scrittore veniva comunemente chiamato: non si dimentichi che, fra le sue varie attività, impartiva anche lezioni di grammatica, di letteratura, di francese e di inglese. A quell’epoca, Mastriani non aveva ancora compiuto trentatré anni, essendo nato il 23 novembre 1819. Ed ecco come ce lo descriva Corrado Alvaro nel Dizionario Bompiani degli autori (Milano, Bompiani, 1987, nuova edizione aggiornata): “Piccolo di statura, calvo, con barba e baffi alla Napoleone III, indossava un vecchio vestito nero e un gilè bianco. Portava in tasca una boccettina d’inchiostro, e dove che fosse scriveva, anche aspettando i signorini, cui dava lezioni di lingua e di grammatica, oltre che d’inglese e di francese, per arrotondare il magro bilancio familiare”.

[21] DOMENICO REA, Presentazione a Francesco Mastriani, La cieca di Sorrento, cit.

[22] GUSTAVE HÈRELLE, Un romancier socialiste a Naples, in Revue de Paris, giugno 1894. Fu, tra gli altri, Salvatore Di Giacomo a fornire (per lettera) diverse informazioni al critico francese che gliene aveva chiesto notizie. Lo scritto di Hèrelle verrà ripreso abbondantemente da GINA ALGRANATI in Un romanziere popolare a Napoli, Napoli, Morano, 1914), nonchè da LUIGI RUSSO, nella scheda su Mastriani inclusa nel suo I narratori, Roma, Leonardo, 1923.

[23] DOMENICO REA, Presentazione a Francesco Mastriani, La cieca di Sorrento, cit.

[24] RICCARDO REIM, Notizia sulla Cieca di Sorrento, in La cieca di Sorrento, Roma, Avagliano, 2009.

[25] FRANCESCO MASTRIANI, La cieca di Sorrento, Parte Prima, cap. I, Lo studente di medicina.

[26] La definizione è di ENRICO GUIDETTI, in Eugène Sue e il romanzo sociale in Italia, introduzione a Eugène Sue, I misteri di Parigi, Firenze-Roma, Casini, 1966. In effetti, Ranieri (forse senza neppure rendersene conto) dà inizio a un genere: anzi, lo scrittore sosterrà sempre di essere stato l’ispiratore di Sue e dei suoi epigoni, allo stesso modo in cui Mastriani, che del naturalismo di Zola come del realismo critico di Balzac in fondo non aveva saputo cogliere che la patina esterna, si arrovellava (con buona dose di ingenuità) per dimostrare la priorità delle sue opere nei confronti dei personaggi dei Rougon-Macquart: “Che è mai cotesto rumore che si leva intorno al realismo? Il realismo l’ho inventato io. Che è cotesta Nanà, che tutto il mondo n’ha da discorrere come l’ottava meraviglia? Io ho scritto I vermi. C’è niente di più realista dei Vermi? Io vi domando in coscienza se si può scendere più in basso. Di più, voi, realisti da strapazzo, sguazzate nel sudiciume; ed io, come vedete, vi servo in tavola l’anima stessa del medesimo in tante pagine strappate dall’albero della mia fantasia ancora verdi e sanguinanti”.

[27] Sono parole dello stesso Ranieri, dalla dedica della Ginevra a Giacomo Leopardi: “L’autore dedica queste carte scritte non per odio, ma per carità de’fratelli alla memoria del suo immortale maestro Giacomo Leopardi”,

[28] Per ulteriori notizie sul romanzo di Antonio Ranieri, vedi, fra gli altri, RICCARDO REIM, Ginevra o le sventure del feuilleton, introduzione a ANTONIO RANIERI, Ginevra o l’orfana della Nunziata, Roma, Lucarini, 1986, nonché, sempre nell’edizione citata, la Notizia introno alla Ginevra, posta dallo stesso autore a mo’ di prefazione alla terza edizione (riveduta) del romanzo (Milano, Guigoni, 1862).

[29] Per esempio, nel cap. II (La scelta d’una sposa) della Medea di Porta Medina (1881) a puntate nel Roma; l’anno seguente in volume (edito dalla Stamperia Governativa).

[30] DOMENICO REA, Presentazione a Francesco Mastriani, La cieca di Sorrento, cit.

[31] MARCO VALLARI, voce La cieca di Sorrento, in Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi, vol. II, nuova edizione aggiornata, Milano RCS Quotidiani Spa, 2006.

[32] I misteri di Napoli non sono mai usciti in dispense (nota di Rosario Mastriani).

[33] La definizione è di GIORGIO LUTI, in Attualità di Francesco Mastriani, presentazione a FRANCESCO MASTRIANI, I misteri di Napoli, Firenze-Roma, Casini, 1966.

[34] DOMENICO REA, Presentazione a Francesco Mastriani, La cieca di Sorrento.

[35] CORRADO ALVARO, Itinerario italiano, cit.

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   RICCARDO REIM, all’anagrafe Riccardo Gessini (Roma 1953-2014), è stato un attore, regista e drammaturgo italiano. È stato anche poeta, narratore, traduttore (dal francese), copioso antologista, saggista e critico letterario con le competenze più varie. Il suo vorace eclettismo e la sua generosità culturale lo faceva passare da Tolstoj a Francesco Mastriani, da Moravia ad uno sconosciuto giovane poeta contemporaneo.