FRANCESO MASTRIANI

   Fra i miti di Napoli che resistono, intatti, al tempo, alle mode e alle alterne vicende d’inappagate e inappagabili generazioni, forse indifferenti alle cose della nostra singolare, e mai compresa, e mai definita città, quello di Francesco Mastriani, rimane più che mai vivo ed inalterato. E non tanto per il senso di postuma gloria che ancora l’accompagna, quanto per l’esempio, quasi irreale, che da esso tuttora s’irradia, di eroica, se pure umile e segreta fatica.

   Cinquant’anni di lavoro che non conobbe mai soste o rallentamenti; centosette romanzi; una vita di privazioni, di miseria, di fame. Per parlare di lui non occorrerebbe dire di più, ma come non accompagnare questo primo tentativo di diffondere nuovamente, oggi, uno dei suoi più celebri romanzi, almeno con qualche parola di omaggio per un’arte che non conobbe compromessi, alterazioni, derivazioni, e fu tutta in funzione, sempre, di specchio umano e sociale di Napoli?

   L’arte di Mastriani ha gli stessi confini della città: guarda il popolo e solo quello, ne fissa i caratteri, ne intuisce le aberrazioni, ne scopre i pregi e i difetti, ne registra le virtù e le sofferenze, ne rivela, infine, come forse nessuno prima e dopo di lui, l’anima com’è, con le sue sofferenze, le sue desolazioni, i suoi voli.

   Ma non è tutto qui, Mastriani osservatore acuto e spietato, egli conosceva Napoli non soltanto nella sua complessa e mutevole psicologia, ma nei tuguri e nei fondaci, nei postriboli e negli ospizi dei trovatelli, nelle bettole malfamate e nelle chiese, nei vicoli di Masaniello e nei luoghi della malavita. La città del suo tempo non aveva più segreti per lui, e nei centosette romanzi fu profusa, soprattutto, codesta grande e perfetta esperienza. Ma il suo compito – vorrei dire, anzi, la sua missione di scrittore del popolo e che dal popolo destinava unicamente le sue pagine feconde – non era quello soltanto di riprodurre, attraverso una siffatta conoscenza, fatti, episodi e vicende, sia pure sul filo di una inesauribile fantasia d’intreccio, ma l’altro di risolvere tutto con un fine e una conclusione morale, in cui il bene avesse ragione del male, l’onestà della furfanteria, la virtù del vizio, il coraggio della vigliaccheria.

   Napoletano nel cuore, nel cervello e nel sentimento, Mastriani ebbe, soprattutto nelle pagine dei suoi romanzi, un senso preciso e, potrei dire visivo, degli uomini come personaggi e della loro naturale funzione teatrale, perfettamente aderente, del resto, ad una realtà che tuttora persiste e che tuttora costituisce, in sostanza, una prerogativa eccezionale del nostro popolo. Ecco perché a quella fonte attiva e generosa attinsero, tante e fortunatissime volte, alcuni autori di drammi per quel glorioso “S. Ferdinando” che ebbe eccezionale e indimenticabili attori, dei quali, presto o tardi, qualcuno dovrà pur occuparsi per inserirli, come meritano, nella storia da fare del tetro napoletano.

   Non privo di un senso, sottile e particolare, di ironia, il povero Mastriani animò i suoi romanzi di certi lieviti che ancor oggi non sono andati dispersi, nella vibrazione costante di una poesia, schietta, nuda e semplice, che sorresse non soltanto quella sua dura, straordinaria fatica, ma gli ideali benefici della sua arte e della sua vita, interrotta così, per supremo privilegio, sulle bozze di stampa della sue ultime pagine incompiute.

   Questo suo romanzo, la cui nuova edizione, solo per quanto riguarda i vocaboli antiquati e quindi non facilmente comprensibili, è stata amorevolmente e rispettosamente aggiornata dal Prof, Giuseppe Tricarico, assume oggi anche il valore di un’attesa celebrazione.

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      ROBERTO MINERVINI