GLI SCRITTORI DELLA JETTATURA

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Questa edizione è in possesso degli eredi Mastriani

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PREFAZIONE

   Io penso che Cosimo Palumbo non creda alla jettatura. Se ci credesse, avrebbe evitato di trattare quest’argomento che, solo a nominarlo, per un uomo superstizioso, scotta la pelle.

   Io, invece, credo alla jettattura, e do, quindi, una gran prova d’amicizia a Cosimo Palumbo, scrivendo queste poche righe introduttive ala sua operetta «fascinosa». Tuttavia, a scanso di equivoci, facciamo almeno le corna d’uso, visto che gli amuleti pompeiani contro il malocchio, oggi darebbero scaldalo, e non si possono usare.

   Quest’operetta sulla jettatura si restringe a quel giro di scrittori che parte dall’Arcadia e tocca più tardi il romanticismo. Infatti i primi tre scrittori di cui si occupa il Palumbo rientrano in quel mondo settecentesco di arcadi, che godevano a trattare i più astrusi argomenti in composizioni dilettose, senza un profondo motivo d’ispirazione: giochi, passatempi, esercitazioni letterarie. Questo della jettatura era argomento ben trovato e di generale curiosità, e quindi fiorirono proposte, risposte, eccetera, in polimeri più o meno felici. Più tocco nel vivo fu il Valletta, che attribuì la morte d’una sua figliola al malocchio, e per tanto l’opera più conosciuta è quella che nacque dalla sua penna. Ma tranne il Carducci – che assai giustamente e patriotticamente il Palumbo ha rievocato per il suo autentico prestigio letterario – si tratta di giureconsulti e di medici in vacanza che si danno bel tempo con giochi rimati.

   Era, d’altronde, il costume dell’epoca. Lì, dove la jettatura assume un valore drammatico è nelle opere dei romantici, e particolarmente di Teofilo Gautier. Il Mastriani, scrittore popolare, si servì dell’argomento più per un mezzo d’intrigo che per una vera e propria indagine del fenomeno. Gautier, invece, riassume il clima panico cui il malocchio può condurre le sue vittime. Esagerò anche lui. Ma, partito in quarta, non poteva concludere la vicenda del suo eroe, se non alla maniera di Edipo, punendolo negli occhi.

   Credenza tipicamente meridionale questa della jettatura. E meridionali son gli scrittori che di essa si occupano, e a Napoli Gautier trova ispirazione al suo romanzo: e meridionale è il Palumbo che ha provveduto a riannodare le fila della ricerca. Il libro è interessante poiché, a distanza di un secolo, ripropone taluni problemi che forse oggi andrebbero osservati scientificamente, con altre lenti. E tuttavia la superstizione nel popolo – e non solo nel popolo – oggi ancora persiste, al punto di avere ispirato quel sarcastico e disperato personaggio della Patente, a Luigi Pirandello: persiste, in quanto si crede ancora, e sempre si crederà, alla buona o malvagia influenza di taluni uomini sui fatti della vita.

   La nostra epoca, però ha contribuito a eliminare abbondantemente dal mondo la faccia dello jettatore. L’uomo contemporaneo, ben rasato, capelli corti, baffi sottili quando ci sono, aria disinvolta, passo ginnastico, s’è liberato di quell’aspetto trasandato, selvatico, insidioso, tipico dello jettatore. Anche gli occhiali più in uso si sono adeguati alla foggia di quelli che inforca un celebre attor comico Harold Lloyd, tanto per gravare meno ipondricamente l’umano sembiante. Sicchè si dovrebbe andare più franchi, oggi, e le insidie dovrebbero apparirci minori. Ma resta la jettatura occulta. Di questa, caro Palumbo, ci guardi Iddio: non si combatte. È il sottomarino contro il quale non resistono manco le corazzate!

   E concludo con in terque, quaterque

                                                                  CESARE GIULIO VIOLA

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FRANCESCO MASTRIANI

   Non parleremo della vita e delle opere di Francesco Mastriani, uno de’ più popolari scrittori del secolo scorso. Ricorderemo soltanto che – fra gl’innumerevoli suoi romanzi, che commossero per decenni milioni di lettori con la descrizione delle incomparabili bellezze di Napoli, con la esaltazione delle virtù del suo popolo e con la esecrazione delle sofferenze e delle ingiustizie cui fu sottoposto per secoli dalle più esose tirannie – quello che, più degli altri, fu sempre ed è tutt’oggi avidamente letto è La Cieca di Sorrento, in cui sono narrati i casi pietosissimi di Beatrice Rionero e di Oliviero Blackman, la figlia dell’assassinata e il figlio dell’assassino.

   Ora è appunto in questo romanzo – e precisamente nella seconda parte di esso, nella quale, dopo la morte di Beatrice Rionero, succede a costei come protagonista la più cara delle sue amiche, Carolina Franconi – che Francesco Mastriani si occupa anche lui della jettatura. [1] E se ne occupa – come ricorderanno tutti coloro che han letto quelle pagine vibranti della più alta umanità – perché Carolina Franconi, eletta creatura, degna del sorriso di tutte le gioie, in obbedienza alla volontà di suo padre espressale prima che costui morisse, è costretta a sposare quel Conte di Montès, cui il destino aveva impresso negli occhi e nel fiato le più spiccate stimmate iettatorie. Con la parola Jettatura, Francesco Mastriani intitola, anzi, un capitolo del suo romanzo [2], in cui scrive con la sua abituale sincerità:

   «Non abbiamo alcuno scrupolo di adottare questo vocabolo e di porlo anzi come titolo di questo capitolo. Un gran letterato napolitano, Nicola Valletta, ne fece obbietto particolare di un suo libro, che produsse un certo rumore nel campo letterario.

   «La prima domanda che mi faranno i lettori e massime le leggitrici è questa:

   « ‒ Ci è veramente la jettatura? Dobbiamo noi crederci o no?

   « ‒ Fate come vi aggrada – io rispondo – voi siete padronissimi di crederci o di non crederci. In quanto a me, ci credo, anzi ci stracredo, e dico che ci è un fascino nel bene come nel male.

   «In che consista propriamente la jettatura, io non vi saprei dire, perché la faccenda non è facile a spiegare; ma io credo, se mal non mi appongo, che ci entri nella jettatura entri una gran dose di magnetismo animale.

   «Parte dalle pupille di certi uomini una luce sinistra, della quale il più delle volte eglino stessi non sono consci; e questa luce dove che si adagi produce quello stesso effetto che sulla vita rigogliosa di un fiore produrrebbe l’ala di una strige che lo avviluppasse, ovvero il passaggio d’un’aria appestata, mefitica.

   «Tutto avvizzisce, si scolora, abbioscia, langue e muore sotto lo sguardo dello jettatore. Le più felici disposizioni si smarriscono, si confondono, si dileguano, l’aria circostante si abbuia, si carica di carbonio, diventa pesante, molesta, omicida come la mofeta.

   «Invano l’infelice che è stato colpito dallo sguardo dello jettatore si dà ad una precipitosa fuga… Egli porta seco il dardo che lo ha ferito, il tossico che lo ha avvelenato. Non ci è via di scampo! Dovunque ei rivolga i passi, la maledizione il seguita; tutto ciò ch’ei fa è un rovescio, una disgrazia, un subisso.

   «A quale malefica stella obbediscono involontariamente questi disgraziati che traggono seco nell’iride degli occhi il raggio funesto che attossica l’ambiente che li circonda? Noi nol sappiamo, giacchè è impossibile comprendere la misteriosa corrispondenza che può essere tra la materia inorganica e lo spirito, tra le certe nature e l’influsso del male così prepotente nell’ordine morale.

   «La jettatura non si arresta alle individualità, ma colpisce le famiglie, le generazioni. Ci è da spaventarsi. Donde riconosce la sua causa quella costante sfortuna che accompagna una famiglia, e la segue nell’altra generazione?

   «Come spiegare la perseverante mala sorte che colpisce gli uomini d’ingegno, gli onesti, i virtuosi? Come darsi ragione di quelle improvvise ed impensate calamità che volgono in lutto una festa, e spargono la desolazione dove pocanzi era il riso?

   «Gli antichi popoli, ed in particolare i Romani, credevano saldamente al fascino che noi chiamiamo jettatura; e assai noti sono gli amuleti di cui facevano uso per respingere la corrente malefica degli occhi affascinatori. Anche noi usiamo alcuni preservativi, che il volgo ha messo in credito; ma in verità non sappiamo qual sia il vero repulsivo contro una emanazione ignota, fatale, misteriosa, omicida.

   «Il più deplorabile in questi fatti psicologici si è che talvolta colui che ha nella sua organizzazione questo terribile privilegio della effusione del male, ne è vittima egli pel primo, a quel modo che un oggetto abbruciato consuma sè medesimo mentre abbrucia gli oggetti circostanti. E questa è la più terribile delle jettature.

   «Di questa sorta di malefico influsso era dotato il povero Conte di Montès.

  «Non vogliamo imporre a una tal credenza negli animi de’ nostri lettori, ma è certo che una vaga impressione sinistra provavano la maggior parte di coloro, i cui occhi si riscontravano con quelli del giovine belga; e forse la combinazione di certi sinistri accidenti incolti loro diè origine alla voce corsa ne’ circoli aristocratici del paese che il belga fosse jettatore».

   Le vicende della breve vita coniugale di Carolina Franconi col Conte di Montès, sono, infatti, note, com’è noto il loro tragico epilogo.

   Carolina Franconi, fin dal primo incontro ai bagni di Baden, prova, e forse più fortemente degli altri, quella «impressione tetra» e sente pel giovane belga, che si innamora di lei, quella ripugnanza istintiva che nel castello di Auberoi culmina nel famoso colloquio in cui ella si sente costretta a dichiarargli:

   « ‒ Signor Conte, quello che ho da dirvi è assai grave e solenne. La mia condotta verso di voi dee sembrarvi stravagante e forse anche oltraggiosa; e ciò è vero. Ma io credo al destino, signor Conte; ed entrambi noi siamo vittime di un incomprensibile decreto di questo inesorabile despota degli umani. Fin dal primo istante in cui i nostri occhi s’incontrarono, io scorsi in voi un essere che avrebbe avuto un malefico influsso sulla mia vita».

   Ed egli risponde:

   « ‒ Addio, signora. Io avea bisogno del vostro amore. Il Conte di Montès non vi perseguiterà più, e tra poco voi sarete interamente libera».

   Dopo pochi giorni, infatti, Carolina Franconi parte per Parigi, ove, al suo apparire, la Cligne du Chantage inizia la più spietata campagna libellistica.

   Un giornale pubblica:

   «È tra noi da alquanti giorni una bella e interessante giovane persona, la signora Contessa di Montès nata Franconi, di Napoli. Di fresco maritata al Conte di Montès, belga di nascita, essa è a Parigi senza il marito, dal quale vuolsi che siasi divisa senza molto rumore. La ragione di questa separazione confidenziale sarebbe lo stato fisico del Conte suo marito, il quale si dice affetto della stessa infermità del Marchese d’Harcourt dei Misteri di Parigi. La contessa di Montès aspetta con molta rassegnazione uno sviluppo identico a quello del Marchese d’Harcourt».

   Un secondo incalza:

   «Ieri sera al teatro degl’Italiani, si vedea sola in un palchetto la signora Contessa di Montès, giovane e bella figlia dell’azzurro cielo di Napoli. Si narra di questa disgraziata signora un romanzo molto interessante. Per molti anni ella fu fatta segno alla persecuzione amorosa di un giovane belga, il Conte di Montès, il quale riuscì finalmente a sposarla. Ma il poveretto erasi acquistata a Napoli la terribile qualificazione di jettatore; e pare che la vittima della jettatura sia egli stesso, dappoiché si dice ch’ei giaccia gravemente ammalato, nel fondo del suo castello di Montès-Auberoi, nelle campagne di Mons. Pare che la signora Contessa sia venuta a Parigi per sfuggire le terribili conseguenze della jettatura di suo marito».

   Poi un terzo aggiunge:

   «Nei circoli più alla moda si parla di una bella e romantica giovane dama straniera, la contessa di Montès, venuta a cercare, ne’ brillanti rumori di Parigi, la distrazione ad una disgrazia domestica. Si dice ch’ella sia per ora divisa dal marito, il giovine Conte di Montès, nato nel Belgio, a cagione d’una costui infermità, che è tra quelle considerate dalla più parte de’ codici europei come valide ad ammettere lo scioglimento del matrimonio: il povero Conte di Montès ha il fiato morboso ed appestato».

   E la jettatura compie «l’estremo suo gesto».

   Il povero Conte di Montès – rimasto solo nella stessa villa di Auberoi – si uccide imitando «l’episodio immaginario del Marchese d’Harcourt nei Misteri di Parigi».

   Francesco Mastriani, dunque, crede alla Jettatura ed è forse lo scrittore che lo confessi nella maniera più chiara e più esplicita

   Egli cita soltanto il Valletta; ma, poiché parla anche di «magnetismo animale», è da supporre che, oltre l’opera del giureconsulto napoletano, conoscesse già quel mesmerismo, così aspramente combattuto dalla Accademie, quantunque proclamato da Schopenhauer «la scoperta di maggior portata dal punto di vista filosofico, anche se essa per ora propone più enigmi che non ne sciolga».

                                                          COSIMO PALUMBO

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[1] Non è nella seconda parte del romanzo La cieca di Sorrento, che l’autore si occupa della jettatura, bensì nel seguito del romanzo e cioè ne La contessa di Montès (nota di Rosario Mastriani).

[2] Francesco Mastriani, La Contessa di Montès (seguito della Cieca di Sorrento), Napoli, Luigi Gargiulo Editore, 1873 (nota di Rosario Mastriani).