Napoli 25 Maggio

   Sono cominciati i sudori. Tutto a questi dì sudati si è fatto col sudor della fronte; noi tutti, e poveri e ricchi, abbiamo mangiato il nostro pane col sudore della fronte, e massimamente quelli che hanno mangiato la zuppa invece del pane crudo. A proposito di pane, voglio fare anch’io un piccolo comento a Dante. Che diascine! Se ne fan tanti! Non ci è ciabattino o pizzicagnolo che non ne faccia. Che male ci è che anch’io mi senta il prurito di farne? Se Dante non avesse fatto niente di meglio che dare occasione d’imbrattare tanta carta e far dire di lui e su lui tante buassagini, meriterebbe un posto tra i benefattori dell’umanità. Assioma inconcusso. Volete non capir mai Dante? Leggete i suoi comentatori, i quali gli mettono in bocca cose cui quel valentuomo non pensò mai. Dante è il poeta più prosaico che abbia messo in rima i suoi pensieri; e intanto i suoi rispettabili chiosatori il fan parlare né più né meno che come un continuo logogrifo o come una medaglia di Efeso. – Ora dunque, poiché Dante non può uscire dalle unghie dei chiosatori e spiegatori e imbrogliatori, mi ci metto io pure alla buon’ora per gittare un poco di luce sovra un verso del gran ghibellino-guelfo (pongo tutti e due questi aggiunti di parti avverse, giacchè non si è saputo mai con precisione se messere Allighieri fosse guelfo o ghibellino). Avete inteso o letto tutte le bestialità che si sono dette o scritte sul famoso verso

                                                    Siccome sa di sal lo pane altrui?

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   Chi ha detto questo, chi ha detto quello; ma il fatto è che messer Dante ebbe torto di pronunziare questa avventata sentenza, la quale è un paradosso bello e buono. Egli è chiaro che il sa di sal vuol dire con quanta pena si mangia il pane altrui e quante fatiche ed umiliazioni costa, o presso a poco un significato di questa specie; tranne il caso che si voglia intendere che in quei tempi la gente che faceva il pane a casa sua non avesse l’usanza di metterci il sale, bestialità che nessun comentatore ha avuto finora il torto di non dire. Or bene, io dico e sostengo che Dante si è lasciato scappare uno strafalcione di prima forza nel dire che il pane altrui sa di sale; imperciocchè non ci è pane più piacevole di quello che si mangia gratis in casa altrui. Dimandate un poco a tutti quelli che ricevono inviti di pranzo a dritta e a manca, se mai han trovato troppo sale nel pane che han mangiato, e massime in quei gentili panetti della panetteria francese, ch’è la confutazione vivente del verso di Dante. Una altra ragione voglio dirvi per cui mi sembra che, se a questi nostri tempi volesse farsi un’applicazione del modo dantesco, si farebbe senza più ridere la gente – Chi non sa che oggi la moda vuole che sulle mense dei signori colle fibbie il pane dev’essere somministrato così omeopaticamente da ridursi in simulacro di pane: si mangiano con finissimo garbo e con maravigliosa alacrità di appetito una dozzina di pietanze della roba più eletta che offrono i due regni animale e vegetale, senza che il pane entri per nulla come accompagnamento de’ pezzi. Egli è questo una specie di martirio incredibile per un povero galantuomo che sia avvezzo a divorare un pane di un chilò al suo modesto desinare o alla sua sfregacciolosa cena.

   Uh! a proposito di cena, ora mi scordavo il meglio! Quest’anno ci avremo cene magnifiche a Frisia, a Posillipo, a Santa Lucia. Poche sere fa, era luna piena, e questo, come sapete, è il tempo delle cene; giacchè gli astronomi, che scoprono i mondi con la stessa facilità onde io scopro un debito, non hanno scoperto ancora le ragioni della profonda simpatia che è tra la luna piena e i vermicelli col sugo delle telline. Guardate dieci minuti la luna piena, e negate se potete (checché dicano in contrario i romantici, gl’innamorati e i poeti) che vi sentite in corpo una voglia sfrenata di vermicelli colle vongole, che i toscani si ostinano a chiamare telline.

   Ora dunque le cene a Frisia saranno abbondanti, e frutteranno a quei tavernari quel tanto che basterà loro a mantenerli con comodità sino alla prima luna piena dell’està del 1868. La roba si gitterà da quelli che la pagheranno a prezzi californici: sarà un incanto, un rapimento, un’estasi il vedere tante graziose donnine affamate dar di piglio a quei pesci vivi vivi che sono una bellezza a vedere più che a mangiare!

   Sarà un incanto, un’estasi, un rapimento il vedere i nostri mansueti leoni dar di mano ai calamarelli, come gli scolari ai calamari quando si azzuffano tra loro, e dire tanta spiritosità da togliere tutto il sale dal pane di Dante. Fu certamente una bella invenzione quella della luna piena! Beati quei pianeti che ne posseggono più d’una, e massime Saturno che, se non erriamo, ne ha nientemeno che sette! Immaginatevi che studio di poeti e d’innamorati e di taverne e di Frisie e di Posillipi e di vongole ci debbono essere in quel lontanissimo pianeta, dove speriamo che tra breve, la mercè del progresso de’ mezzi di trasporto, potrem comodamente arrivare, andando un bel mattino a farvi colezione, per recarci la sera da Venere per pigliarci altri divertimenti.

   Ma lasciamo stare dove si trovano Saturno e Venere, e occupiamoci un poco de’ fatti nostri, cioè dei fatti della terra, benché il galateo vieti che la gente bene educata si mischi dei fatti altrui.

   Occupiamoci ora di cose serie; occupiamoci delle mode. La novità più importante che ci sia venuta d’oltralpi in fatto di mode è la nessuna novità. Voi potete vestirvi come meglio vi pare e piace; vi si dà il permesso anche di vestirvi come vestiva vostro nonno o vostro bisavolo. I soprabiti a sacco sono stati fischiati fino a perderne il fiato, e oggi non si veggono che addosso a qualche ostinato imberbe scolarello, che aspira ad essere un leoncino. Abbiamo osservato che i cappelli delle signore si riducono sempre più a proporzioni impercettibili. Voi credete che una signorina abbia un cappellino in testa; oibò, è una illusione; accostatevi, e vedrete che ciò che voi credete essere un cappello non è propriamente altro che una briglia! Per la prima volta in sua vita la moda ha avuto ragione. Pure, se essa inventasse la grande invenzione di bandirli affatto, sarebbe la più bella cosa che avesse mai inventato; e non le mancherebbero le benedizioni de’ padri, de’ mariti e de’ fratelli.

   Ma passiamo dai cappelli delle signore alla letteratura, per quella specie di analogia che è tra il cappello e il capo e tra il capo e le tante corbellerie che questo inventa di cui imbratta la carta – Oggi è una vera mania di sporcar la carta. Un furioso ed inesplicabile prurito si è appreso alle dita di tutt’i miei simili da 12 a 50 anni – Oggi tutti scrivono: non si è fatto mai tanto consumo di carta quando se ne fa nell’anno di grazia in cui siamo felicemente arrivati. Alcuni si gittano al Parnasso, e vogliono essere poeti a forza, a dispetto di un’era spoetata e spoetante come la nostra; e ti schiccherano anacreontiche, sonetti, sestine, odi, poemi interi. Questa razza di scapati è la più innocente: tutto il male che fanno è quello di ammazzare qualche amico che lor capiti sotto le mani, e che deve divertirsi ad ingoiarsi un migliaretto d’endecasillabi, un paio di migliaia di ottonarii e qualche milioncino di quinari.

   Seguono poscia i drammomaniaci, poveri ammalati che soffrono la così detta febbre dei fischi, febbre acuta e spasmodica, dichiarata incurabile – Oggi il lustrastivali che vi afferra il piede e ve lo pone sulla sua cassetta vi dirà in confidenza d’avere composto un dramma pel Fondo espressamente pel Rossi, o pei Fiorentini espressamente per la Tessero: quel briccone dell’impresario si ostina a non farlo rappresentare, mentre egli, il modesto autore, ha la certezza di averlo scritto un capolavoro – Un bel mattino sorprenderete il vostro cuoco, il quale invece di badare alla salsa sul vostro bollito, si occupa a trovare il finale di un atto che dovrà far cadere il teatro. Il vostro sarto invece di dare dei punti ai vostri calzoni, fa dei punti di scena. E un giorno avrete anche la consolazione di sentire che il vostro Pasqualino o Ciccillo di otto anni, che l’altro ieri è passato dall’abbicci al b a ba ha scritto una tragedia da far mettere ad Alfieri le mani tra i capelli – Vengono indi i giornalisti, direttori di giornali, collaboratori di giornali, scrittori di giornali: il mondo è nelle loro mani. Con un tratto di penna vi fanno cadere un ministero, o, viceversa, ve lo puntellano in modo da renderlo incrollabile.

   Oggi fare un giornale è la cosa più facile del mondo – Prendete un fanciullo che non sia venuto ancora al terzo lustro; dategli una trentina di lire per pagare le spese di un primo numero quando non trovi un tipografo che gli faccia credenza; mettetegli nelle mani un quadernuolo di carta, e vedrete che n’esce!!!… Non sì tosto pubblicato il primo numero, tutti gli artisti teatrali passati, presenti e futuri debbono associarsi, sotto la grave pena di essere fulminati da quel foglio di carta. Non occorre il sapere almeno la grammatica; non si bada a queste pedanterie; che il giornale sia scritto in italiano o in arabo, poco monta, purchè possa fare la sua figura su’ deschetti d’una bottega da caffè e nelle case dei cantanti. Ma di chi parlerà, di che si occuperà questo giornale? Di TUTTO! Ecco la risposta pronta e immancabile. E andate poi a dire che questo non è il secolo del progresso! Vorrei sapere che altra pruova ne volete più luminosa e irrefragabile di questa!

                                                                                                     FRANCESCO MASTRIANI

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   Questo articolo fu pubblicato sul giornale La Domenica il 26 maggio 1867.