I MALI DI NAPOLI E L’INASCOLTATO MONITO

«Bisogna sventrare Napoli»

(Agostino De Pretis, Presidente del Consiglio, 1884)

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   All’indomani dell’Unità, l’Italia si presentava tutt’altro che coesa. Le problematiche, le discrepanze, l’evidenza di realtà così significativamente distanti balzava agli occhi ferendo, quasi, l’osservatore. Il nuovo governo italiano si trovava a dover affrontare i problemi di un vasto territorio caratterizzato da una popolazione numerosa e disomogenea e presto si avvertì la spinta e l’urgenza di fronteggiare le molteplici problematiche venute a galla quali l’arretratezza dell’ industria e delle infrastrutture, la corruzione, la criminalità e il brigantaggio, nonché l’analfabetismo e la povertà con le conseguenze che da queste derivano: degrado e prostituzione.

   Ciò spinse politici, pensatori e letterati, non solo partenopei, ad osservare i territori dell’ex regno borbonico per individuarne i mali, tentando di ricostruirne le cause storiche e politiche, interrogandosi sui possibili rimedi da applicare a tale situazione di miseria e degrado che si trascinava ormai da secoli, come avevano già denunciato, a partire dal finire del Settecento, quegli studiosi napoletani che avevano avvertito il bisogno di analizzare la società e di comprenderne le problematiche al fine di risollevarla e, dunque, accrescere il benessere generale del Regno.

   Nella loro ottica, la miseria era considerata come un male al quale è possibile porre rimedio attraverso la promozione della cultura e della civiltà applicata a tutti i livelli della vita sociale. Gli studiosi avevano riposto le proprie speranze nell’avvento di una monarchia illuminata che avrebbe rinnovato le proprie strutture, partecipando, fattivamente, al dibattito già avviato dagli intellettuali stessi sui temi di politica, di economia, di giurisprudenza e istruzione. Ma questa idea, insieme con le loro proposte di riforma, non poté trovare riscontro a causa del seme rivoluzionario che pian piano andava germogliando in Europa e le conseguenti politiche reazionarie che furono perseguite dai regnanti che lasciarono, quindi, irrisolti i numerosi problemi che affliggevano il Regno e che emergeranno in tutta la loro drammaticità con l’avvento del governo unitario […] veniva emergendo l’altra Napoli, la Napoli città: vale a dire il grande centro urbano arretrato oppresso da un notevole incremento demografico che esaltava maggiormente la secolare arcaicità delle sue strutture economiche e sociali.

   Rimasto estraneo agli ideali risorgimentali insieme con molti altri intellettuali napoletani, il prolifico autore, Francesco Mastriani, era stato fino all’annessione «panegirista regale» e aveva dato «candide prove di collaborazionismo».

   L’indomani dell’Unità, però, sembra modificare la propria opinione politica e direzione letteraria, come è attestato, in particolare, in più passi del primo e del terzo romanzo della cosiddetta «trilogia socialista» (I vermi: studi storici sulle classi pericolose in Napoli, del 1863 e, soprattutto I misteri di Napoli: studi storico-sociali, del 1869) dalle lodi all’operato del governo unitario e all’omaggio reso, nelle stesse pagine, a Giuseppe Garibaldi. Proprio l’azione di quest’ultimo assunse un importante significato simbolico nella transizione di Mastriani verso un certo ottimismo nei confronti dell’Unità, grazie alle sue «rette intenzioni» e per il «suo buon volere» che sembravano legittimare e incoraggiare le speranze di redenzione del popolo napoletano:

   Gli è indubitato che ci è ancora della feccia nel nostro popolo, e ce ne sarà ancora per qualche tempo. Ma è forse possibile una compiuta improvvisa riforma de’suoi costumi? Noi accogliamo la speranza, per non dire la certezza, che tra dieci anni il nostro popolo non sarà secondo ad altri in Europa. Voglia Dio benedire all’opera della nostra rigenerazione, iniziata dal più Grande Italiano vivente, GIUSEPPE GARIBALDI! Voglia Dio benedire agli sforzi degli uomini che han rette intenzioni e buon volere!

   Possano le auree incantate del nostro cielo non essere più contaminate da straniere favelle! Possano i nostri ubertosi campi non essere più calpestati d orde inimiche del sangue italiano! Possano presto le altre terre italiane, soggette ancora allo straniero, formare parte della patria comune. Allora, dopo il Pater noster, noi insegneremo a’nostri figliuoli quest’altra prece che egli dovranno recitare ad ogni alba e ad ogni sera:

 

   Da’ Tedeschi ed Imperiali

   Da Francesi e Cardinali

   Libera nos, Domine.[1]

 

   Una metamorfosi non certo dettata da «ingenuità politica e culturale, né da calcolati opportunismi», ma da «senso di responsabilità, della consapevolezza che in quel particolare momento storico di sbandamento e destabilizzazione anche al romanziere si chiedeva di intervenire in modo costruttivo nel campo delle lettere, per indirizzare e consigliare il lettore nelle sue scelte di vita».

   Ben conscio di questo, come scrive Benedetto Croce, Mastriani «appariva a […] popolino e piccoli borghesi, filosofo, educatore, consigliere e vindice», perché «con affetto e sete di giustizia partecipava a tutti i loro drammi». Ma le aspettative che il prolifico autore aveva riposto nel nuovo Stato, forse soprattutto per merito della breve dittatura garibaldina e dei suoi provvedimenti, furono presto deluse, come quelle di altri autori che speranzosi avevano salutato l’Unità d’Italia come momento di svolta e opportunità di progresso. Difatti, in una edizione successiva del romanzo I vermi, l’autore inserirà una nota di denuncia verso il disinteresse del governo per le condizione dell’intero Mezzogiorno:

   I ministeri italiani, che dal 1861 fino a tutt’oggi si sono succeduti nell’amministrazione del Regno d’Italia, non fecero un briciolo di quel che si sperava a pro’delle provincie meridionali. [2]

   Dagli anni Cinquanta dell’Ottocento, Mastriani, «il primo, anzi, il solo romanziere italiano, aveva cominciato seppur blandamente, ad occuparsi di problematiche sociali. Ma è proprio intorno agli anni dell’Unità d’Italia che l’autore rivolge con decisione le sue attenzioni alle questioni sociali di Napoli e della sua provincia, e lo fa con un ciclo di opere che lui stesso non esita a definire “studi storico-sociali”, nelle quali offre un dettagliato resoconto circa le condizioni di miseria, di emarginazione, di corruzione, di delinquenza nelle quali vive il popolo napoletano, per sollecitare i governanti e mettere in guardia gli uomini dabbene.

   Noi solleveremo alquanto i fili che ricoprono queste PIAGHE, nella loro specialità in Napoli, ed avremo la forza di esporle agli occhi dell’abile chirurgo, perché, dove possa, provvegga a medicarle, e, dove la piaga è incurabile, adopri il ferro che la cicatrizzi o il balsamo che la lenisca. [3]

   Non affatto lontano, in questo, dall’intento di un autore a lui coevo, Marco Monnier, così riassumibile:

   «Io gli mostro dov’è il male: è lo stesso che dirgli dove colpire».

   Merito indiscusso dell’autore napoletano è quello di aver avviato, con la sua trilogia (1863-1870), «quell’esplorazione del “ventre” della città nell’Italia postunitaria, che darà i suoi frutti maturi a Napoli solo più tardi, con la Miseria in Napoli di Jessie White Mario (1877), Napoli ad occhio nudo di Renato Fucini (1878) e Il ventre di Napoli di Matilde Serao (1884), ed esprimere il proprio impegno sociale sul versante del romanzo, proprio mentre nel campo della saggistica Pasquale Villari, Marco Monnier e Marino Turchi avviano quel processo di attenzione verso Napoli e il Mezzogiorno dal quale sarebbe nato di lì a poco la “questione meridionale”.

   Scorrendo le pagine del Mastriani «si trova una sorta di gigantesco catasto del male: mestieri infami, condizioni di vita vergognose, sopraffazioni, crudeltà, viltà» creato «allo scopo di trarre alla luce questo male, di smascherarlo per combatterlo, per porvi alfine rimedio». Difatti, nella sua Prefazione a I vermi, scrive:

   La nostra speranza è che [il romanzo] sia letto e propagato tra le classi medesime, di cui ci occupiamo, e verso le quali non abbiamo che un sentimento di profonda commiserazione e un desiderio vivissimo di cooperare al salutare ritorno di qualcuno di questi essere nel seno degli onesti e nelle ordinarie condizioni della vita sociale, da cui si trovano oggidì segregati ed espulsi. […] Nel resto, non bisogna mai diffidare delle proprie forze quando si ha in vista, non un titolo di vanagloria, ma uno scopo utile e morale, e il bene dei propri concittadini.[4]

   Quali fonti primarie che affliggono la città di Napoli, Mastriani individua tre «piaghe» e in base a queste identifica quelle «classi pericolose» che accorpa nella macro-categoria dei «vermi».

   La civiltà tende al progresso indefinito, alla sua perfezione, rappresentata dal regnum Dei; ma gli ostacoli che si oppongono al suo regolare sviluppo sono l’ignoranza, la miseria e l’ozio, PIAGHE prodotte dalla imperfezione della organizzazione sociale, dalle monche istituzioni politiche e civili, dalle smodate ambizioni e dalle tirannidi d’ogni ragione.

   Il corpo sociale ha queste precipue piaghe, su cui vivono e di cui si nutrono i VERMI innumerevoli che formano le Classi pericolose. […]

   Diciamo nella loro specialità in Napoli, perocchè qui, più che altrove, queste piaghe hanno generato le due terribili cancrene della camorra e del brigantaggio. [5]

   I «vermi”, dunque, sono quegli individui pericolosi e ribelli alle norme sociali, coloro che cadono nel vizio sia per raggiungere velocemente la ricchezza con mezzi illegali e immorali, sia perché spinti da estrema indigenza.

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   L’Ozio è MARCIUME.

   La Miseria è SORDIDEZZA.

   L’ignoranza è MORTE.

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   Il marciume, la sordidezza e la morte producono i vermi nel mondo fisico, siccome l’Ozio, la Miseria e l’Ignoranza producono i loro vermi nel mondo morale.[6]

   Ozio, miseria e ignoranza sono dunque le tre piaghe che affliggono la società contemporanea in maniera trasversale, andando a insediarsi e proliferare tanto nel popolo minuto, quanto nella borghesia e nell’aristocrazia, in forme diverse ma sostanzialmente simili e tra loro contigue, giungendo, pure ad intaccare quelle stesse istituzioni che avrebbero il compito di garantire ordine, benessere e legalità.

   Difatti, ne I misteri di Napoli, scrive:

   È noto che sotto i Borboni, la parte più cangerosa della polizia erano le cancellerie. I primi atti processuali di un delitto o di un crimine affidati alla penna d’un cancelliere erano alterati, sfigurati, svisati a seconda delle mance che correano di sotto mano.[7]

   Mentre nella Prefazione a I vermi si può leggere:

   Non pochi di questi vermi si trasformano in dorate farfalle, che nascondono sotto le brillanti screziate loro ali il bruco schifoso. [8]

   Le farfalle di cui parla, altro non sono gli esponenti di quella che si definisce «camorra elegante», cioè quella schiera di persone che si differenziano dal popolo minuto per benessere economico e stile di vita, frutto di attività illecite o privilegio di nascita, e che disdegnano le attività criminali più infamanti. Questa categoria prende vita dalla piaga dell’ozio, male che genera pure il problema del vagabondaggio e una serie di delitti di varia entità, mentre la piaga della miseria, invece, annovera tra i suoi frutti marcescenti l’accattonaggio, la proliferazione di falsi mestieri e la prostituzione con tutti i mali accessori: la propagazione fuori controllo di malattie veneree, la perenne condizione servile della donna e i problemi morali e di costume ad essa legati. Dall’ ignoranza, infine «vede generati “tutti errori” dell’umanità. Ben coltivata “per 730 anni” dalle “straniere signorie” che esercitarono sui Napoletani “il più aspro governo”, essa appare allo scrittore finalmente contrastata dalla “luce” che promana dal Regno unito».

   Ne I vermi, in particolare, l’autore offre un quadro dettagliato e specifico di queste tre piaghe e degli effetti reali sulla vita delle persone, affiancando vicende diverse e autonome l’una dall’altra ma unite «nell’impegno etico-sociale», a loro modo esemplari, documentando il degrado opprimente che attanagliava la Napoli del suo tempo al fine di «provocare nel lettore reazioni emotive di pietà e riprovazione».

   «Chi vuole apprezzare i lavori del Mastriani deve prima veder Napoli, poi leggerli; se no, chiuderà i suoi libri, dicendo – queste sono esagerazioni da romanziere, sogno di un rivoluzionario. – Ma dopo aver visto coi propri occhi esclamerà mestamente: – pur troppo egli ha scritto la verità, null’altro che la verità, ma non tutta la verità!».

   Nel suo dispiegarsi, la narrazione de I vermi (ma un discorso analogo può essere fatto per gli altri romanzi della trilogia), rassomiglia a un lungo dialogo dove l’autore-narratore-personaggio si rivolge direttamente ai suoi lettori stabilendo con essi un singolare rapporto.

   Questa dinamica dà modo all’autore di interrompere spesso la narrazione con «digressioni polemico-riflessive, proposte di riforme sociali, citazioni, dati statistici, documenti» che, comunque, non portano il lettore troppo lontano dalla storia, poiché il suo fine primario è quello pedagogico-informativo.

   Ne I vermi, Mastriani è addirittura «personaggio tra i personaggi», il lettore è con lui nel suo viaggio attraverso una Napoli ammorbata dalle tre piaghe che scandiscono la partita del romanzo negli ultimi anni della dominazione borbonica. L’abilità di Mastriani come romanziere può essere esemplificata da come, in un sol colpo, sia in grado di legare, tratteggiare e intrecciare tra loro i vari argomenti che andrà, poi, a sviscerare nel fluire delle pagine esemplificando, al contempo, la complessità della materia trattata. Difatti, nel suo peregrinare, giunto in una casa di tolleranza situata nella splendida Posillipo, scopre che al suo interno è ospitata un bisca clandestina.

   Come in un sistema a scatole cinesi, proprio in quelle stanze s’imbatte, anzi, gli vengono indicati, in alcuni rappresentanti di quella che definisce “camorra elegante”. La “setta”, difatti, estende i suoi tentacoli in maniera trasversale tra le classi sociali, dal popolo minuto fino agli aristocratici e ai borghesi che controllano il gioco d’azzardo, l’usura e la prostituzione dei quartieri della Napoli ʻbeneʼ. In questo modo, nel giro di pochissime pagine, presenta e lega insieme alcuni dei problemi da lui maggiormente avvertiti.

   Non faccia maraviglia di ritrovare anche qui la paranza; e questa mi sembra assai più pericolosa di quelle che si stabiliscono nei camorristi di bassa mano. È in queste casine che può dirsi albergare la vera camorra, anzi son altrettante camorre questi luoghi medesimi secondo l’origine della parola […]

   Molti punti di contatto hanno questi signori coi camorristi del volgo; la spavalderia, la prepotenza, la faccia durissima. Quasi tutti questi signori hanno le dita carche di anella come i guappi della plebe.

   […] questi camorristi co’guanti paglini […] Questa classe pericolosa non può vivere che nelle febbrili commozioni del giuoco. Non conoscendo il valore del denaro, perché avvezzi a vedersene le tasche ripiene la mercé delle sinistre arti […] sdegnerebbero un guadagno onesto, che fosse frutto di un moderato lavoro.

   L’ozio è l’elemento in cui si pascono, l’atmosfera in cui vivono. […] Nelle ore di intervallo tra un tavolino e l’altro, li vedi sdraiati in certi caffè, da cui fanno fuggire ogni onesta persona. I loro discorsi non sono che la quintessenza della lordura; donne, amorazzi, oscenità, ed altri cotali subbietti di fango formano la loro conversazione, quando la detrazione, il vituperio delle famiglie, l’abbietta maldicenza non sieno i subbietti prescelti.

   Talvolta si studiano di imitare le maniere e il linguaggio dei giovani patrizi […]; ed in tal caso ei fanno le figure dell’asino camuffato delle penne del pavone. [9]

   Girando per i quartieri più degradati, invece, tra vicoli e “funnechi”, il lettore incontra i rappresentati della camorra bassa, il popolo minuto che esercita controllo sul contrabbando, sulle carceri, sui casini di infima categoria, spesso con la complicità della polizia stessa, e, in ultimo, sulle misere attività e sui modesti bisogni del popolo.

   È proprio in questo ambiente che la camorra attecchisce maggiormente, fa proseliti da un lato e strozza il popolo dall’altro, in un labirinto tortuoso dove vittime e carnefici si trovano fianco a fianco in un «inferno umano senza valori e senza civiltà».

   Con estrema onestà e acutezza afferma e ribadisce che la malavita, tollerata e, anzi favorita dalla «vecchia polizia» si era oramai radicata nel territorio, organizzandosi addirittura con proprie leggi e statuti. Con grande amarezza è costretto ad ammettere che non è «più possibile al Governo di distruggere queste “tarle dello Stato”».

   Le guardie doganali, le quali, per non esporre la loro vita, per due carlini al giorno che lor dava il passato governo, chiudevano per lo più ambo gli occhi ed aprivano invece ambo le mani. Certo che la camorra sui contrabbandi era quella che più di ogni altra arricchiva; né era quasi più possibile al governo di distruggere queste tarle dello Stato, che spesso aveano connivenza non solo tra quelli stessi che erano preposti a difendere i suoi dritti, ma eziandio con alti impiegati che mangiavano la più grossa parte del bottino della paranza.[10]

   Il governo unitario, come si è detto, si era ritrovato a dover contrastare «un fenomeno delinquenziale davvero forte e complesso», nonostante, comunque, sia altrettanto vero che il nuovo Stato non comprese da subito l’entità del fenomeno e preferì percorrere la strada della repressione prendendo di mira il solo fenomeno del brigantaggio, dando così modo alla camorra di rafforzarsi e, anzi, come denuncerà il nostro autore, poi, ne I misteri, di ampliare il suo raggio di azione.

   I ladri di professione non esercitano quasi mai il loro mestiere per loro esclusivo vantaggio. […] La camorra è la gran famiglia. […] la gran famiglia è divisa in campanili. […] Ogni paese d’Italia è un campanile nel gergo della camorra ladronesca. Tutta la forza armata del Regno d’Italia non basterebbe a distruggere i campanili. […]

   Trattavasi di proporre al ministro [Saverio Del Carretto, Segretario di Stato della Polizia Generale del Regno delle Due Sicilie] un abile spionaggio fuori Napoli e sopra tutto a Roma, dove maggiormente fervevano in quel tempo le agitazioni politiche.

   Lo spionaggio era un pretesto per stabilire, coll’aiuto della polizia napolitana, le fila della vasta associazione che si addimanda dei campanili. […] Dicemmo altresì che a Cecatiello fu dato l’incarico di ottenere dal Ministro Del Carretto una segreta udienza, nella quale la paranza della Vicaria (per avere di intendersela coi ladri di fuori) avrebbe profferto al ministro di polizia i suoi servigi nelle Romagne, dove lo spirito pubblico erasi sollevato ad aspirazioni liberali per l’avvenimento di Pio IX al pontificato. [11]

   Altro tema comune, trattato in tutti e tre i romanzi della trilogia, simbolo per eccellenza di degrado e povertà che reca con sé tetro senso di ineluttabilità, è quello della prostituzione, quella «enormità d’ingiustizia» che Mastriani affronterà in maniera diretta e specifica ne Le ombre.

   Le ombre, funesta trasformazione dell’operaia, nascono dalla Ecclissi totale della donna nelle sfere della sua sublime e divina missione. Nulla darà la società a pro della Donna degenerata? Nulla faranno i governi civili per restituire la luce dell’anima colà dove sono le tenebre della muliebre degradazione? Lasceremo alla maturità dei tempi la soluzione di questi importanti quesiti?[12]

   Nonostante consideri la prostituzione alla stregua di un’aberrazione di «un fatto fisiologico», l’autore mostra una forte empatia per quelle «ombre» e una sensibilità inaspettatamente moderna per l’epoca. Difatti, sebbene saluti con favore l’avvento, dopo l’Unità, di una legge specifica attraverso cui lo Stato si assicura un maggior controllo sul fenomeno sottraendo, così, profitti illeciti alla malavita che pure controllava questi affari e, l’istituzione, sempre grazie alla stessa legge, di misure igienico sanitarie adeguate a contrastare il fenomeno, dilagante, di malattie veneree, tutela della sanità pubblica, nonché di quella delle «vittime infelici», Mastriani non può non interrogarsi su cosa sia necessario fare affinchè quelle povere fanciulle non cadano lungo il «funesto pendio» vittime delle «piaghe».

   Un fatto fisiologico che la società sviluppa fino al grado d’imperioso bisogno, obbliga i governi, per la tutela dell’onore delle famiglie e della pubblica salute, a tollerare non solo, ma eziandio a sottoporre ad un codice speciale di regolamenti una grande sezione femminea di queste classi pericolose. Ma i governi, i quali sorprendono l’infame esercizio della prostituzione e il sottopongono alla loro benefica vigilanza perché la pubblica morale e sanità non ne rimangono lese, non possono sorprendere la misteriosa influenza che la cupidigia del lucro, la dissolutezza de’ costumi esercitano su vittime infelici, le quali, dove a tempo fossero illuminate a segno da schivare il funesto pendio, si sottrarrebbero al marchio di abbiezione che le colpisce. L’innocenza, la virtù, l’onestà sono circondate nelle grandi città da innumerevoli pericoli, soprattutto se la povertà le accompagna nell’arduo sentiero della vita.

   Non men circondata da seducenti pericoli è la ricchezza, a cui guardano con infinite aspirazioni tutt’i vermi sociali, e che ha in sé stessa il serpe più insidiatore qual si è l’ozio. Illuminare, quindi, per quanto è possibile, il povero onesto, la innocente figlia del popolo e il giovin signore su gli agguati che lor tendono incessantemente quelli che speculano su l’ozio, su la miseria e su l’ignoranza, ci sembra opera santa, quali si vogliano i mezzi che ciò s’impieghino. [13]

   E, difatti, più avanti, scriverà, a riprova della spiccata sensibilità del Mastriani:

   […] se la società gitta il vituperio su la donna caduta, qualsivoglia sia la pietra su cui inciampica, vi è pertanto un altro giudice in cielo, che colpisce più severamente colui che abusò della situazione e della debolezza di una onesta fanciulla per rapirle quel bene che nissuno al mondo potrà restituirle. [14]

   Condizione fondamentale tanto per l’emancipazione di quelle povere donne quanto di tutte le classi sociali presenti in Napoli e nell’ex regno, è quella di ricevere un’adeguata istruzione, arma principe per il riscatto dei popoli, problema che nella città partenopea si presentava in tutta la sua gravità. L’intero suo lavoro, in effetti, può essere considerato come una colossale battaglia contro l’ignoranza, tutto teso ad informare e ad educare il lettore attraverso la pagina da cui trasuda la forza vitale del suo intento pedagogico, dettato da un amore smisurato per la propria città e i suoi abitanti.

   Io non ho che a rari e brevi intervalli lasciato Napoli, il mio paese nativo, al quale sono avvinto da un amore stragrande, ed al quale ho consacrato tutto il mio povero ingegno. Ho studiato il mio paese coll’amore di un figlio, di un innamorato, di un artista.

   Nelle lunghe e inaudite sofferenze che ho durate e duro tuttavia nella spinosa e sterilissima via delle lettere, unico conforto al mio cuore è la stima de’miei concittadini e la soddisfazione di avere, nella sfera delle mie facoltà, contribuito a spargere qualche lume di civiltà e di progresso tra le classi del nostro popolo che la mala signoria avea tenute asservate nella ignoranza e nella barbarie. [15]

   Il giudizio negativo sulla «mala signoria» e sull’imbarbarimento provocato dalla noncuranza sistematica con le quali le precedenti dominazioni avevano considerato il problema, trattando quasi con sufficienza i propri sudditi, è confermato in più punti ne I vermi:

   La facilità di lucrarsi il carlino induce alla imprevidenza del domani, la quale, nudrita dalla ignoranza, in cui dalle passate signorie si teneano le nostre popolazioni. Distrugge ogni buon governo di famiglia, e mette spesso nel caso di mancare del necessario, onde sogliono derivarne le più tristi conseguenze e i più grandi pericoli alla società. [16]

   La città era caduta in «un lungo torpore» e «contava nei primi anni Sessanta dell’Ottocento una massa smisurata di analfabeti che costituiva un ostacolo insormontabile sia al suo sviluppo civile che a quello economico».

   Non vi ha civil governo nel mondo, il quale non tenga aperte a disposizione di tutti università e biblioteche, dove, senza il più tenue dispendio, ognuno può abbeverarsi a suo talento di quelle dottrine che meglio si attagliano e si affanno alla propria attitudine.[17]

   In questo, in effetti, in questa sua visione d’insieme, in questo suo incredibile affresco dalle pennellate vivide e palpitanti, ricche di contrasti e tra loro interconnesse, sta il senso del “monito” di Mastriani: la completa realtà di Napoli, composta da elementi disarmonici, inquietanti, al limite del concepibile persino per il lettore dell’epoca, questa realtà così realisticamente tratteggiata, costituisce un intricato problema di non semplice risoluzione, un problema che non può essere risolto voltando il capo, chiudendo gli occhi, scegliendo di non credere e non vedere la realtà per ciò che è. La complessità deve essere dapprima individuata, poi analizzata e compresa nella sua essenza, senza barriere mentali e pregiudizi di sorta. Il compito di individuare questa complessità non può che spettare all’intellettuale, il giornalista, lo scrittore, che libero dalle rigidità che sono proprie delle strutture statali, può destreggiarsi nelle tortuosità di una realtà molteplice che non si lascia imbrigliare all’interno di una visione rigida e statica, purché la sua voce sia veritiera e onesta.

   La funzione morale e civile della letteratura è evidenziata dallo stesso Mastriani, come già riportato in precedenza nelle due Prefazioni a I vermi e a Misteri di Napoli. In quest’ultimo, nel quale lo scrittore si propone «il compito di svelare nell’esistenza del male i misteri della virtù, di cercare e segnalare nella città infernale ciò che non è inferno», scrive:

   Il contagio del vizio, che è una delle più grandi piaghe delle popolose città, troverebbe efficace correttivo nello esempio del bene, dove la stampa si occupasse a ricercare i misteri della virtù collo stesso ardore onde si occupa a ricercare o a rilevare i turpi fatti del vizio. I misteri di Napoli saranno dunque la rivelazione degli occulti splendori dell’anima sofferente nelle torture sociali.[18]

   La sua scrittura non vuole essere fine a se stessa, ma vuole spronare concretamente il lettore ad agire per il bene comune.

   La missione delle nobili intelligenze e dei cuori filantropi non debbe in altro consistere che nel cavare il maggiore dei beni dal seno stesso del male, cioè a dire raddrizzare i costumi con la dipintura vivissima del vizio, in modo da ispirare per esso un orror salutare. Il maledire a’tempi ed il piangere su i mali della società è cosa da gufi e da barbagianni; ed il mondo suol fuggire da questi perenni lamenta tori. Invece di limitarvi a piangere e a sospirare per le piaghe della società, cooperatevi a risanarle.

   Ogni buon cittadino ha l’obbligo di dare la sua spinta a sollevare il gran masso di che parla il Lammenais nelle sue parole Parole di un credente. Le passioni degli uomini non si cambiano; ma la civiltà sempre progredente tende a poco a poco a spogliarle de’loro eccessi e di quanto aver possono di brutale per farne invece lo strumento del pubblico e particolare benessere.[19]

   E lo fa con sincerità, onestà, ritraendo dal vero la sua città. Così si esprimeva il Benedetto Croce su Mastriani:

   «L’ispirazione dei suoi libri è costantemente generosa e morale. La sua musa era casta: rifuggiva dal sollecitare malvagie e basse curiosità […]

   «Si sente in quei romanzi, uno sdegno contro gli oppressori e pietà per le vittime, ma nessuna adulazione verso il popolo, presentato com’è nella sua rozzezza e ignoranza, e spesso nella sua abbiettezza e perversità».

   Mentre Domenico Rea afferma che:

   «Intuì che Napoli andava vista e sentita in maniera globale; che bisognava, prima d’ogni altra operazione, infrangere la barriera popolare, facendola scontrare con l’altra Napoli prevaricatrice, una Napoli vera, violenta, più storica».

   Su tutti, il valore di Francesco Mastriani e delle sue opere è stato individuato dalle parole di Jessie White Mario:

   «I romanzi di Francesco Mastriani sono degni di ristampa in una edizione popolare. L’Inghilterra deve non poche riforme alla meritata popolarità e alla divulgazione dei romanzi del Dickens. Questo elasticissimo ingegno, che abbiamo perduto recentemente, nato dal popolo, figlio di un macellaio, visse fra il popolo e scrisse l’Iliade del suo dolore e della sua miseria.

   «Narrava storie vere, cambiando soltanto i nomi, indicando le oppressioni dei ricchi e degli uomini in autorità, con tale precisione da renderli riconoscibili; provocò molte ire e dispetti da una parte, ma pervenne alla sua meta. Il Little Dorrit racconta le sofferenze e le tristi conseguenze delle prigioni per i debitori, e tali prigioni furono abolite. Si può dire che ogni romanzo del Dickens produsse l’abolizione dei mali indicati in esso. Il Mastriani finora non ebbe altrettanta fortuna; ma egli ha adoperato lo stesso sistema.

   «Nei suoi romanzi avete i fatti e la storia della camorra, del lavoro mal pagato, della miseria del popolo, dell’infanticidio (non sappiamo chiamarlo con più dolce nome) che succedeva nel brefotrofio, dei delitti perpetrati e dal vizio propagati nelle carceri, delle cause, effetti e costumi della prostituzione. Egli non cade mai nel difetto valente tra gli studiosi di questioni sociali, di additare i ricchi come tanti crudeli e indifferenti ai mali del povero, né di dipingere i poveri come tanti santi o vittime.

   «Addita alle due classi i veri e propri difetti, e indica i mali che ne derivano; propone rimedi, e da ogni suo libro trabocca la vera pietà per i sofferenti. Chi vuole apprezzare i lavori del Mastriani deve prima veder Napoli, poi leggerli; se no, chiuderà i suoi libri, dicendo – queste sono esagerazioni di romanziere, sogno di un rivoluzionario. – Ma dopo aver visto coi propri occhi esclamerà mestamente: – pur troppo egli ha scritto la verità, null’altro che l verità, ma non tutta la verità».

   Fa più male, allora, rileggere le pagine di Mastriani a più di 150 anni di distanza e accorgersi che ben poco è cambiato, che gli elementi da lui individuati e denunciati giacciono ancora immutati tra quelle stesse vie che sembrano essersi cristallizzate nel tempo così come la sua denuncia, il suo monito, la sua voce straordinariamente viva e palpitante è ancora paradossalmente attuale.

   Questa sua modernità deriva dalla capacità dall’autore partenopeo di scrutare la realtà circostante, indagarla e giungere al cuore delle cose, delle dinamiche, degli animi, raccontandone con onestà i meccanismi le dinamiche. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile se non avesse amato profondamente la propria città e i suoi concittadini.

   Ci piace concludere questo breve excursus con le parole con le quali Libero Bovio, all’indomani della sua scomparsa, descrive Francesco Mastriani:

   «Fu soprattutto, un innamorato di Napoli. Tutto egli amò di questo amore. Con lui scompare l’ultimo custode di una tradizione».

                                                                       MASSIMILIANO MOTTOLA

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[1] Francesco Mastriani, I vermi, G. Regina, 1878, p. 222

[2] Cfr. Antonio Palermo, Nel vestibolo, cit. p.580.

[3] Francesco Mastriani, I vermi, G. Regina, 1878, p. 3-4

[4] Ibidem pp. X-XI

[5] Ibidem pp.3-4

[6] Ibidem p.219

[7] Francesco Mastriani, I misteri di Napoli, Napoli, G. Nobile, 1869-70, vol.I p.140

[8] Francesco Mastriani, I vermi, G. Regina, 1878, p. 3-4

[9] Ibidem pp. 109-110

[10] Ibidem, p. 162

[11] Francesco Mastriani, I misteri di Napoli, Napoli, G. Nobile, 1869-70, pp. 51-54

[12] Francesco Mastriani, Le ombre, Napoli, L. Gargiulo, 1872, p. 5

[13] Francesco Mastriani, I vermi, G. Regina, 1878, p. 224-225

[14] Ibidem, p. 5-6

[15] Francesco Mastriani, Eufemia, Napoli, G. Salvati s. a. p. 103

[16] Francesco Mastriani, I vermi, G. Regina, 1878, p. 128

[17] Ibidem. p.126

[18] Francesco Mastriani, I misteri di Napoli, Napoli, G. Nobile, 1869-70, pp. VII-IX

[19] Francesco Mastriani, I vermi, G. Regina, 1878, p. 122