IL MARTIRE DELLA PENNA SENZA PAURA

   Alla fine ‘800 Francesco Mastriani criticò il malgoverno. Anche nell’Italia post-unitaria corruzione e clientelismo.

   Chi fu Francesco Mastriani? Ancora oggi, per incominciare a capirlo, la migliore introduzione resta l’affettuoso ritratto che Matilde Serao ne tracciò nel gennaio del 1891, quando fu raggiunta dalla notizia della morte di quel genio del «feuilleton».

   Ne riporto l’incipit: «Questo povero vecchio che si è spento oscuramente, carico di anni e di dolori, affranto da un duro e incessante lavoro che gli lesinava il pane, tormentato da una invincibile miseria, non soccorso dalla fredda speculazione giornalistica che lo ha tanto sfruttato, soccorso dalla segreta pietà di poche anime buone, questo martire della penna era, veramente, tra i più forti e più efficaci nostri romanzieri.

   L’opera sua, formata da cento e più romanzi, appare grezza, disuguale, talvolta ingenua nella scarsezza delle risorse artistiche; e negli ultimi romanzi suoi, è la fretta, lo stento, l’intima straziante pena di chi deve guadagnare, ogni giorno, quelle tre o quattro lire che gli davano: ma da tutta quanta l’opera sua, considerata insieme, emana una così fervida potenza d’invenzione che ha rari riscontri».

   Proprio così: Mastriani fu forse il nostro più grande, prolifico e sventurato narratore popolare dell’Ottocento. Quali altri romanzi italiani conquistarono famiglie di lettori più vaste di quelle che furono avvinte e commosse da piccoli capolavori della letteratura cosiddetta «di appendice» come «La cieca di Sorrento»?

   Eppure le storie attuali della nostra letteratura spesso non lo citano neppure. Ma non è per motivi di giustizia letteraria che oggi ne parlo. Il motivo è la lieta sorpresa procuratami dalla lettura di un libro fresco di stampa sulla figura e sull’opera di Mastriani che mi ha indotto fra l’altro a riflettere sul cambiamento subito dai suoi umori politici dopo la nascita dell’Italia Una.

   Naturalmente sapevo che egli ‒ che fino al 1860 era stato, con la necessaria cautela, schiettamente antiborbonico, devotissimo all’idea unitaria e fanatico di Garibaldi, per il quale, dopo il suo ingresso a Napoli, arrivò a concepire una vera idolatria – dopo il 1861incominciò presto a mostrarsi non poco deluso dell’operato dei suoi primi governi.

   Ma non ricordavo alcune di quelle pagine in cui espresse con sorprendente violenza il disgusto che provò per i nuovi governanti, soprattutto a causa  dello sfacciato «nepotismo» che manifestarono fin dal principio nella direzione della cosa pubblica. Intitolato «Che somma sventura è nascere a Napoli!» (un’espressione ovviamente ironica, dello stesso Mastriani), edizioni Aracne, 400 pagine 28 euro), il volume che le riporta è il frutto dell’incontro di una nostra appassionata studiosa, Cristiana Anna Addesso, con due diretti discendenti dello scrittore, Emilio e Rosario Mastriani, ai quali si devono molte pagine del libro, compreso il saggio che lo apre («Considerazioni eccentriche su Mastriani tra famiglia, cultura e società»).

   Il libro contiene molte altre utilissime sezioni, fra le quali la biografia di Mastriani scritta subito dopo la sua morte, nel 1891, dal figlio Filippo, e accuratissime bibliografie di tutti i suoi scritti (oltre cento romanzi, molte novelle e articoli e un bel mazzetto di lavori teatrali). Ma la parte per me più succosa è proprio lo studio della Addesso sulle sue speranze e delusioni politiche.

   Ecco alcuni passi che esprimono il suo disinganno: «I veri martiri della libertà non vanno a caccia di guiderdoni e d’impieghi». ‒ «Essendo la Camera de’ deputati il primo corpo legislativo dello Stato, ne conseguita che, dove i componenti di essa non sono i veri rappresentanti della nazione ma piuttosto i mandatari o complici di un partito qualunque, non può dal seno di questa camera emergere il bene di questa nazione». ‒ «Questi signori martiri che aveano tanta febbre di insediarsi negli alti posti, lavoravano per il bene dell’Italia o pel ben e delle loro saccocce?». ‒ «Seimila onesti impiegati furono speciosamente destituiti perché si doveva dar luogo a’martiri, a’cugini e a’nipoti dei consorti e a tutti quegli affamati che ci erano piovuti addosso come cavallette». ‒ «Gran peccato che questa Italia sì feconda d’ingegni non sia capace di nutrirli bene e nutrisca invece cialtroni, cortigiani ed istrioni».

   «La raccomandazione – osservò ancora quel candidissimo fustigatore – questo vecchio sistema della tirannide, questa melata corruzione che si insinua in tutta la sfera della burocrazia, seguita ad essere quasi l’unica norma delle nomine degl’ impiegati. Se avete un santo protettore potete sperare qualche cosa, altrimenti, foste voi più dotto del Muratori, sarete scartato. Abbiamo visto sotto il presente governo non aversi alcun riguardo ad uomini di elevata riputazione i quali sono stati sbalzati dai loro posti senza un peccato veniale per essere sostituiti da creature della ormai esosa consorteria».

   Col termine «consorteria» Mastriani alludeva ovviamente alla cricca liberal-massonica emersa dal Risorgimento, il cui stile di governo gli sembrava un intollerabile oltraggio ai principi del suo ingenuo cristianesimo socialisteggiante.

                                                                                              RUGGERO GUARINI

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   RUGGERO GUARINI (Napoli 1931 – Roma 2013), è stato uno scrittore e giornalista italiano. Entrato a sedici anni nel PCI, ne uscì dopo i fatti di Ungheria. Negli anni Settanta ha collaborato assiduamente al settimanale l’«Espresso», ha scritto per le riviste «Tempo Presente», «Mondoperaio», e «Nuovi Argomenti».

   È stato per diversi anno capo dei servizi culturale de «Il Messaggero». Ha scritto per «Il Tempo», «Il Giornale», «Il Foglio», «L’Informazione», «Corriere del Mezzogiorno» e «L’Indipendente».