L’oro di Napoli

L’oro di Napoli

   Napoli è piena zeppa di tesori, tesori particolari perché nascosti pur essendo ben visibili alla luce del sole. Andate a Torino, a Padova, a Siena, a Firenze, o anche a Milano e vedete come se le dicono e se le cantano (giustamente!) le glorie della città. A Napoli, ai napoletani sempre loquaci, disinvolti, colti e informati, gliele dovete tirare con le pinze due parole su Carlo III o su una delle sue creature, il teatro San Carlo, l’Albergo dei Poveri, la Reggia di Caserta… per non dire dei tesori meno frequentati, da Raimondo di Sangro a Francesco Solimena, da Domenico Cimarosa a Francesco Mastriani. A volte parlano di Napoli a ruota libera i napoletani, ma non certo per vantarsi: «Napule è…» spiega, per esempio, con candida e appassionata eloquenza il mio cantante preferito (a pari merito con Beppe Barra)… qualche cosa di speciale, ma le sue bellezze sono tutte nascoste perché da fuori non si vedono e non si sentono che carte sporche e pianti di creature. Non si salva neanche il mare, il mare di Napoli! Che “sta sempe ‘lla”, dice Pino Daniele, “tutte spuorche chiene ‘e munnezze e nisciune ‘o sta a ‘uardà”. Ma no! Non è vero! Niente di più falso agli occhi miei che di mari ne hanno visti veramente tanti al mondo. Ma perché? Perché, allora, c’è questa grande diversità di percezione? Una risposta ce l’avrei: forse è perché io non sono cittadino, ma regnicolo, ovvero originario del Regno e non della Città di Napoli. È una distinzione importante. I non-cittadini, i regnicoli, tali all’origine, diciamo così, e tali rimasti per antica fedeltà culturale, vedono, ammirano e amano Napoli da lontano; la distanza li aiuta a rintuzzare una non sempre giusta ironia e a riconoscere e ad apprezzare fenomeni di cui non ben s’accorge chi nella capitale del regno ci sta dentro.

   Spesso i napoletani cittadini, da Eduardo a De Simone per esempio, prendono in giro i regnicoli per i loro modi rustici o, in mancanza di modi rustici, per la loro pronuncia della lingua italiana. È capitato anche a me: «Franceshco, ma comme parle?… questho, questha, ‘a festha… È accussì che se parle a Peshcare?». Ma pur con tutta l’ironia dei più riusciti sfottò, nessuno s’è mai sognato di contestare la napoletanità dei regnicoli, di un Renzo Arbore dell’Orchestra Italiana, per fare un nome, o di un Domenico Modugno di Lazzarella, Resta cu ‘mmè, etc. per farne un altro. Che cosa può fare, allora, il regnicolo, quando vede e sente cose che il cittadino napoletano non vede, da un secolo almeno o non sente con uguale passione e interesse intellettuale? Certo, può scrivere un libro sulle bellezze di Mastriani e sperare che piaccia. Piacerà ai lettori dei libri di Mastriani comprati alle bancarelle  di Port’Alba, questo è poco ma sicuro. Fra quei napoletani cittadini che hanno studiato e che sono orgogliosissimi e che non prendono lezioni da nessuno, invece, forse piacerà un po’ meno. Ma, vivaddio, la Napoli città-mondo di Francesco Mastriani, mai veramente amata e studiata dai literati napoletani, è patrimonio dell’umanità, e sarà ben il caso di darne una buona e utile descrizione a beneficio del lettore  senza distinzione di provenienza o identità culturale. Questa, almeno, è l’intenzione che ha sostenuto la grata fatica consolidatasi nelle pagine che seguono.

   Il mio incontro con Mastriani è nato da una curiosità per la letteratura popolare sorta nel corso di studi accademici sulla storia dei media. Mi trovavo a studiare i diversi periodi dell’età tipografica, ovvero della cosiddetta Galassia Gutemberg, quando Mastriani entrò nella mia vita. Mi interessava capire la cultura che precede la scoperta e l’uso dei media elettrici ed elettronici. Quando neanche esiste un’idea remota di radio, televisione o cinema, il libro si legge in una maniera di cui ancora oggi, non tutti si rendono conto.

   A Mastriani sono arrivato dopo aver percorso chilometri di pagine di Carolina Invernizio e Luigi Natoli. Ci sono arrivato per caso, ma con il percorso che avevo intrapreso l’incontro sarebbe stato comunque inevitabile. Il mai abbastanza lodato e compianto Antonio Palermo, nel corso di un convegno napoletano lontano vari secoli dalla Nuova Italia, mi regalò il suo Da Mastriani a Viviani, magistrale volume di esplorazioni ottocentesche. Era proprio quello di cui avevo bisogno per darmi un’idea della lacuna e della sua ampiezza nella limitata conoscenza della letteratura popolare. Il volume di Antonio Palermo mi servì da stimolo e da guida. Appena tornato a Toronto ricordo che scelsi, per cominciare, il romanzo Matteo l’idiota in prima edizione (1856-1857) per la bella rilegatura in pelle e carta marmorizzata. A quei tempi, nella biblioteca universitaria di Toronto, aperta giorno e notte, si poteva scorrazzare tra gli scaffali a piacere, e prendere libri e portarseli in una delle tante sale di lettura (e c’erano anche quelle per fumatori) dei quattordici piani dell’edificio.

   Mi piacque moltissimo. Poi lessi Angiolina che trovai infinitamente migliore dell’opera di cui essa mi parve un rifacimento, ovvero della Ginevra di Antonio Ranieri che rilessi per scrupolo per confrontare l’ “originale” tanto noto (ma per via di Leopardi e della favola di Gladstone, non per meriti intrinseci) con la riscrittura di Mastriani. Il romanzo successivo, ricordo, fu La Medea di Porta Medina che mi sembrò, come mi sembra tuttora, un capolavoro assoluto. A quel punto decisi di leggere tutta l’opera di Mastriani. Esaurita la scorta della biblioteca (una decina di volumi) cominciai l’incetta. Non avevo la più pallida idea  del peso dell’impegno che prendevo con me stesso.

   Mentre reperivo qualcosa in antiquariato, preparavo, con la bibliografia di Antonio Di Filippo che allora era la più completa, l’elenco dei romanzi da cercare a Roma, dove da secentista, mi recavo e mi reco ogni anno in devoto pellegrinaggio. Ma neanche a Roma, alla Biblioteca Nazionale, trovai tutti i romanzi. Ci volle un viaggio apposta a Napoli. Certo, potevo pensarci prima, ma come sospettare che la lacuna non fosse solo mia e della biblioteca universitaria di Toronto, ma anche italiana e della Biblioteca Nazionale di Roma? A Napoli c’era, c’è, quasi tutto, nella sezione Lucchesi Palli della Biblioteca Nazionale. Ci sono anche tutti i romanzi  che non hanno mai visto la luce a stampa in volume, ma sono stati pubblicati in appendice: una ghiotta raccolta di rarità di grandissimo valore. Raccolsi tutto, ma mi mancava ancora un romanzo, Il padrone della vetraia dell’Arenaccia (altro titolo della Carolina della Pignasecca), quando mi venne in soccorso la generosità di Emilio Mastriani che qui, per quella preziosa copia fotostatica, ringrazio di cuore. Finalmente avevo tutto, anzi più di tutto perché avevo intanto acquistato in antiquariato un documento raro, una breve nota manoscritta di Mastriani per ringraziare il sindaco di Napoli, Rodrigo Nolli barone di Tollo (sindaco dal 1 settembre 1865 al 26 novembre dell’anno dopo) di un piccolo sussidio ricevuto a puro titolo personale.

   Arrivato a questo punto c’era da interrogarsi sul come procedere, c’erano obiettivi didattico-divulgativi da definire e percorsi retorici da tracciare per portare Mastriani all’attenzione di gente di scuola e di cultura. Ma intanto, per stare con i piedi per terra, come muoversi practica mente? Scrivere e divulgare le carte (le opere narrative) ignote? Certamente! Ma dove cominciare? Come impostare il lavoro? Ci sarebbero, innanzi tutto, da recuperare i romanzi sepolti tra le scartoffie fragilissime delle raccolte delle pubblicazioni periodiche napoletane, del quotidiano Roma in particolare. Sarebbero opportune edizioni affidabili, se non critiche, delle opere meno note. E ci sarebbero, poi, da cercare altre lettere di Mastriani e da dare una sistemazione filologicamente accurata del suo epistolario. Per un autore tanto prolifico sorprende che siano a tutt’oggi note solo pochissime lettere familiari. L’operazione più sicura e fattibile è comunque quella di riportare quanti più romanzi possibili alla luce (solo quelli del “Roma” sono una trentina, ma ce ne sono parecchi anche che meritano una nuova edizione). Occorre che questa operazione sia fatta con cura e con buona intelligenza della poetica generale del Nostro perché la sola ristampa di opere del “Roma” senza uno straccio di introduzione critica non porta da nessuna parte e, anzi, aumenta la confusione.

   D’altra parte, però, mentre le revisioni e le riscritture della nostra storia letteraria mi sembrano giuste e anzi necessarie, altrettanto non mi sembra che sia qui il caso di prendere di petto questi problemi grandi. Che personalmente sento il bisogno di affrontare (sono inevitabili), ma in maniera obliqua, semplicemente con l’evidenziare i meriti del grande scrittore napoletano, ignorato dalla storiografia corrente.

   L’impegno prioritario è dunque quello di aiutare ad esplorare e conoscere a fondo l’opera di Mastriani. Per essere ancora più chiaro: queste pagine non sono rivolte principalmente al critico letterario, allo storico della cultura napoletana, o allo storico della letteratura italiana, ma al lettore che sente il bisogno di orientarsi e magari anche di organizzarsi nell’affrontare una lettura non occasionale dell’opera di Mastriani. Mi riterrò quindi totalmente appagato se questo libro riuscirà ad avere una qualche minima utilità come una vera e propria guida alla lettura dell’ampissimo corpus narrativo dello scrittore napoletano.

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L’assenza di Mastriani nel canone De Sanctis

   Argomento da affrontare subito e liquidare (per quanto possibile, per non inquinare con un anacronistico risentimento le successive pagine descrittive dell’opera narrativa di Francesco Mastriani) è l’esclusione del Nostro, senza dubbio il più letto e amato scrittore napoletano dell’Ottocento, da ogni pur minima menzione critica nei numerosi scritti di Francesco De Sanctis, docente, storico della letteratura, “segretario del Consiglio della pubblica istruzione” sotto  Ferdinando II di Borbone e tre volte ministro della Pubblica Istruzione dell’Italia unita.

   Scelgo di affrontare l’argomento in relazione all’assioma della ciclicità della storia e alle mutazioni culturali conseguenti, un percorso inconsueto (per molti) ma a mio parere più che convincente.

   Da Vico a McLuhan, passando per Wölfflin e Frye, diverse sono le implicazioni del comune assioma della ciclicità della storia. Diversi sono anche i loro percorsi storici di riferimento, le loro estensioni cronologiche e gli eventi culturali che segnano il passaggio da un ciclo al successivo, ma dalle loro diverse lezioni si può trarre una coerente ragione logica  nel riconoscere nell’avvento della stampa a caratteri mobili un momento decisivo della storia moderna, e nella conseguente emancipazione della coscienza individuale uno degli elementi fondamentali dell’intera cultura tipografica.

   L’Ottocento non è soltanto un “secolo tipografico”, visto che l’intero secolo è teatro dell’incipiente “elettricismo” di una nuova cultura globalizzante, planetaria: si passa infatti dalle scoperte di Alessandro Volta (1745-1827) alla cultura internazionale del telegrafo con la posa dei cavi transoceanici; si passa dall’anello di Antonio Pacinotti (1841-1912), cuore del motore elettrico e dell’elettrotecnica, alla radio di Guglielmo Marconi (1874-1937). La cultura tipografica della “Galassia Gutemberg” comincia a cedere terreno alla cultura elettrica della “Costellazione Marconi” in cui siamo oggi pienamente immersi.

   Ora, sia Marshall McLuhan, cui risalgono le due metafore epocali appena ricordate, sia Giovan Battista Vico, Northrop Frye ed Heinrich Wölfflin, nei loro pur diversi cicli storici, convergono almeno sul punto di transizione, ovvero su un cambio di direzione al momento di fine di un ciclo e d’inizio del ciclo successivo. La cronologia, con il suo fluire lineare, non aiuta a capire l’inversione di rotta di un ciclo storico dall’altro, da una cultura all’altra, dalla cultura tipografica a quella elettrica. Ma proprio di questo si tratta, almeno a sentire McLuhan che più di ogni altro si è occupato di questo frangente trasformativo della cultura. È un momento che lui chiama il “blitz and metamorphoes” per dire che quando, appunto, un grande ciclo storico si sta chiudendo e la cultura sta cambiando radicalmente, abbiamo una sovrapposizione di forze in aperta opposizione, per cui mentre da una parte si ha una decisa spinta dello spirito innovativo, dall’altra c’è una sorprendente nuova tendenza alla conservazione, ovvero a rafforzare “i solidi valori del passato”.

   È con questo in mente che intendo mettere a fuoco un momento particolare del ciclo storico della stampa dell’Ottocento a Napoli, un passaggio fluido dal purismo della lingua alla lingua del popolo, ovvero da Basilio Puoti (1782-1847) a Francesco Mastriani (1819-1891) con l’intoppo ahimè determinante per l’identità della cultura italiana di Francesco De Sanctis (1817-1883).

   Il periodo che ci interessa è la metà del diciannovesimo secolo e il luogo è il Regno delle due Sicilie, cioè del Regno di Napoli così ribattezzato nel 1816, regno governato dal 1830 da Ferdinando II, monarca pimpante a vent’anni, pieno di promettenti virtù e, vent’anni dopo, re stanco, avvilito, pieno di disastrosi difetti. Nato liberale, Ferdinando diventa ostinato conservatore; religioso, ma crudele come solo i fanatici riescono ad essere (lo chiamano Re Bomba per il cannoneggiamento sistematico della città di Messina nel settembre 1848); è amico della scienza (è lui a far costruire la prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici, inaugurata nell’ottobre del 1839), ma diventa nemico di tutti gli intellettuali e in particolare dei letterati che chiama con disprezzo “penniferi”. Ferdinando cambia decisamente in peggio dopo il 15 maggio 1848. Successe di tutto in quell’anno e non solo a Napoli: moti rivoluzionari perfino in Spagna e perfino in Austria; l’Italia è sottosopra. Pio IX e lo stesso Ferdinando sembrano favorevoli a un’idea comune di coscienza nazionale. Ma è solo un’illusione.

   A Napoli Ferdinando concede la costituzione all’inizio dell’anno e le libere elezioni si tengono in primavera. I nuovi eletti al parlamento costituzionale convergono nella capitale per l’apertura del parlamento prevista per il 15 maggio. Ma il 15 maggio si alzano le barricate e Ferdinando perde la testa, s’inferocisce. Dopo averle abbattute a cannonate, dà inizio alla più lunga e severa reazione (della lunga serie delle reazioni borboniche) dai tempi della Repubblica Partenopea del 1799. Con la restaurazione del potere assoluto del sovrano si proclama lo stato di polizia che porta diritto alla dissoluzione della monarchia borbonica: morto Ferdinando (a 49 anni, il 22 maggio 1849), l’inerme Francesco II cede il regno al cugino semianalfabeta, Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, mentre Carlo III si rivolta nella tomba a Madrid, o, più precisamente, nella cripta reale di San Lorenzo de El Escorial.

   Da un punto di vista mass-mediologico, nella metà dell’Ottocento la cultura tipografica è già più che matura, comincia anzi ad invecchiare; con i primi sentori della cultura elettrica, reagisce con il purismo linguistico e, a Napoli con il purismo del marchese Basilio Puoti. Come siamo arrivati a questo, ovvero a questa anomalia della democratizzazione propria della cultura tipografica (al “purismo” espressione di una èlite in aperta opposizione all’egualitarismo)? Vediamo un po’di ricostruire, per sommi capi, la biografia per così dire del medium tipografico. Dopo i primi cinquant’ anni di infanzia incosciente, ovvero nella culla, ovvero di incunabula, la stampa comincia a mostrare i suoi muscoli giovanili favorendo, o addirittura determinando, fenomeni epocali, quali, da subito nel Cinquecento, la riforma luterana e quindi, su vasta scala, la specializzazione nelle arti, lettere e scienze. Ciò porta, nel secolo barocco a Galilei, Marino, Monteverdi, Caravaggio, Bernini, Borromini, Andrea Pozzo e all’internazionalismo delle missioni gesuitiche. Nel secolo successivo la tipografia porta i lumi all’Illuminismo, all’enciclopedia di Diderot e d’Alembert e fornisce il propellente socio-antropologico alle rivoluzioni della emancipazione delle masse: la Rivoluzione americana, la Rivoluzione francese e la rivoluzione industriale.

   Gli effetti della stampa, prima sublimali, diventano sempre più noti agli utenti del medium, sempre più consapevoli. La Rivoluzione Partenopea del 1799 si impernia sul Monitore Napoletano, il giornale di Eleonora Pimentel Fonseca. Ora, proprio per questo, parlare di cultura elettrica dell’Ottocento può sembrare un’assurdità, ma basta dare un’occhiata alla prima pagina del Roma (il quotidiano napoletano inaugurato nel 1861 con l’unificazione) per rendersi conto del fatto che il suo contenuto è in buona parte di provenienza telegrafica. Il telegrafo, primo medium elettrico (1820-1825), si mette per il momento al servizio del medium stampa. La posa di cavi transoceanici nell’Atlantico – l’inizio del wiring-up of the planet – è del 1858: esempio massimo di cultura elettrica quarant’anni buoni prima della radio, praticamente già un’apertura della “Costellazione Marconi”.

   Come nel passaggio dal manoscritto alla stampa, ora nell’interfaccia medium- tipografico medium-elettronico, abbiamo a Napoli il gap culturale descritto da McLuhan come “Blitz and metamorphose” con doppio orientamento verso il passato (Basilio Puoti) e verso il futuro (Francesco Mastriani): e cioè purismo linguistico (esemplificato sul classicismo medievale addirittura) e lingua del popolo sovrano in regime democratico ovvero la lingua della comunicazione quotidiana.

   Rispetto all’aristocratico, e diciamo pure codino, marchese Basilio Puoti (le cui massime aspirazioni nella vita erano la chiamata dagli accademici della Crusca e dalla corte borbonica, come socio onorario dell’una e come tutore del principe ereditario dell’altra), Mastriani si attesta ad anni luce di distanza anche se entrambi sono espressioni dello stesso fenomeno culturale. Mastriani ha a cuore l’educazione delle masse. «Abbiamo in Italia la spaventevole cifra di sedici milioni di analfabeti», scrive nella prefazione dei suoi Misteri di Napoli (1869-1870) ed è dovere dello scrittore cambiare questa situazione. L’impegno didattico-educativo dello scrittore è riconosciuto e lodato dal fratello Giuseppe, insegnante e scrittore anch’egli, che, a proposito  de I lazzari (1865), altro romanzo “socialista” di Francesco scrive:

 

   « Assai mi compiaccio del tema che in questo lavoro hai preso a trattare. I nostri legislatori […] i quali parlano sempre di popolo, non si danno alcun pensiero della plebe e dei miserabili. Tutto si fa oggi per un cert’ordine di persone, e per l’infimo ceto nulla.Se ti fai     oggi a svolgere lo sguardo alle scuole popolari dovrai senz’altro meravigliando domandarti: e dov’è quella gente misera che ha di educazione e d’istruzione tanto bisogno?».

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   Il messaggio di Giuseppe Mastriani è molto chiaro: tanta gente, tantissima gente ha bisogno di scuola (popolare), ma la scuola non è per tutti. E certamente, aggiungiamo noi, non è quella del Puoti, pur gratuita e “aperta a tutti” (cioè a quattro gatti), né tantomeno quella del De Sanctis.

   Ma torniamo per il momento al nostro Mastriani. Non so dove abbia preso la cifra dei 16 milioni di analfabeti tra 22 milioni di italiani, ma è un fatto che fra 22 milioni di italiani nel 1861 il primo parlamento del Regno d’Italia venne eletto da un minuscolo bacino di elettori autorizzati di 240 mila persone. Se è vero, come è vero, che la cultura tipografica, da Gutemberg in poi, ha portato all’emancipazione dell’individuo e delle istituzioni democratiche, dobbiamo purtroppo ammettere che la stampa per quattrocento anni non ha funzionato al massimo del suo potenziale in Italia.

   Il marchese Basilio Puoti, come individuo, visse in un contesto socio-culturale completamente diverso da quello di Mastriani, che, fra l’altro, era di una generazione successiva. La scuola del Puoti fu possibile grazie al vuoto creato dalla soppressione dell’ordine dei gesuiti che mai, dopo il loro rientro ai primi dell’Ottocento, ripresero le redini dell’istruzione pubblica. Puoti muore nel 1847 e l’anno dopo, nel tormentato 1848, Mastriani pubblica il suo primo romanzo, Sotto altro cielo.

   La morte del Puoti significò la fine della sua scuola di purismo. Non c’era posto per essa, così elitaria e astratta, nella realtà politica del giorno. Il giovane Mastriani era troppo preso dalla sua carriera giornalistica per legarsi alla scuola del marchese. Di cui comunque lodò lo spirito. Ne lodò anche alcuni discepoli come il poeta Costantino Amato (1816-1837) e Antonio Ranieri (1806-1888), l’amico napoletano di Leopardi, autore del romanzo Ginevra o l’orfana della Nunziata (1839) apprezzato dal Puoti stesso per il suo linguaggio. Quel linguaggio certamente non poteva piacere a Mastriani, che praticamente riscrisse il romanzo nel 1837 con la sua orfana Angiolina, dello stesso istituto, e con una lingua più realistica, espressiva, credibile e popolare.

    Ma forse il più famoso allievo del Puoti fu proprio Francesco De Sanctis, giunto alla sua scuola da ambizioso giovane emergente della classe della piccola borghesia dei piccoli proprietari terrieri. Uomo di scuola, insegnante a quindici anni nella scuola dello zio prete. De Sanctis ebbe incarichi scolastici pubblici anche nel periodo borbonico (il che, per inciso, dovrebbe far riflettere sulla dimensione politica della sua storia letteraria nazionale). Come sopra ricordato, fu poi ministro della Pubblica Istruzione in tre diversi governi del Regno d’Italia. professore di letteratura con una missione in mente (“a mission from God” come quella dei Blues Brothers, che comunque non erano massoni e non avevano due preti in famiglia), non solo massone ma massone di alto rango, non poteva contentarsi di un’idea educativa come quella del suo maestro Puoti, per il quale il purismo della lingua costituiva un valore in sé, al di là dei suoi possibili usi socio-politici. Altrettanto negativo dovette essere per il De Sanctis il modello educativo Mastriani: una scuola aperta all’emancipazione del popolo senza barriere di classe, senza strutture gerarchiche di orientamento e di controllo. Mastriani non era ovviamente tanto ingenuo da proporsi come modello, ma è lampante, soprattutto nei primi romanzi dopo l’unificazione, dai Vermi ai Lazzari, ai Misteri di Napoli, l’idea di una scuola aperta attraverso la letteratura popolare, una scuola “pubblica” non alternativa, ma complementare alla scuola pubblica istituzionale.

   Le centinaia di migliaia (se non i milioni) di lettori di uno scrittore che proclama ai quattro venti l’obbligo sociale dell’istruzione delle masse non meritò neanche un breve commento del conterraneo  ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia. Per De Sanctis l’insegnamento rientra nell’ambito di una organizzazione sociale molto strutturata. I maestri sono per lui “officiali” di un ideale lyceum gerarchicamente sottoposto a una classe dirigente illuminata e patriottica. Niente di più lontano dello spirito libero, aperto, benevolmente antigerarchico sia del Puoti che del Mastriani.

   A questo punto non è solo giusto, ma necessario, cominciare a trarre delle conclusioni. Presento qui un’interpretazione mass-mediologica degli eventi e delle posizioni dei tre interpreti delle turbolenze culturali registrate a Napoli intorno alla metà dell’Ottocento – le date sono importantissime: Basilio Puoti (1782-1847), Francesco De Sanctis (1817-1883) e Francesco Mastriani (1819-1891).

   Non c’era prima del Puoti a Napoli, o nel regno, una scuola pubblica di umanità che ricordasse anche lontanamente i colleghi gesuitici di prima della soppressione vaticana dell’ordine nel 1773. Il purismo del Puoti, il suo “ritorno ai classici” corrisponde esattamente alla fase di cultural retrieval che si può osservare in tutti i momenti di accelerata trasformazione culturale. Il ritorno al passato del Puoti è in effetti un “atteggiamento progressista” che propone infatti un superamento dello status quo, cioè quello della totale assenza di istituzioni pubbliche d’insegnamento umanistico a seguito della soppressione dei gesuiti.

   Ponendo a lato della questione la posizione del Puoti come ovvia espressione di retrieval, ci troviamo con due opposte risposte alla crisi, quella di De Sanctis e quella di Mastriani. Entrambi espressioni della piccola borghesia, da un punto di vista mass-mediologico erano in una condizione privilegiata per i progressi democraticizzanti della cultura tipografica. Vediamo in De Sanctis molto marcati i segni di una forte modernità tipografica: nel suo anticlericalismo prima di tutto, nel suo bilioso antigesuitismo, nelle sue “progressiste” ambizioni sociali, nel suo bisogno individuale di emergere, nel suo sistema scolastico, laico, centralizzato e gerarchico: aperto a tutti, ma segretamente settario e controllato da pochi. Tutto questo si intona perfettamente alla modernità tipografica. Non c’è segno di cultura elettrica da queste parti, e neanche l’ombra di un pensiero utopico, di un sogno poetico di società libera, genuinamente democratica e poeticamente giusta, che invece lì a poco scoppierà nei circoli anarchici.

   Il caso di Mastriani mostra varie somiglianze, ma alle caratteristiche tipografiche della sua personalità si sommano varii aspetti di cultura decisamente elettrica. Anche Mastriani, ma più per ignoranza storica che per moda “liberale”, se la prende con i gesuiti; comunque non è sempre anticlericale e distingue fra cattivi e buoni preti, di cui presenta numerosi esempi nei suoi romanzi. La specularità della posizione di Mastriani consiste nel propugnare i valori tipografici, fondamentalmente democratici e moderni (dall’individualismo più schietto del self-made man alla necessaria partecipazione dell’individuo al benessere collettivo con il lavoro, dalla scuola pubblica alla pensione di Stato) insieme ai valori cristiani fondamentali sentiti con una disposizione mistica, senza mediazioni pretesche. Mastriani legge il Vangelo e L’imitazione di Cristo insieme a libri di esoterismo e culture alternative, libri di “mesmerismo” e di “elettricismo”. È un curiosissimo esploratore di testi di parapsicologia, di telepatia… Ha una sua idea di rincarnazione che esprime in un romanzo singolare, La rediviva, con tanto di caveat per i suoi lettori cattolici praticanti. Crede nella “jettatura” come fenomeno dovuto a particolari effetti di cariche elettriche emanate da corpi umani particolari. Si professa sempre cristiano. È ecumenico e socialista; si trova bene fra aristocratici e plebei. Disprezza e ridicolizza la classe media del parvenu, degli arrampicatori sociali furbi e disonesti, dei nuovi ricchi che con modi goffi scimmiottano i loro antichi padroni e vessano i loro ex compagni di classe sociale. La dimensione culturale elettrica di Mastriani consiste in ultima analisi nel suo sentirsi cittadino del mondo, pacifista, sognatore e realista, profondamente egualitario in una totalmente nuova dimensione sociale. I grandi cambiamenti del mondo per lui passano per la scuola e l’impegno educativo dovrebbe essere primario in ogni scrittore, per far sì che la letteratura riveli in ogni singolo lettore tutto il suo potenziale emancipativo.