La passione per la storia connota fortemente alcuni periodi e momenti storici, e il nostro fa parte di questi. Lo dimostra l’incremento degli studi storici, e, soprattutto, la fioritura di romanzi di ispirazione storica e di una pubblicistica divulgativa che troppo spesso si accosta sia la romanzo che alla saggistica storica. Da un lato gli storici si impegnano a dare una struttura scientifica alla conoscenza della storia, dall’altro la maggior parte della gente ha i medesimi desideri di conoscere il passato, soprattutto del suo popolo, ma esercita la sua immaginazione sui fatti storici consegnati al romanzo e all’epos, dove essi assumono la forma di miti che vivono un’esistenza parallela a quella della storiografia ″scientifica‶. È stato autorevolmente sostenuto che la storia in epoca moderna ha preso il posto del mito, ma questo più plausibilmente si può dire del romanzo storico, in cui la dimensione mitica è un elemento determinante.
Questo sembra dimostrare che in tutte le culture esiste una percezione doppia dei fatti storici, contesi da un lato da una presunzione di scienza e dall’altro affidati a una rappresentazione immaginaria.
In genere gli storici ″scientifici‶ non resistono alla tentazione di liquidare i romanzi storici come lavori mendaci e inutili, oltre ad essere concorrenti pericolosi e più fortunati nel mondo del mercato, e li considerano spesso dei beni di consumo contraffatti e taroccati. In realtà, anche quando sono storiograficamente inattendibili, almeno i migliori di essi pongono spesso problemi di scottante attualità, azzardano intuizioni nuove ed entrano spesso nel vivo dei dibattiti culturali e politici del loro tempo. Le responsabilità del romanziere storico sono grandi, proprio per questa capacità di influenzare un pubblico enormemente più vasto dei lettori degli storici.
Ma anche quando riconosciamo al romanzo storico il diritto di esistere, perché anch’esso risponde a una domanda di storia espressa da un vasto pubblico di lettori, le differenze decisive tra i due generi sono notevoli: le scienze trattano i fatti dalla parte delle strutture e della funzione, laddove il romanzo storico, in quanto romanzo, è proiettato verso una totalità ricca e intensa; il saggio storico non ignora la dimensione emotiva e la sfera del simbolico, ma comunica emozioni e simboli concettualmente (ossia traducendo le emozioni in concetti astratti e impoverendo i simboli nelle loro spiegazioni); invece il romanziere possiede un linguaggio altamente simbolico, quello della letteratura, in grado di comunicare le emozioni che egli attribuisce ai personaggi mediante le proprie emozioni, che in qualche modo vicariamente le rappresentano, e che il lettore accoglie come autentiche, come per un magico affidamento.
Il problema, che stiamo cercando di focalizzare, non è tanto quello del diritto di esistere del romanzo, quanto quello di capire, tra le altre cose, la sua compatibilità con la storia, ossia la sua utilità o complementarità per la conoscenza degli eventi storici, tenendo conto che esso è stato ed è ancora, a dispetto di quello che pensiamo e crediamo, informatore (e formatore) di storia per un vasto pubblico di lettori, che rimangono distanti dalla saggistica storica.
Nel trattamento delle fonti storiche, la differenza tra il romanziere e lo storico consiste nel fatto che quest’ ultimo deve rispettare una procedura rigorosa e soggetta a verifiche, che pretende in primo luogo la conoscenza e il rispetto dei fatti documentati, laddove lo scrittore conservi la sua libertà d’inventare. Quando ai limiti dell’ invenzione, è necessario che egli restituisca un quadro storico o un’esistenza individuale con una certa verosimiglianza, questo però non basta a fare del suo racconto un’opera interessante dal punto di vista dello storico, se non la si specifica meglio. La sua validità e utilità per la conoscenza storica dipenderanno soprattutto dalla capacità di interpretare intuitivamente (ma anche concettualmente) lo spirito di una vicenda, di un’intera società o di un’epoca, anche inventando e manipolando le fonti in maniera funzionale a questo scopo. In altri termini, lo scrittore non può ignorare le fonti né esimersi da una conoscenza approfondita delle forme di vita e degli eventi di un momento storico, ma può subordinare il loro trattamento, ricorrendo anche a invenzioni e manipolazioni, a quella ″intuizione dell’insieme‶, al ″colpo d’occhio‶ che restituisce l’anima profonda della storia. Se uno scrittore si cimenta con la storia, deve saper restituire di un periodo storico o di un’epoca o di una presunta condizione universale (concreta) dell’esistenza un’immagine che dovrebbe trovare innanzitutto un riscontro concettuale nei professionisti del lavoro storico. Questo potrà avvenire – come dimostrano tutte le esperienze passate dei buoni romanzi storici: si pensi a Balzac letto da Engels – se lo scrittore possiede i mezzi per procurarsi una serie così vasta e articolata di informazioni significative, da consentirgli di ″entrare‶ nelle situazioni evocate, dando l’illusione di ″esserci stato‶. Con l’aggiunta delle risorse (quando ci sono) del suo talento, della profondità delle sue intuizioni e della forza della sua scrittura, che daranno l’impressione di un ritorno felice dalla discesa agli inferi. Allora il romanzo storico potrà accompagnare la storia evocata dagli storici, e a volte approfondirla e persino porsi a volte come un’alternativa. Un romanzo che non si attiene a queste condizioni può legittimamente aspirare a essere considerato, se i lettori glielo consentono – un buon romanzo – ma non ha il diritto di definirsi un romanzo storico. Perché non può pretender, di fare luce sulla storia, se la storia non c’entra.
L’opera che qui si presenta è un romanzo sulla rivoluzione napoletana del 1799, pubblicato in due volumi nel 1870 a Napoli col titolo Luigia Sanfelice. Due feste al mercato [1] e riproposto nel 1876 presso l’editore Gabriele Regina col titolo parzialmente modificato e più aderente alla materia del romanzo (Due feste al Mercato-Memorie del 1799). L’autore, Francesco Mastriani (1819 – 1891), giornalista, impiegato, docente, ha pubblicato un numero consistente di romanzi ispirati alla vita napoletana, che trovano corrispondenze, fuori d’Italia, con Il ventre di Parigi di Eugène Sue, con cui condividono le caratteristiche migliori del feuilleton, il merito di aver esplorato contesti sociali poco conosciuti e il successo presso il vasto pubblico. Oltre a romanzi (Il campanello dei Luizzi, Lucia la muzzonara, La spigaiola del Pendino ecc.) Mastriani si è dedicato con più misura al romanzo storico, come l’opera sul 1799 che qui si presenta, e a scritti sociologici inseparabili da questa vastissima produzione che anticipano il verismo (I vermi, I misteri di Napoli).
Mastriani pubblica il suo principale romanzo storico sulla vita e morte della rivoluzione napoletana alcuni decenni dopo il drammatico evento, per cui la sua narrazione si fonda non sulla conoscenza diretta, ma su quello che era rimasto nella memoria collettiva e soprattutto sulla vastissima produzione italiana e straniera di racconti, cronache, discorsi, saggi, studi storici e agiografici comparsi prima, durante e dopo la tragica esperienza repubblicana. Questo lo differenzia dalla memorialistica e ne fa uno scrittore che lavora con la storia. In fondo, l’autore nuotava nel suo mare, essendo un dotto esperto delle cose napoletane, che raccoglieva dati che già riempivano le bibliografie del suo tempo, e che traduceva in narrazioni gli episodi del ’99 con – per chi non aveva gusti troppo sofisticati – una capacità affabulatoria nella sua semplicità e chiarezza. Alcune di queste narrazioni sono trasposte nel romanzo, cogli accorgimenti o le diluizioni necessarie alla conservazione della struttura narrativa, che è costituita da quadri storici dotati di autonomia ma coordinati in maniera significativa. Quello che più di tutto differenziava il romanziere dagli storici di professione era la libera invenzione, in cui si scatenava la sua immaginazione: dove i dati non lo soccorrevano, egli rimediava inventando dialoghi e situazioni, disegnando caratteri, descrivendo psicologie che non è del tutto difficili indicare come verosimili, ma in linea a quanto gli suggeriva la tradizione ormai consolidata sul Novantanove, non solo quella scritta, ma anche quella orale, diffusa tra la popolazione di Napoli. Da qui un problema irrisolvibile di fonti, perché le fonti in molti casi risultavano riscritte dalla memoria collettiva, in cui personaggi e fatti erano entrati nella leggenda.
Il romanzo di Mastriani dipendeva dunque dalla vulgata e insieme dalla tradizione colta sul ’99, che dovettero essere dissimili nei dettagli, ma pressoché identiche nello spirito del racconto, ossia nella visione apologetica della Rivoluzione repubblicana. Per uno studioso del ’99 c’era poco da scegliere: la lettura della Rivoluzione era già stata scritta dagli intellettuali che avevano avuto un ruolo di primo piano in quella tragica esperienza, si era trasmessa alle generazioni successive e, con la medesima fedeltà, a tutte quelle che sarebbero venute dopo, fino ai nostri giorni, ossia fino alla pubblicazione – ma sono solo esempi – dei due romanzi della Macciocchi, Cara Eleonora (1993) e L’amante della rivoluzione (1998). In questo quadro storico-ideologico (in ultima analisi, mitologico), non mancano però incertezze e perfino contraddizioni. Per tutti il ’99 è stato un momento sacrificale che ha fondato i valori liberali e democratici della Nazione napoletana, l’intoccabile simbolo identitario del Reame e della cultura del Meridione [2]. Come è spiegato nel bel saggio di Francesco Guardiani, la prima sollecitazione a scrivere questo romanzo fu data a Mastriani dalla lettura del libro sulla rivoluzione napoletana del 1799 di Alessandro Dumas padre [3], che aveva enfatizzato in maniera irritante il ruolo svolto dai francesi nella nascita e nel governo della Repubblica e sminuito e avvilito quello del popolo napoletano. Mastriani ha voluto dare una risposta a questa interpretazione stravolta di un evento tragico di cui i napoletani erano stati protagonisti e vittime: fu uno scatto dell’orgoglio napoletano ferito per correggere la prospettiva storica, difendere la dignità del popolo napoletano e mostrare la sua vera natura. Era una scelta coraggiosa, che – come ho anticipato – si inquadrava in una visone storica già consolidata nel pensiero e nell’immaginario dei partenopei. Sotto questo aspetto nel romanzo il caso più significativo è quello della Sanfelice, una persona quasi ordinaria che viene trasformata in eroina. Ma tutta la storia del’99 è riscritta in una prospettiva patriottica e liberale, che rappresentava la monarchia borbonica, la corte e la controrivoluzione sanfedista come un mondo corrotto e retrivo, che Mastriani riscrive nelle forme orrifiche del feuilleton e nelle tinte fosche del racconto nero: è vero che la realtà storica del ’99 presenta elementi a volte più tragici e perversi di quelli immaginati, ma quello che convince meno è la distinzione netta tra le due parti, quella liberale e quella reazionaria: malvagità, crudeltà, perversione da un lato, innocenza, lealtà, eroismo dall’altro, secondo una struttura di base e lo stile formale dei romanzi d’appendice: nero e bianco, bene e male, giusto e ingiusto, vero e falso, nell’assenza totale del chiaroscuro tipica delle rappresentazioni manichee.
In questo quadro storico-ideologico (in ultima analisi, mitologico) non mancano però incertezze e perfino contraddizioni. Stranamente, nella rappresentazione del regno del male lo scrittore spesso si lascia incantare dalla inusuale bellezza, eleganza e fascino delle donne aristocratiche, che, pur essendo il pendant femminile del potere maschile e della sua perversione, riescono ad incantare gli uomini, e, tra questi, mi sembra, lo stesso scrittore. E qui siamo oltre la storia, vicino alle pulsioni dell’inconscio.
Rispetto alla tradizione giacobina, la pagina che Mastriani dedica all’esperimento monarchico di San Leucio rappresenta una novità: la propaganda rivoluzionaria nei mesi della Repubblica si era sforzata di sminuire se non di infangare questo merito indubbio della monarchia borbonica, raccontando alla popolazione, e soprattutto alla plebe, che San Leucio era soltanto il bordello di re Ferdinando [4]. Lo scrittore invece ritiene che Ferdinando «non mancava di senno politico; e una prova luminosa in fatto di governare un popolo fu lo statuto che egli creò per la colonia di San Leucio, e che può gareggiare co’più liberali che sieno mai usciti da penne di filantropi riformatori».
Mastriani non ignora che il re è responsabile della distruzione della Repubblica e delle nefandezze della controrivoluzione, ma al tempo stesso fatica a collocare Ferdinando tra i mostri del regime, probabilmente perché, come scrittore e come napoletano, non poteva rimanere indifferente al fatto che il re incarnava, tra i personaggi della corte, alcuni dei lati più interessanti della napoletanità: «lo spirito sarcastico, comunque lazzaresco, grossolano, ma comunque mordace e terribile», la «naturale perspicacia», che lo scrittore ha saputo cogliere nei lazzari che riempiono le pagine dei suoi libri.
Domenico Scafoglio
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[1] In questa edizione il titolo esatto è Luigia Sanfelice. Romanzo storico, e non Luigia Sanfelice. Due feste al Mercato (nota di Rosario Mastriani).
[2] Per queste riflessioni mi permetto di rinviare al mio scritto Michele ‘o Pazzo, lazzaro e giacobino, spec. al saggio introduttivo Perché è fallita la rivoluzione napoletana, Nocera Superiore, D’Amico, 2020.
[3] Due capitoli di storia e di letteratura di Napoli e dell’Italia, in «Rivista di italianistica», XXV, 2013.
[4] Cfr. Domenico Scafoglio, Lazzari e giacobini, Napoli, L’Ancora, 1999.