INTRODUZIONE

Mastriani, scrittore di romanzi d’appendice

   «C’era, invece, in Napoli un romanziere d’appendice che non solo è importante per la conoscenza dei costumi e della psicologia del popolo e della piccola borghesia partenopea, ma rimane il più notabile romanziere del genere che l’Italia abbia dato: Francesco Mastriani». [1]

   In questa citazione, in particolare un termine mi ha colpito ed è un avverbio: invece. Questo avverbio è messo lì a far notare una differenza, quella che passa tra Mastriani e la letteratura meridionale a lui coeva e non soltanto popolare. Ma v’è dell’altro e cioè che rimane il più notabile romanziere del genere che l’Italia abbia avuto.

   Questa affermazione del Croce definisce la posizione di Mastriani nell’ambito della narrativa italiana della seconda metà dell’800.

   Come dire va letto e criticato, in termini estetici, solo se posto in relazione al suo lavoro di scrittore di romanzi d’appendici.

   Il giudizio del filosofo è benevolo e accorto. Non così molta o quasi tutta la critica dell’epoca. Il maggior estensore di note su quest’autore, una certa Gina Algranati nel suo saggio Un romanziere popolare a Napoli [2] pur elencando opere e pretensioni, lo accusa di tutti i difetti di cui sono accusati comunemente gli scrittori di questo genere: approssimazione, superficialità, rozzezza, continue digressioni dispersive, dimenticanze, con un racconto che tende a svilupparsi troppo per accumulazione, in cui «ogni episodio, come dice Vincenzo Accame a proposito di Sade, è un esempio, un passaggio, quasi un preambolo ad altri».

   Nella pur opinabile fondatezza del critico viene trascurato, a monte, di dire come dovevasi concepire quest’arte.

   Che cosa deve scrivere e come deve scrivere un autore di romanzi d’appendice?

Il feuilleton e il romanzo d’appendice

   È l’anno 1800. In Francia, in pieno Direttorio, e precisamente l’8 pluvioso (28-29 gennaio) dell’anno VIII viene usato per la prima volta il termine feuilleton. È un neologismo ideato dall’abate Geoffroy per denominare un supplemento del Journal des Debats di argomenti ameni. «Il feuilleton nasce, dunque, dalla severità del Direttorio e poi del Consolato che non amava si discutesse di politica, che approvava anzi si riempisse il giornale unicamente di notizie innocue, di letteratura e di teatri… Il feuilleton è, perciò, all’inizio, soltanto un ripiego, proprio come venne definito: un miscuglio di critica, di recensioni teatrali, di annunci, di sciarade, di bollettini di mode, di ricette farmaceutiche e culinarie[3]

   È con Emile de Girardin che per la prima volta, il 1° luglio 1836, viene pubblicato, nello spazio del feuilleton un romanzo a pezzi, non ancora precisamente legato ai temi che saranno poi del romanzo d’appendice. Va detto, di passaggio, che prima di tale epoca esisteva comunque il romanzo a puntate di Charles Reade, di Dumas padre, e di Charles Dickens, (il più famoso del genere) per citarne alcuni.

   Il romanzo a puntate antesignano del romanzo d’appendice si differiva da quest’ultimo solo perché era un romanzo pubblicato a fascicoli o a dispense, come si dice oggi, e non ai piedi o in quattro pagine aggiunte di un giornale.

   Solo con Eugène Sue, che nel 1842 pubblica, sul Journal des debats, I misteri di Parigi, il romanzo d’appendice diviene un genere vero e proprio. È da questo momento, si può dire, che feuilleton e romanzo d’appendice assumono lo stesso significato. Poiché d’ora in poi lo spazio del feuilleton sarà uno spazio unicamente dedicato ai romanzi d’appendice.

   Il merito maggiore che ha il romanzo a pezzi, a datare dal 1836, è quello di aver incrementato vorticosamente la vendita dei giornali. E di aver concorso a renderne più accessibile i prezzi, con una diminuzione del costo degli abbonamenti di circa il 50%.

   Non solo. È proprio in questo periodo che lo sviluppo della stampa pilotato in parte dal feuilleton, contribuisce a rafforzare quella capacità, implicita nel mezzo stesso, di influire sulle coscienze fino ad alimentare quei fermenti socio-politici che sfoceranno nelle agitazione di 1848.

   Come si vede, non è di scarso rilievo l’avvento di questo tipo di romanzo quale evento di tutto rispetto nell’ambito della storia della letteratura.

   Scrittori di prim’ordine si cimentano in questo genere come Balzac, George Sand, Alessandro Dumas.

   Lo stesso V. Hugo scrive I Miserabili con un criterio molto somigliante al romanzo d’appendice. Tuttavia v’è una differenza tra il romanzo pubblicato per intero e il feuilleton, poiché il mezzo non è più il libro ma il giornale. La differenza è di linguaggio, e forse sarebbe meglio dire di confezione del prodotto. Il romanziere che pubblica a puntate espressamente per il giornale deve tener conto del differente utilizzo che di questo vien fatto. Il giornale si getta. Viene dimenticato, non viene acquistato sempre con continuità, viene letto in fretta.

   Di qui la necessità per lo scrittore di galvanizzare subito l’attenzione del lettore, di riepilogare, di ripetere o richiamare episodi già descritti. Questa tecnica che è nella fattispecie una necessità finisce però per apparire a prima vista approssimativa, rozza, primitiva, malaccorta, e piena di scorie.

   Inoltre toni e sentimenti devono assumere l’aspetto della semplicità popolare o non v’è comunicazione con il lettore. Per far questo l’autore d’appendici deve usare toni passionali e patetici, misti talvolta ad un gusto per il terrore, con sensazionali colpi di scena, agnizioni, vendette protratte a lungo nell’animo del lettore e realizzate dopo anni e anni di puntate. Una visione manichea del bene e del male si accompagna a tutto ciò. Quali gli ingredienti base della ricetta? Ne tiene conto Mastriani? E come?

 

La scrittura di Mastriani

   Ne tiene conto in parte e va ben oltre. Egli non discrimina le regole tradizionali del romanzo d’appendice, ma le sottomette alle vere intenzioni che sottendono tutta quanta la sua opera e che sono: l’impegno sociale e la didascalicità. Sa per chi vuole scrivere e lo dice con chiarezza nella prefazione de I Vermi: «Benchè abbiamo messo in questo libro tutta la riservatezza di cui ci faceva una legge la morale dello scopo a cui miriamo, pure l’indole delle piaghe che abbiamo dovuto svolgere e toccar con mano ci ha costretti a scendere in alcune particolarità che potrebbero giustamente adombrare la sensibilità di quelle persone che per la loro età, pel loro sesso, pel loro carattere, e po’loro principi non ebbero mai e non possono mai avere il più lontano contatto colle classi pericolose della società. Questo libro non è per essi: la nostra speranza è che sia letto e propagato tra le classi medesime di cui ci occupiamo…».

   Le classi di cui in sostanza si occupa sono le classi della miseria: il proletariato e il sottoproletariato urbano. E parrebbe velleitaria l’affermazione dell’autore di voler scrivere per chi, nella maggioranza dei casi, è analfabeta, se non intervenisse un’altra classe della miseria, la piccola borghesia, pure molto presente in questi romanzi, a far da tramite, riunendo nei caffè, nelle case (d’inverno intorno al braciere) i poveracci ignoranti a legger loro ad alta voce le puntate delle appendici dei giornali; una sorta di cabinets de lecture (sorti a pagamento in Francia), ma qui completamente gratuite. Quando non interviene un medium popolare, il cantastorie, che sostituisce le gesta dei paladini con quelle più attuali e cronachistiche dei suoi personaggi.

   Sono classi che stentano a decollare in una Napoli immediatamente pre-unitaria e post-borbonica. Egli stesso appartiene a queste classi. Al proletariato, come lavoratore mal retribuito, sfruttato della penna; alla piccola borghesia come professore di lingua e di grammatica, ossia come cultura.

   Pertanto, egli conosce le emozioni, il modo di pensare e di essere, la dignitosa miseria, le aspirazioni di questa gente.

   La sua biografia, scritta dal figlio Filippo in occasione della sua morte (che qui è pubblicata in appendice) epifanizza più chiaramente di tante esegesi l’energia sublimine sottesa alla sua opera.

   È per questo che è assente dai suoi romanzi il personaggio dell’eroe, del superuomo, quasi sempre presente in questo tipo di letteratura.

   Ne sono un esempio Montecristo e Athos in Dumas padre, Rodolphe in Sue, Vautrin in Balzac, lo stesso Jean Valjean di Hugo. Tutti di fisico prestante, dotati di forza fisica o di carattere; destinati a vincere.

   La vendetta di Rocco Damiani, invece, ne Le Ombre, è la vendetta di un poveruomo e non di un superuomo. È la vendetta di un vinto. Ma quale scrittura usa per comunicare con le classi della miseria, Mastriani?

   Certamente non ha avuto il travaglio interiore di un Verga dopo la pubblicazione di Nedda. Né le sue oscillazioni tra verismo e romanticismo, prima della soluzione finale, esattamente nel periodo che intercorre tra la stesura di Padron ‘Ntoni e I Malavoglia.

   Non gli interessa l’operazione letteraria in sé. Al contrario del coevo e collega Vittorio Imbriani, tutto risolto nelle invenzioni formali, la sua vuole essere «una mera appassionata testimonianza di contenuti, tanto copiosa quanto informe, caotica» [4]. Dirà egli stesso: «Vuota e sterile è ogni narrazione, quando nessuna utilità ne deriva allo spirito, al cuore, alla ragione. Noi detestiamo le futili novelle, che altro scopo non si propongono all’infuori di quelle di un semplice passatempo. La vita umana è così breve! Il tempo così prezioso». [5]

   La questione della lingua nella sua narrativa, credo vada analizzata non dissimilmente da quella dei romanzi storici pubblicati dopo il 1827: «I nuovi romanzi storici che fiorirono dal 1827 in poi furono inceppati nel loro sviluppo da parecchi elementi: la lingua innanzi tutto, che gli autori cercavano di adeguare al tono medio della borghesia, pur infarcendola di imprevisti dialettali, di ricostruzioni arcaicizzanti, di toni drammatici che venivano dalle tragedie alfieriane e schilleriane, e dal toscano adoperato senza eccezioni anche da coloro ch’erano lombardi o piemontesi e sentivano tuttavia di dover seguire l’esempio manzoniano». [6]

   Egli, non diversamente, si trova nelle stesse condizioni di questi romanzieri.

   Tuttavia una simile scelta linguistica, oltre che pura mimesi letteraria, riflette un’aspirazione: dell’operaio a diventare piccolo borghese e del piccolo borghese a fare un ulteriore salto di qualità.

   È l’aspirazione ad un mondo migliore, ossia culturalmente più elevato, dal momento che ignoranza è sinonimo di miseria. È l’aspirazione ad un mondo di eguali per cultura e benessere economico. Ma questo non si raggiunge senza l’assunzione di un codice comune: la lingua. Che non può essere avulsa dal contesto geografico, ma deve tendere a superarlo.

   Pertanto la lingua che Mastriani adopera è il frutto di un compromesso, o se si vuole di una mediazione o ancora di una situazione culturale particolarmente stimolante come quella che si è venuta a creare a Napoli, ove fanno opinione la Scuola di Basilio Puoti e il suo allievo Francesco De Sanctis «Uomini preclari, che si adoperano con amorosissime cure a guidare e ad addestrare la gioventù negli studi classici, per spingerla a più nobile e glorioso destino e per rafforzare, collo studio della favella di Dante, di Vico, di Leopardi, l’amore tenerissimo per l’Italia». [7]

   Tuttavia, non si può passare da un codice all’altro se non per gradi, essendo (mi si perdoni l’autocitazione) la lingua «un’infrastruttura semantica inagibile a priori». [8]

   La lingua napoletana soggetta alle istanze nazionalistiche perde terreno per ragioni funzionali, rispetto all’italiano: diviene un dialetto a tutti gli effetti. Ma l’autore Mastriani ne conserva talvolta, pur trasferendoli in un altro codice, organizzazione sintattica, modi di dire e lessico.

   Ecco alcuni esempi:

   «Blandina era nata a Dieppi, dove sua madre era andata a prendere i bagni di mare» (in napoletano: a piglia’ ‘e bagne ‘e mare). [9]

   «A questa ultima classe apparteneva quel feroce assassino, non ancora ventenne addimandato lu Bello Guaglione». [10]

   «Sappi che questo boccaletto d’acqua io l’ho sottratto di dietro un macigno dove la capodipezza l’avea nascosto» (A cap’ ‘e pezza in napoletano). [11]

   «No babbo, non andare – disse Margherita – Stamane io mi sento meglio di ieri; tanto che mi fido di andare a lavorare (In napoletano: me fire, per mi sento). [12]

   «E tu ti pensi che Domineddio…» (Dove il costrutto sarebbe in italiano: Tu pensi senza il rafforzamento «Ti». [13]

   «Pascariello, amico mio, fa acqua la pipa – gli dicea, frase consueta con cui il nostro volgo esprime di trovarsi sprovveduto di quattrini» (In napoletano si dice: fa acqua ‘a pippa). [14]

   Altrove la favella di Dante prende il sopravvento. I suoi personaggi toscaneggiano, anacronisticamente, pure quando sono rozzi e ignoranti come Rocco Damiani, ne Le Ombre: «…laonde mi armavo di santa pazienza e facevo voti nel mio cuore che la mia donna rinsavisse, e smettesse quell’albagia e quella vanità, che tanto danno arrecavano alla famiglia». È uno strano modo di parlare per un contadino analfabeta. Pure, nel momento in cui Mastriani scrive, questa è la lingua a cui aspirano o a cui devono tendere le classi più disagiate se vogliono fare un passo avanti alla loro condizione.

 

Le funzioni narrative nel romanzo di Mastriani

   Credo sia sufficiente una rilettura de I Vermi, de Le Ombre e de I Misteri di Napoli, una trilogia a cui l’autore dà il titolo di studi storici, per avvedersi che ci si trova davanti non solo al romanziere d’appendice, ma ad uno scrittore di ampio respiro che del feuilleton sfrutta tutte le possibilità con sicuro mestiere.

   Il romanzo è ancora un regno, un microcosmo con regole saldamente codificate. Ancora non è inteso il senso di malessere che acutamente proverà il romanziere del secolo successivo nel porsi in relazione al proprio lavoro; nel constatare l’ambiguità e, per certi versi, la fragilità del mezzo che ha per esprimere una realtà sempre meno inquadrabile nei vecchi schemi. La psicoanalisi è alle porte e Dostoevskij ne anticipa i tempi, frantumando il vecchio credo nel bene e nel male.

   Chi fa il male ha un motivo nel fondo del proprio animo o nella società che in parte ne attenua le colpe. La fabbrica prende il sopravvento sulla famiglia. Si crea la logica del capitale. La divisione del lavoro, i tempi di lavorazione producono alienazione e nevrosi. Il capitalista non è più il padrone per diritto divino ma uno sfruttatore che accumula plus-valore sulla pelle dell’operaio. Le idee di Engels e Marx, in merito, contribuiscono a mettere in crisi le coscienze più avvedute e sensibili della borghesia e accendono quelle del proletariato. In questo modo vengono messe in crisi le vecchie categorie morali.

   Molti scrittore della seconda metà dell’800 captano le nuove istanze sociali, anche se in maniera non ben definita; ma solo pochi di essi cominciano ad apportare correzioni innovative degne di nota al genere romanzo, mettendo in discussione i vecchi strumenti espressivi.

   È il caso di Mastriani. Non gli basta più il romanzo così com’è concepito. Non sa che farsene. Ma sa che il romanzo d’appendice ha una forza di smottamento che quello tradizionale non ha. Basta saper utilizzare questa forza, che è data dal mezzo: il giornale. In un certo senso identifica, in maniera del tutto pragmatica, il mezzo con il messaggio, come nel secolo successivo, ma con intenti scientifici, tenterà di dimostrare il sociologo della comunicazione Mc Luhan.

   Il feuilleton è come un pulpito, basta saperlo usare. E lui lo usa tramite lo strumento della digressione per fare della morale, della pedagogia, dell’invettiva, della sociologia, ecc.

   Una digressione sotto forma di invettiva: «La pigione in Napoli, ecco una delle più dolorose piaghe che affliggono questa popolosa città. In altre pagine abbiamo a lungo parlato di questa tormentosa fistola che rode le classi povere, oneste e laboriose. Lo spietato proprietario, esoso vampiro, sugge il sangue degli infelici e rizza palagi, e impingua le sue arche, e siede a fastosi banchetti, e gitta la sera l’oro addosso a impudiche danzatrici. E la legge, serva del potente e del ricco, favorisce l’obbrobriosa avarizia del proprietario…». [15]

   Nel primo capitolo de I Vermi, ecco una digressione sulla psicologia del quarantenne: «Un uomo a quarant’anni, nel mezzo della nostra così detta civil società, è un animale anfibio, mezzo pesce e mezzo becco, anzi è un vero mollusco… un uomo a quarant’anni è nato troppo presto o troppo tardi, è giovane e vecchio allo stesso tempo, onde una lotta perpetua è in lui tra i bisogni della gioventù e quelli della vecchiezza…».

   Ancora da Le Ombre (op. cit.) una digressione didattica sul pericolo dell’aborto effettuato da mammane ignoranti: «Questi mezzi empirici, se alcune volte raggiungono lo scopo di arrestare bruscamente l’opera della natura, adducono di tali irreparabili guasti all’organismo, che spesso una prematura fine n’è la fatale conseguenza. Non ci estenderemo a dire quali morbi più frequenti che sogliono tener dietro agli aborti procacciati coi mezzi nefandi suggeriti da queste pseudo-levatrici, su cui invochiamo tutto il rigore delle leggi…».

   Una digressione sociologica: «Andate a lavorare! Ecco la parola che costoro gittano al povero invece dell’obolo che questi domanda loro. Andate a lavorare! Come se il lavoro si trovasse a terra a disposizione di quelli che lo vogliono raccogliere; come se centomila poveri non si disputassero il così detto lavoro, la cui parte più proficua è sempre pel più ardito, pel più astuto, pel più favorito di mezzi fisici e morali». [16]

   A proposito della digressione, dice Antonio Palermo: «Sta tutta qui la sua forza di scrittore: aver avuto il coraggio di utilizzare, al confine della disgregazione, l’istituto delle parentesi, della nota, del ricordo associativo, per analogia o per contrasto, della pausa narrativa, insomma della vera e propria frattura della vicenda portante, non

compromettendo il suo discorso (di appendicista naturalmente) ma anzi arricchendolo, potenziandolo». [17]

   L’espressione, «al confine della disgregazione», indica come Mastriani sia tra quegli autori che tra i primi hanno abiurato la vecchia formula del romanzo tradizionale.

   Solo alcuni anni dopo di lui Flaubert, in Bouvard e Pecuchet, iniziato nel 1874 e pubblicato nel 1881, post-mortem, romperà il vecchio equilibrio narrativo, in funzione della necessità di rimettere tutto quanto in discussione attraverso il meccanismo della dissertazione e la frantumazione della storia.

   Il giocattolo romanzo così com’era non serve più. Va smontato e rimontato diversamente.

   Mastriani lo fa con lo strumento della digressione che, si badi bene, non è da confondersi con un espediente di tipo tecnico come il particolare superfluo tolstoiano. La digressione è una vera e propria funzione narrativa al pari dell’altra, non meno importante per la connotazione del romanzo mastrianeo: la topografia.

   La collocazione geografica dei suoi personaggi è indispensabile per la sua macchina narrativa. Non è mero accidente. La descrizione minuziosa dei luoghi del degrado e della miseria diviene un ulteriore mezzo di ammonimento e di denuncia: un supporto ineliminabile dal contesto, pena la riduzione a cronaca o a semplice narrazione fantastica, imputabile a qualsiasi universo. Spesso le due funzioni si confondono: «Venite meco in quella stanzaccia umida e fredda del fondaco Crocifisso a S. Pietro a Fusaro. Il fondaco Crocifisso! Sapete che cosa è un fondaco a Napoli? Immaginatevi una specie di cortile chiuso, in cui non penetrò mai un raggio di sole, e nel quale vanno a deporsi tutte le immondizie dei chiassuoli vicini, immaginatevi una maniera di ronco, che si potrebbe credere un ricovero d’immondi animali anzi che un luogo dove possano vivere creature battezzate. Eppure la città di Napoli conta ottantaquattro di queste luride spelonche, dove marciscono anzi che vivono migliaia d’infelici che pagano a’proprietari di quei fondachi il veleno che respirano. In queste abitazioni, se così chiamar si possono queste fogne, manca…».[18]

   E ancora della stessa edizione:

   «Dopo l’arresto dello Sciamenco suo marito, Filomena trasse ad abitare nella Strada S. Caterina Spina-Corona nel quartiere di Porto; tolse ivi in fitto una di quelle bottegucce affollate, e, seduta ad ogni ora del giorno su la soglia di questa sua dimora, uccellava più o meno i passanti.

   Intanto il fanciullo Luigi, cui la madre sottoponeva a’più crudeli trattamenti, profittava talvolta delle lunghe assenze di lei per ispiccare il volo lungi da S. Caterina Spina-Corona. Per lo più, egli dirigevasi alla numerosa via di Porto e s’intrattenea alla fontana della Cuccovaia.

   Questo quartiere di Porto, così chiamato perché menava all’antico porto, benché appartenente alla categoria di que’luridissimi quartieri, vasta rete di scuri, umidi e succidi viottoli, dove la luce del sole non tocca mai il fangosissimo suolo, pure, è il quartiere più popolato da gente industriosa e dedita a varie arti e mestieri. Nessun quartiere più di questo ricorda le tante straniere signorie che tennero l’impero di queste infelici contrade. La Loggia di Genova è il solo ricordo italiano restato in quella caterva di nomi barbari che ci rimembrano le tirannie d’ogni favella… La Rua Francese, la Piazza Francese, la Porta de’Greci, la Rua Catalana sono nomi che dovrebbero ormai sparire assieme alle fetide mura dove que’nomi non più leggibili sono impressi a sempiterna nostra vergogna. Si abbattano una volta questi testimoni della nostra accidiosa codardia; si adeguino al suolo quelle congerie di vecchissime fabbriche accatastate le une su le altre, dove ne’ più immondi covili, o, per dir meglio, marciscono intere famiglie di esseri animati dal soffio divino, i quali han pure diritto all’aria ed alla luce, che Iddio dispensa indistintamente a tutte le sue creature».[19]

   Com’è evidente, se si sfrondano questi lavori, alla maniera del Reader’s Digest, sia delle digressioni che delle descrizioni topografiche, crolla l’intera impalcatura romanzesca; come dire che la vecchia macchina non c’è più, è disgregata o vanificata da questi due elementi ormai indispensabili al nostro scrittore.

                                                                  LUCA TORRE

               

[1] B. Croce, Letteratura della nuova Italia, ed. Laterza.

[2] G. Algranati, Un romanziere popolare a Napoli, ed. Morano, 1914.

[3] A. Bianchini, Il romanzo d’appendice, ediz. ERI, 1969.

[4] A. Palermo, Da Mastriani a Viviani, ediz. Liguori, 1972.

[5] Da Gina Algranati, op. cit.

[6] A. Bianchini, op. cit.

[7] I Vermi, Mario Milano editore, 1972.

[8] L. Torre, Note sul linguaggio letterario, Ricerche Metodologiche. 1972.

[9] I Vermi, pag. 29 op. cit.

[10] I Vermi, op.cit.

[11] Le Ombre, pag. 234, op. cit.

[12]  Le Ombre, pag. 88, op. cit.

[13] Le Ombre, pag. 90, op. cit.

[14] I Lazzari, ed. Zomack, 1878

[15] Da Le Ombre, pag. 186-187, op. cit.

[16] Da Il Conte di Castelmoresco, Napoli, 1855.

[17] Da Mastriani a Viviani, op. cit.

[18] Da I Vermi, op. cit.

[19] Da I Vermi, pag. 146, op. cit.