LA CAPÈRA

      Portiamo opinione che pressoché tutt’i nostri leggitori non nati in Napoli non intenderanno il significato di questa parola, che cercheranno invano nella Crusca. Pel converso, non vi ha napolitano di qualsivoglia ceto che non sappia che cosa, o, per dir meglio, che donna è una capèra.

      Dovendo fare la fisiologia o la storia naturale di questa importante specialità delle nostre popolane, è mestieri che tocchiamo un poco dell’origine sua, la cui data non è gran fatto da noi distante.

      Una ventinella d’anni fa, quando le signore portavano le torri in testa, come gli elefanti le portano in groppa, aveano ciascheduna un parrucchiere stipendiato che ogni dì, dalle 10 antimeridiane all’una pomeridiana, era occupato a rialzare il peloso edificio sul capo della dama, la quale, senza questa importante operazione, non potea decentemente mostrarsi. Però siffatta costumanza addimandava una certa agiatezza; giacchè ei bisognava tenere a stipendio un professor capillare e compensarlo in ragion del tempo che ogni dì spendeva nello aggiustamento del capo di madama.

   Questa pratica avea eziandio non pochi inconvenienti, tra cui quello precipuissimo che fe’ nascere sul capo di Beaumarchais il grazioso concetto della commedia, la quale ebbe di poi tanta celebrità, intitolata Il Barbiere di Siviglia. In fatti, i Figari hanno fatto sempre paura a’ padri, a’ tutori, agli zii ed a’ mariti; imperocchè i galanti non sapeano trovare un canale più comodo per fare scorrere nelle mani delle loro belle quei vigliettuzzi profumati, a cui le damine avean sempre le risposte belle ed apparecchiate, in modo da far esclamare all’attonito Mercurio:

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Veh che bestia! Veh che bestia!

Il maestro io faccio a lei!

Donne, donne, eterni dei!

Chi vi giunge a indovinar!

 

    Il Barbiere di Siviglia, renduto popolarissimo ed immortale dalle note del sommo Pesarese, fece aprir gli occhi agli arghi delle Rosine d’ogni sorta; onde, pigliarono subitamente il partito di allontanare gli arditi contrabbandieri di amorosi messaggi, che, sotto il pretesto di alzare il parrucchino sulle teste delle pupille, spesso l’alzavano a’ tutori. La generazione dunque de’ Figari fu messa al bando d’ogni casa dov’era qualche fanciulla da marito.

   Intanto, le teste delle donne venivano, a gran discapito del buon senso, neglette e abbandonate al loro naturale disordine.

   Appo il ceto più ricco, le cameriere supplivano, come anche oggidì, all’oficio de’ Figari, ma tra le classi meno agiate, dove l’impiego di cameriera è cumulato dalla così detta vajassa o serva, non conveniva affidare la importante operazione del capo alle mani lerce e succide di queste ancelle in sandali.

   Surse la capèra a sciogliere l’arduo problema. Le cautele richieste dagli arghi si combinavano questa volta coll’economia domestica. La capèra divenne la padrona assoluta delle femminee teste de’ ceti medio e popolare.

   La capèra è dunque una creazione recente nella storia de’ costumi napolitani; ma se non vanta antica origine, essa può andar superba della nobil conquista fatta sul territorio de’ mestieri maschili. Per ordinare il capo d’una donna, a noi pare che una donna è meglio atta; giacchè i misteri delle teste donnesche non li possono comprender che le donne. D’altra parte, la testa non ha forse il suo pudore?

   La Capèra è una giovinetta popolana, per lo più nubile e aggraziata, giacchè la giovinezza e la beltà sono pregiudizi a favore del gusto. E una capèra senza gusto è come un dipintore senza genio, un poeta senza estro, un romanziero senza immaginazione. [1]

   La Capèra si chiama ordinariamente Luisella, Giovannina, Carmela; ella veste sempre con molta nettezza ed anche con alquanta ricercatezza pel suo stato; ma in particolar modo il suo capo debbe essere una specie di mostra, di campione, di modello non pur per le donne popolane, bensì per quelle di civil condizione.

   Comechè in sulle prime ella non acconciasse il capo che alle donne del volgo, pure a poco a poco ella si alzò, e da’ bassi o case a terreno salì fino a calpestare i mattoni incerati; fino alle teste aristocratiche.

   La mercede che riceve la Capèra varia a seconda della qualità e condizione delle clienti, per modo che, da tre carlini mensuali, cioè un grano al giorno (vedi a che meschino prezzo si accomoda una testa ogni giorno!) ella riceve fino  trenta carlini o tre piastre al mese.

   Già qualche Capèra si vede correr per le vie della capitale in cappelletto, guanti e ombrellino. Non andrà guari, e la vedremo in caprio o in tilbury. Tutto dipende da un genio nell’arte che, se sorgerà, innalzerà la classe a’ più eminenti fastigi.

   Egli è ben facile riconoscere la Capèra tra un crocchio di giovani donne. Eccola, è la più alta, la più svelta, la più elegante; il suo capo è il meglio acconciato, la sua veste la meglio formata. I suoi piedi i meglio calzati, perocchè ella non porta in tutte le stagioni che gentili stivaletti al pari di bennata damina. Colle mani a’ fianchi, col piede sinistro sporto innanzi, colla testolina lievemente inchinata di lato, ella sembra una bajadera in atto di danzar la Cachuca. Ella parla sempre, sa i fatti di tutti, ed in ispezialità in materie amorose; è l’oracolo delle sue vicine.

   La Capèra è l’amica più confidente delle donne che hanno varcato i trent’anni, ed il motivo è chiarissimo. A questa età cominciano ad insinuarsi nelle chiome i candidi annunzi dell’autunno della vita. Ogni anno che la signora o la signorina fa sparire dal suo atto di nascita si vendica con una bianca vendetta nelle trecce dell’ingrata. E diciamo ingrata, dappoichè è una vera ingratitudine il vergognarsi di quegli anni cui tanto di desidera arrivare. Ma l’uomo e più la donna è un ammasso di stranezze e di contraddizioni. Si teme di morire, e in pari tempo si teme di esser vecchio; si vuol viver lungo tempo e non si vorrebbe giugnere alla vecchiezza.

   La Capèra è dunque indispensabilmente a parte degli alti segreti delle sue clienti da trent’anni in su. Il suo genio consiste appunto nel saper nascondere i difetti che l’età adduce sulle loro teste. Quì è un gruppetto di fili d’argento che si ha da far sparire o da rendere fili di ebano; là è un trucioletto ribelle¸ qui è un’isoletta di quelle che si osservano nell’Arcipelago di Calvizie; più oltre, è una sfoltezza che ricorda le campagne nel mese di Gennaio. La Capèra provvede a tutto, accomoda tutto, quà impinza, là toglie, su imbruna, giù allustra, là gonfia, quà sgonfia; e le sue mani fan prodigio; e dieci o quindici anni spariscono sotto le sue dita con una invidiabile felicità.

                                        Francesco Mastriani

 

[1] Vedi figura 1

 

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                                      Figura 1