LA VILLA NAZIONALE

   ‒ Ci vediamo questa sera alla Villa – ecco la formola con cui oggi si accommiatano la maggior parte di quella curiosa specialità che dicesi innamorati. La Villa fu creata apposta per quella razza di lunatici. E, in verità, la natura e l’arte combinate insieme non potevano creare un luogo più comodo per far l’amore. Se girate il mondo dall’uno all’altro emisfero, dall’uno all’altro polo, voi non troverete un luogo più adatto alle espansioni di un cuore innamorato. L’amore vi esce e vi entra colà per tutt’i pori del corpo; e voi vi sentite una voglia irresistibile di stringere una mano morbida e gentile, di sussurrare all’orecchio di una cara Amadriade quelle paroline che accelerano i moti del cuore e la circolazione del sangue.

   Le zitelle napolitane benedicono il Municipio di Napoli perché questo apre loro di sera le inferriate della Villa Nazionale. Ed hanno ragione. Guardate a vista da una mammà, da una zia o da una sorella zitellona, che avendo perduta la speranza di maritarsi vorrebbe che tutte le donne restassero pulcelle, le povere pulcelle non veggono luce di libertà che sotto le provvide ombre de’viali della villa. Il papà le accompagna, per semplice formalità, per l’occhio del mondo, occhio losco e strambo, che vede tutto di sbieco. Il papà cammina co’suoi cancheri per le regioni del capo: egli pensa che si avvicina il 4 del mese, ed è la seconda mesata del pigione che scade, e il proprietario della casa minaccia lo sfratto e il sequestro; pensa che alla fine del mese, sì prossima, si ha da pagare al calzolaio gli stivaletti e alla crestaia i cappellini delle figliuole: pensa che il percettore delle tasse gli ha mandato per la seconda volta il cartellino colla minaccia del piantone; che egli non ha in tasca che mezza lira in soldi e una carta di due lire del Banco, di quelle vecchie che nissuno vuole più ricevere, e che questa somma è tutto il suo capitale. Figuratevi dunque come il povero cittadino elettore, guardia nazionale, coniugato con prole, debba menare l’una gamba avanti dell’altra, come se fossero gambe altrui, e come debba infistolirsi di tutto ciò che lo circonda. Egli va appresso alle sue ragazze così come un automa, torcendosi or l’uno or l’altro de’bigi baffi, traendo di tempo in tempo un gran sospirone dalle ime profondità de’precordi, e mettendo ad ogni passo il piede su le code delle figlie o di altre passeggiatrici. Arrivati presso la banda, le ragazze spariscono nell’andirivieni di quella improvvisata platea: il papà urta quà, urta là, s’impaccia tra le vesti; la musica, il gas, il fumo de’sigari gli danno le vertigini. Dove sono le sue colombe? ‒ Checchina, Teresina, Luisella, dove siete? ‒ I leoni gli ridono in faccia e gli gittano su gli occhi i vortici de’loro sette centesimi; le damine gli lanciano sguardi fulminei per la sua sbadataggine… Finalmente, dopo varie aggirate, egli ritrova le sue creature comodamente sedute nel mezzo di due o tre giovinotti, che egli non ha l’onore di conoscere.

   «Papà, questo signore è l’amico di Eduardo (il fratello)» dice Checchina.

   «Papà, questo giovine è il figlio di don Annibale di rimpetto» dice Teresina.

   «Papà, ti presento il signor Pasqualino A. B. C.» dice Luisella.

   «Tanto piacere!» risponde il babbo come stordito, mentre un’apparizione in blusa turchina, che ha sul berretto impressa la parola Sediario gli fa un saluto militare che di traduce: Pagate le sedie.

   «Papà, sono sei».

   «Che cosa?».

   «Le sedie».

    Il povero uomo fa un balzo come se avesse ricevuto una tegola sul capo. Egli deve pagare le sedie delle figlie e di quei signori, che appena si sono degnati di guardarlo per un momento con quella stessa indifferenza onde si sarebbe guardato un coso all’impiedi.

   «Quanto viene?» dimanda il cittadino elettore.

   «Dodici soldi» risponde l’apparizione.

   La mezza lira non basta. Il papà cava di tasca la carta da due lire e la presenta.

   L’apparizione la volta e rivolta, la espone a luce, la esamina per ogni verso, sembra titubare a riceverla, e finalmente, per grazia di Dio, si decide a intascarla; e consegna al cittadino per resta sette soldi e un’altra carta unta, bisunta, di equivoci odori, rappezzata in più luoghi, ed equivalente al valore di una lira.

   Coi 13 soldi che il babbo ha pagato, ei crede di avere almeno acquistato il dritto di sedersi; ed in fatti ei si lascia cadere su una di quelle morbide seggiole. Ma ecco novellamente l’apparizione in berretto ed in blusa, il quale gli torna a fare il saluto militare.

   «Che volete?» grida questa volta il coniugato col sangue agli occhi.

   «Due soldi per la vostra sedia».

   Il babbo paga, e giura per S. Gaudenzio, di cui egli porta il nome, che non ci capiterà più a menare le figliuole alla Villa.

   Le tribolazioni del povero pater familias non sono finite. Passa un venditore ambulante di acqua diacciata, a quanto asserisce il portatore. Senza neanche chiederne il permesso all’autore de’loro giorni, le tre ragazze danno di piglio ciascuna ad un bicchiere, e si dissetano. Anche don Pasqualino ha sete, e afferra un bicchiere; e il figlio di don Annibale, che si sente l’esofago disseccato da quattro sigari che ha fumati l’uno appresso dell’altro, prende un bicchiere per inaffiare le labbra.

   «Papà, paga» gli dice Checchina.

   E il contribuente delle tasse pone nelle mani dell’acquacedrataio ambulante un doppio soldo.

   «Che cosa è questa moneta?» chiede quest’uomo agghiacciante.

   «È un doppio soldo: non lo vedi?».

   «Cinque hanno da essere i soldi, perché cinque sono stati i bicchieri di acqua».

   Il babbo paga; e giura per l’anima di suo padre che si sarebbe fatto piuttosto mozzare qualche membro che rimenare le figliuole alla Villa.

   Dopo un paio d’ore di sessione, durante le quali le zitelle hanno coniugato coi loro cascanti il verbo amare in tutt’i tempi e in tutt’i modi, specialmente nel congiuntivo, le zitelle si appoggiano al braccio, ciascheduna del proprio adoratore, e pigliano la via… del boschetto.

   Una cosa istupidita è strascinata al rimorchio: è il babbo.

   A mezzanotte, si esce finalmente dal’ombroso recinto, e si piglia la via dell’Orticello, dove abita questa cara famiglia.

   «Scellerato Municipio! – esclama il cittadino elettore riponendo con un sospirone il piede in sua casa – Non ti bastava di aver creato le fosse nelle strade e le tasse municipali! Hai voluto inventare anche la Villa Nazionale e la banda! Scellerato Municipio! Va! ti maledico!

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                      FRANCESCO MASTRIANI