LA VIRTÙ E LA VERITÀ NELLE ASSEMBLEE DELIBERANTI

   Crediamo di far cosa non discara ai nostri lettori col pubblicare in questo periodico il discorso letto da nostro fratello il Prof. Giuseppe nella pubblica Conferenza tenuta, la sera del 27 febbraio corr. Anno, dalla sezione degli Scienziati nella sala dell’Associazione di Mutuo Soccorso.

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   Il vederci qui raccolti, o signori, in libera conferenza di cose scientifiche è frutto de’rinnovati ordini politici della nostra patria. Con tutto ciò, gli abusi e la ingiustizia non pure non sono scomparsi, ma sono baldanzosi divenuti, poiché quasi assicurati contro la persecuzione di un magistrato, che si è fatto (quasi dissi) complice loro. Ora è egli questo per avventura un fenomeno politico-morale, che staremo neghittosamente a riguardare, e, ipocritamente compiangendone la patria, diremo: non c’è che fare; cos’ì dev’essere? Il mondo è stato sempre tristo e sempre tale sarà, dicono i vili, cui la coscienza rimorde di passate e di recenti colpe; non c’è che fare, così dev’essere, dicono gl’infingardi, gli idioti e i menni, cui la parola progresso fa ridere, e che nei risultamenti della scienza vanno cercando la regola infallibile del lotto. A tale siamo noi pervenuti, come paesetto in preda ad infrenabile inondazione di grosso fiume, ognuno provvede precipitoso alla propria salvezza, al tutto disperato di poter salvare la terra nativa.

   Io non debbo né vo’qui prendere il tono oratorio, io nemico costantissimo di soverchie parole. Ma, mi scusino, il cuore ci dev’entrare per qualche cosa in queste faccende della nostra vita sociale. L’indifferenza pe’mali morali e politici della patria è l’eterno sostegno delle diverse tirannidi, le quali hanno sempre impedito che sia fatta luce sulle ragioni e su i rimedii ai mentovati mali. Per lo che, rammentando le parole di Cesare Balbo, il quale dice che chi franco parla la verità ai suoi compatrioti, mostra di tenerli per uomini adulti, sani e capaci di udir verità, mentre chi dice essere la lode esagerata necessaria ad incoraggiarli, li tratta quasi fanciulli, infermi e rimbambiti, dirò una parola, che nelle cose della morale e della politica potrà forse dar frutto di qualche bene.

   A me dunque pare che gli abusi, le iniquità, le ingiustizie, che spesso tanto molestano e flagellano le nazioni, nascano tutte quante dalla instancabile e petulante operosità dei tristi, e della molle sedicente sdegnosa inerzia dei buoni; dovechè nelle faccende della patria (che vuol dire nelle assemblee deliberanti) contro la petulante operosità dei tristi debbono la virtù e la verità essere forti, costanti, e, quasi dissi, selvagge.

   Egli ci ha di tali nomi che desideravano il bene: intendono di farlo in tutto ciò ch’ei possono: si compiacciono di vederlo praticare, e si addolorano di vederlo combattuto; ma che non appena si accorgono di essere circondati da tiepidi nel bene o da inclinati al male o da perversi in tutto, allora sfiduciati si ritraggono dal campo, dicendo a se medesimi che, poiché non si vuol fare quel bene ch’essi vogliono o propongono, è inutile perdervi tempo e fatica. Ben ci ha tra siffatti uomini alcuni (e son ben pochi), i quali vogliono il bene così efficacemente, che non sì li leggieri si confidano per poca utilità di santi sforzi. Ma costoro, che diconsi spartani, non sanno talvolta essere franchi sino ai confini della ingratitudine, non indipendenti fino a quello, che suol essere più tremendo di qualunque persecuzione, il riso della moltitudine. Signori, io dissi in una certa occasione: La legge non ha galateo; ma, fra le ammirazioni alla frase, ne fui notato come impronto e di scortese.

   Comprendo che son assuefatti alle battaglie della pubblica discussione d’interessi comuni, è naturale abbattersi in quelle persone, cui pare non essere stretto dovere quello di persistere nel combattimento, anche quando i casi e le circostanze non volgono favorevoli alla causa del giusto. Ma queste persone non debbono aver considerato che il numero dei tiepidi al bene, e più ancora quello dei deboli che cedono ad ogni vento e che ad ogni piccola difficoltà si rimangono dal ben fare, è sempre maggiore; né debbono aver considerato che dove tutto nelle costoro mani il governo della cosa pubblica si avesse a lasciare, nulla non avrebbe di bene a sperarsi, specialmente laddove siano interessi e passioni congiurati ad impedire il corso della giustizia e della verità. Ora in mezzo ai tiepidi è massima necessità che sia permanente la parola del virtuoso, la quale mai non lasci di tonare per la rettitudine e pel dovere; non lasci di saldo argomentare contro il cavillo ed il sofisma. Sia però la verità detta e difeso il giusto serenamente; imperocchè la verità serenamente parlata non dà motivo a reazione. Spesse volte, superbi ed orgogliosi che sogliamo essere, non ci sappiamo indurre a fare quel bene, che ci vien proposto, appunto solo e perché dispoticamente proposto.

   Qui due opposizioni prevedo potersi fare, e sono gravi, generali e assai degne di considerazione. L’una è questa: In mezzo ai malvagi è inutile la parola dell’onesto, perché non è punto voluto sentire. L’altra è la seguente. L’esempio contrario dei più mette in forse il virtuoso e lo sgomenta.

   Signori, se la parola della verità e della giustizia debbono farsi udire e giusto rendere altrui, quale stoltezza e quale viltà è cotesta di fuggire proprio quei consorzii, che di quella parola hanno il bisogno maggiore? No; quivi non è punto inutile la voce del vero e del giusto; imperocchè se tu lasci il consesso dei deboli, degl’indefferenti della verità e della giustizia, quel consesso potrà chiudere gli occhi per reo talento di non vedere; dovechè facendo il contrario, si sarà sempre gittato nella coscienza dei deliberanti l’elemento del rimorso, e tolto ogni pretesto alla ignoranza. La voce severa e ad un tempo serena della verità e della virtù deve stare inesorabile, specialmente in mezzo a quelli che non la vogliono udire; imperocchè la medesima sorgerà giudice contro la coscienza dei tristi, e porralli nel bivio o di seguirla o di mentire a sé medesimi. Pongasi sempre la verità attraverso i disegni dei malvagi: si faccia e che la veggano e la palpano, e mentiscano poi, se lor basta l’animo, dicendo di non vederla.

   Ma in mezzo a tanti che tacciano paurosi o intimoriti, indifferenti o corrotti, chi può avere il coraggio di parlare? rispetto all’esempio cattivo di moltissimi, chi è cui dia l’animo di operare il diverso e il contrario? – Signori, il cittadino, il quale è chiamato da quale che sia suffragio, a consedere in un’assemblea deliberante, se onesto vuol essere, dee misurare prima e scandagliare la forza dell’indole e della volontà sua; imperocchè dove gli paresse di essere nel numero di quelle persone (dirò con Seneca e con Dante) cacciandosi non qua eundum est sed qua itur, fanno ciò che fa la prima e io perché non sanno, vegga a che razza di quadrupedi appartiene, e non accetti il mandato di deliberare sopra gl’interessi della patria, del comune, della famiglia, della scienza e della civiltà. Il libero cittadino, il quale non voglia credere miracolo (che non è) certe virtù di Roma e di Sparta, ha da fare quel che deve, non quello che gli altri fanno. Nelle assemblee deliberanti il virtuoso non dee guardare  che dentro di sé,  con sé medesimo solamente consultare la giustizia e la verità. Attendere all’esempio degli altri per guida di sé medesimo, toglie sempre qualunque iniziativa: attendere unicamente all’esempio altrui, siccome nelle lettere ci fa pedanti, così ci fa nella condotta in solleciti di verità, perché ci toglie il fondamento di ogni eroismo, cioè la considerazione del proprio dovere. Chi per pigrizia o per codardia non vuole torre la fatica di salire, dice impossibile il trarsi all’erta: quegli, cui piace di porre la mano rapace nelle altrui, dice: dove sono gli onesti? come se si dovess’essere onesto, sol quando tutti fossero tali! Che ti fa, o virtuoso, ciò che nel consesso dei codardi e dei ladri si pispiglia? Vien dietro, dice Virgilio a Dante, e lascia dir le genti, cioè la torta opinione altrui non guasti la tua: sta come torre ferma, che non crolla sua cima, cioè non piegare alle minacce degl’ingiusti vituperii, ed alle lusinghe della false lodi.

   Signori, parrà iperbole, ma non è. Quando Socrate bevve la cicuta, avrei fatto svenare tutt’i virtuosi di Atene, e quando Cristo fu crocefisso, avrei fatto flagellare gli apostoli; perocchè dove i virtuosi sono timidi o prudenti, il malvagio trionfa. Davvero che Pilato fu più grande di Pietro; dappoichè questi pauroso delle turbe, disconobbe il divino maestro: e quegli in faccia alla plebe efferata, gridò: Non invenio in eo causam. Persuadiamocene: una virtù che tace fa più danno di due vizii che parlano; perciocché nella immensa moltitudine indifferente e senza iniziativa trova maggior eco la voce coraggiosa e sicura ma persistente della verità, che l’oltracotante gridare tempestoso del vizio. Vincono i codardi, trionfano i disonesti, sopraffanno i dispotici propriamente e solo, perché tace e si tira indietro la virtù timida, ossequiosa, prudente, cortese e che so che altra peste di qualità femminesca avente. Signori, di cento persone forse venti sono tristi; ma dei rimanenti ottanta appena dieci hanno il coraggio della propria convinzione. Or dieci contro venti perdono la pruova. Il numero dei cattivi è grande, no: il numero dei pusillanimi è infinito, massime in quest’Italia, cui Dio condannò ad essere il giardino d’Europa, condannando noi ad essere, fin oggi, di Spagna e di Austria, ed or di Francia i giardinieri.

   La virtù e la verità incontrastate non sono punto rare fra noi; ma spesso manca il coraggio di annunciarle e propugnare di fronte al potere e più ancora di fronte alla preponderanza della pluralità. La virtù domestica se è gloria ed onore delle famiglie, non basta al cittadino. Sparta non fu assai lontana da noi; e qui in Italia è Roma; e Sparta e Roma divennero grandi, non perché fu grande (che non fu) il numero dei buoni e ricchi padri di famiglia, ma perché le convenienze, gli agi e la stessa vita furono proposte alla giustizia e alla verità.

                                                                                                                 GIUSEPPE MASTRIANI