LE MODE DELLE DONNE

     Signore donne, questa volta ci occuperemo di voi, se non vi dispiace; e voi formerete il nostro primo Napoli. Ci piace ritoccare il subbietto delle vostre moderne fogge di vestire. Non bisogna nelle mode risguardar solamente la parte che è di competenza de’sarti e delle crestaie, ma ei fa d’uopo considerarle come l’espressione del carattere de’tempi. Due cose prominenti noi scorgiamo nel delirio che oggi ha invaso le mode femminee, la tendenza del bel sesso alla emancipazione e la glaciale impassibilità del sesso nobile verso i vezzi e le grazie delle donne. 

   Il regno delle code è finito. Veramente, era durato un po’troppo; ma si aspettava da un giorno all’altro l’oracolo di Parigi; e, come vi dissi tempo addietro, in Italia non si respira senza il permesso di Monsieur Paris. E però le dame della gentry-fashion non pigliavano ancora licenza di levarsi le code, se prima Parigi non avesse dato l’esempio. Non a caso Parigi è la prima città del mondo, parbleu! Se non fosse per Parigi, appena appena ci accorgeremmo di essere vivi! Dunque, Parigi ha mozzato le code delle nostre dame, e ne ha fatte altrettante ballerine di rango francese. Io mi figuro in che imbarazzo, in che confusione si sono dovuti trovare i poveri pieduzzi delle donne, veggendosi improvvisamente dissepolti dai loro comodi covili di seta ed esposti inesorabilmente agli occhi profani di questi scapestrati di uominacci, che non lasciano mai l’occasione di osservare e studiare minutamente le sinoddochi femminili e trarne i loro particolari sillogismi.

   Da qualche tempo i piedi complottavano. Essi eransi detto fra loro sotto la misteriosa cappa del crinolino: – Perché questo scapato del capo ha da avere tutti gli onori, senza mai darsi la minor fatica di questo mondo; e noi, poveri schiavi, dobbiamo essere condannati alla oscurità, alla fatica, e spesso, alla tortura? Che merito ha quel coso di starsene mollemente a dondolare su le due spalle, mentre noi, che sorreggiamo tutto l’edificio e che ne siamo le basi, non dobbiamo neppure cacciare il capo dalle nostre stie? Per lui i fiori, le gemme, i nastri, i calamistri, gli oli, le pomate, i profumi, i vezzi d’ogni sorta, le blandizie e le carezze; e per noi polvere e fango. Egli può farsi passare tutt’i capricci che gli saltano in testa; e noi non possiamo neppur dar segni di vita. Questa ingiustizia non può durare né deve: abbastanza regnò lui: è d’uopo che regniamo noi.

   Tenuto tra loro questo ragionamento, i piedi decisero subitamente di fare su due piedi la loro protesta e mandarla a Parigi, giudice supremo e inappellabile delle teste e de’piedi. Ed ecco che Parigi, presa in seria considerazione la rimostranza delle Loro Eccellenze Tarso e Metatarso, decise che si dovesse dar loro ragione; e ordinò che quindinnanzi una larga costituzione venisse conceduta agli antipodi del corpo umano, su le basi della più ampia libertà.

   Oggi dunque comincia la libera sovranità de’piedi.

   Gli stivaletti ungheresi hanno l’onore d’imprigionare fino allo stinco questa sovranità. Finalmente, ci è conceduto di ammirare i graziosi piedini delle nostre eleganti e spingere la nostra indiscreta ammirazione fino ad un certo punto in cui si arresta la pubblicità. Ora sì che il progresso femminile può camminare più liberamente senza l’oscurantismo delle vecchie code, inventate dalle gambe storte e da’piedi a paletta.

   Ma non crediate che in tutte queste riforme il capo voglia perdere la supremazia del suo assoluto dominio. Il capo è un organo eminentemente testardo e non cede volentieri alle pretensioni degli organi subalterni. Il capo fu inventato pe’capricci; e le nostre dame  fanno a gara per mostrare che non a caso la natura ha messo loro su le spalle quel magazzino di vezzi e di grazie.

   Il cappello, questo insipido tegumento che non si era mai arrischiato di abbandonare la sua classica cocolla, oggi ha detto al mondo femmineo elegante: – Io non sono più che un nome; starò sul vostro capo come una ellissi retorica, come un sottinteso grammaticale, come un anomalo difettivo, lasciandovi campo liberissimo a tutt’i diminutivi e vezzeggiativi – E le dame l’hanno preso alla parola; ed ecco la più sbrigliata varietà che sia mai uscita dal cervelletto femminile. I capelli, che oggi sono arrivati all’eccesso del delirio, sembrano azzuffarsi col cappello, di cui pare ch’essi non vogliono tollerare più oltre la incomoda tutela e protezione. E il cappello non sa più a che santo raccomandarsi per sostenersi su quei sudditi ribelli che vogliono per forza detronizzarlo; e qui lo vedi acchiapparsi alle gloriose rimembranze storiche di Venezia e intitolarsi alla Doge; qui si afferra alle fiere iberiche tradizioni e si fa chiamare alla Catalana; qui s’arrampica all’influenza delle fogge francesi, e si qualifica alla Fanchon; qui ricorre all’arcadica semplicità di un nome renduto illustre da Goldoni, e si fa chiamare alla Panda; qui rifugge nientemeno che alle cose piatte asiatiche, e piglia l’appellativo di alla Trianon ed alla Cinese; e qui finalmente, per eccesso di disperazione, acchiappa le costumanze delle nostre contadine, e si atteggia alla magnosia. Il povero cappello ha da dietro un brutto nemico, che gli minaccia la ormai vacillantissima vita; e questo nemico è il catagan, che siede maestoso e inflessibile sul retrogrado chignon.

   Insomma, le donne tendono oggidì ad emanciparsi il capo ed i piedi, lo zenit e il nadir del loro corpo. Domani forse tenderanno alla emancipazione di qualche altra regione; e allora addio vesti: i calzoni non saranno più il distintivo del sesso nobile.

   Animo, signore e signorine, mettetevi in bocca il sigaro, e andate avanti… Così soltanto questa impassibile generazione di uomini rimarrà scottata… dalle vostre faville.

                                                                                                               FRANCESCO MASTRIANI