MASTRIANI A TOLEDO IL CAFFÈ E IL CAPPELLO DEI LENONI

   All’angolo tra via Chiaia e piazza Trieste e Trento, di fronte al celebre Gambrinus, conveniva il bel mondo della Napoli ottocentesca. Dapprima un bar, il Caffè d’Italia, frequentato anche da Giacomo Leopardi – aperto all’epoca di Murat e chiuso nel 1843 – e poi il Caffè d’Europa. Da lì si può ammirare il Palazzo Reale e il teatro San Carlo, e l’ingresso alla via più famosa: Toledo. Tra gli altri, ne parlarono il poeta russo Apollon Majkov in versi («Mi piace al Caffè d’Europa quel riso e chiasso in tutti gli angoli, l’argento, il cristallo sui sonanti tavoli di marmo bianco. Lì tutti se la godono», Album napoletano, 1848-1859). Thèophile Gautier ambientò una scena del suo jettatore («Paul prese un gelato al Caffè d’Europa sul largo del palazzo: alcune persone, dopo averlo scrutato con attenzione, cambiarono posto facendo strani gesti» Jettatura, 1857); e Louis Colet, all’epoca di Garibaldi a Napoli («La sera feci fermare la carrozza davanti al Caffè d’Europa, era zeppo di garibaldini; sulla porta si dimenava una folla di venditori di giornali e di mendicanti. Un garzone allegro e chiacchierone mi portò una di queste pezze dure, che sono i più gustosi gelati del mondo» L’Italie del italiens. Italie du sud, 1863). Francesco Mastriani, invece, pur precisando che l’unico buon caffè da bere era a Toledo – «Non vi arrischiate di sorbire altrove questa bevanda, se non vi prende vaghezza di avvelenarvi» ‒, strada in cui i posti di ristoro, da una ottantina che erano, dal 1846 si «sono quasi raddoppiati», ne I Vermi: studi storici su le classi pericolose di Napoli, dipinse un quadro, come suo solito, a tinte a dir poco cupe:

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   Alle dieci in punto io trovai i miei tre amici al Caffè d’Europa, in quella torre di Babelle piantata tra Toledo e Chiaia, dove convengono la sera tutti gli sfaccendati del bel mondo e tutti i forestieri che han voluto veder Napoli e poi morire. [1] 

   Il sito ordinario di stazione de’ mercurii napoletani è cappo il Caffè d’Europa. Verso le 23 ore italiane si veggono costoro far capannelli alle porte di quei caffè, dove conviene la più eletta gioventù napolitana ed estera, e dove sogliono intrattenersi gli ufficiali del Corpo di esercito destinato a questa Città. Anche l’occhio meno esperto non s’inganna a riconoscere questi mezzani d’amore. Parecchi anni fa, il cappello bianco a tubo era il distintivo a cui si riconoscevano i nostri lenoni; oggi al cappello bianco han sostituito il cappello italiano dello stesso colore e anche nero.[2]

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   Frequentemente capita che ci si imbatta in chi esalta e che denigra la medesima situazione nello stesso tempo, come se si scrutassero fatti e situazioni ad angolature contrapposte. Perciò, per entrare “nello” sguardo di certi autori, bisogna cercare di comprendere le motivazioni, spesso ideologiche, che li spingono a determinate considerazioni.

                                                                                 AGNESE PALUMBO e MAURIZIO PONTICELLO

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[1] FRANCESCO MASTRIANI, I vermi, Napoli, L. Gargiulo, 1867, vol. I. Parte Prima, cap. I «A Posillipo», pag. 2.

[2] Ibidem, vol. VIII, Parte Terza, cap.IV «La casina francese», pag. 128