NOTA A I VERMI

 

   «Che cosa sono i Vermi? Victor Hugo li chiamò più semplicemente i “miserabili”. Sono gli infelici pericolosi delle grandi città infelici, dunque, pericolosi perché ribelli a quelle leggi sociali dalle quali vedono essi, nella loro logica, venir fuori la miseria loro. Pericolosi, perché cercano il benessere che non hanno, coi mezzi che le leggi, costituite a tutela dell’individuo nelle condizioni migliori, riprovano e condannano. Questi sono, che pullulano negli infimi strati della vita sociale, e che il Mastriani considera come un prodotto inevitabile della presente organizzazione sociale; come esseri che meritano insieme disprezzo e compassione» [1]

   In questa citazione viene fuori l’ideologia del Mastriani molto vicina ad un collettivismo di matrice cristiana, non ancora “scientifico”, per così dire, ossia non ancora degradato o devastato da quei principi totalitari che ultimamente hanno determinato il definitivo fallimento del socialismo. Tuttavia l’Algranati non è preparata, come si vedrà, a capire l’operazione letteraria di quest’autore. Taglia col bisturi dei canoni estetici ottocenteschi. Un bisturi che ha trovato il suo massimo esponente nella metodologia critica di Croce e dei suoi nipotini, disgraziatamente in buona parte operanti ancora oggi.

   Infatti più avanti dirà: «Questo romanzo è una raccolta di osservazioni, messe insieme in forma inorganica e scucita, legate ad un intreccio, che spesso viene dimenticato e lascia il posto alle perorazioni del M.».

   Non ha capito niente (eppure siamo già nel 1914, già molte cose in campo letterario sono rivoluzionate) poiché Mastriani è un anticipatore che viene degradato a scrittore di serie B, solo perché scrive romanzi d’appendice.

   Quel tipo di romanzo, cioè, che ha avuto, come altrove ho già detto (vedi Le Ombre – Luca Torre, ed. 1992 – a cui rinvio per uno studio più approfondito su questo autore) di aver incrementato vorticosamente le vendite dei giornali; di aver concorso, per l’aumentata vendita, a farne abbassare i prezzi del 50%, rendendoli accessibili ad un più vasto pubblico (così come oggi avviene per i libri millelire o tremilalire) contribuendo, in tal modo, a rafforzare quella capacità di comunicazione che ha poi influito sulle coscienze fino ad alimentare quei fermenti socio-politici sfociati nei moti quarantotteschi. Vi pare poco? Ma v’è dell’altro. Questo autore in quanto a realismo, anticipa di alcuni anni quello francese e in quanto a tecniche narrative anticipa il Flaubert di Bouvard e Peuchet, per quel meccanismo della digressione, che diviene un pulpito vero e proprio; il vero scopo del suo far-romanzo. E v’è quel fotografismo topografico di cui più in là si approprierà la Serao quando scriverà La conquista di Roma.

   Due funzioni narrative, potrei dire: la digressione e la topografia. Due costanti in quasi tutta la sua opera

   La collocazione geografica dei suoi personaggi è indispensabile per la macchina dei suoi racconti. Non è un semplice espediente. Egli vuol far vedere attraverso i suoi occhi, perché meglio il lettore si possa rendere conto di come stanno le cose nella Napoli dei reietti, dei vermi.

   «Venite meco in quella stanzaccia umida e fredda del Fondaco Crocifisso a S. Pietro a Fusaro. Il fondaco Crocifisso! Sapete che cos’è un fondaco a Napoli? Immaginate una specie di cortile chiuso, in cui non penetrò mai un raggio di sole, e nel quale vanno a deporsi tutte le immondizie dei chiassuoli vicini, immaginatevi una maniera di ronco, che si potrebbe credere un ricovero di immondi animali anzi che un luogo dove possano vivere creature battezzate». [2]

   Queste e tante altre le occasioni per denunciare, per concionare il lettore, per interessarlo non alla esile trama, ma ai più gravi problemi che questa sostengono come un supporto ineliminabile. Altra critica che gli viene mossa è sulla lingua adoperata. Eppure (eccezione fatta per il Manzoni che risolve tutto con l’uso del toscano come lingua unitaria, rifacendosi all’antica lezione del Bembo) egli soffre della stessa crisi di identità linguistica di cui soffrirono i romanzieri storici di altre regioni d’Italia a partire dal 1827. Una lingua contenitore, non ancora setacciata, non ancora resa omologa in fase di scrittura. Pertanto, la scrittura di Mastriani è il frutto di un compromesso o se si vuole tra una mediazione tra il vecchio, rappresentato dal dialetto o lingua napoletana, e il nuovo rappresentato dalla folata unitaria importata da Basilio Puoti e dal suo allievo Francesco De Sanctis.

   Affermazione fondamentale dell’autore de I Vermi (scritto nel 1863 e che è parte di una trilogia comprendente Le Ombre e I Misteri di Napoli a cui l’autore dà la qualifica di studi storici) è che essi brulicano nel tessuto sociale assumendo linfa per la propria sopravvivenza da due piaghe: l’ozio e la miseria. La miseria che non fa far nulla produce l’ozio e l’ozio , effetto di mancanza di un lavoro onesto, è causa di miseria e di abbrutimento.

   È il serpente che si morde la coda. Una via obbligata alla delinquenza, all’accattonaggio, al furto, alla prostituzione. Umanità, questa, che per vie al di fuori della legalità tenta di vivere meglio che può.

   V’è una turba di equivoci “eleganti” che frequenta una equivoca casa di Posillipo dove gioco e prostituzione si intrecciano in un unico tessuto. Madama Antonetta, la tenutaria ha però una figlia, Blandina che fa da contro-tipo alla madre e che ricorda molto la Marcellina de Le Ombre. Buona, pura e infelice Blandina è lo strumento dell’Autore per far meglio uso del gioco di luci e ombre atto a far risaltare il bene e il male.

   V’è tutta una galleria di tipi e figure della malavita, tra cui spicca lo scugnizzo: ‘o guaglione. Costui è il vero padrone della città perché in essa si muove ed opera con la disinvoltura del padrone. La città è la sua vera casa: «Piuttosto che vivere negli antri dei fondaci e dei sopportici dove vive la sua famiglia, quando ne ha una, il guaglione preferisce di vivere nel suo mondo, che è la pubblica strada».

   «… Il guaglione è sempre allegro, immaginoso, umoristico. Non ci è cosa che valga a renderlo triste e malinconico tranne la perdita della libertà. Spensierato e vispo come un uccello, la città intera è il suo elemento, la sua aria».

   «… Il nostro guaglione vive come l’arabo di Palmiera quando ha guadagnato l’obolo del giorno, egli si sdraia sulla nuda terra, spensierato, allegro, contentissimo e vanta la canzone del popolo, accompagnandosi tal fiata con uno scacciapensieri».[3]

    In questo romanzo sono analizzate tutte le classi (non esclusa quella del letterato che vive di stenti ed è costretto, spesso, anch’egli a deviare), più reiette. A cui la sorte, quasi inevitabilmente, non concede altro che la galera. La sola Blandina, che ha resistito ad ogni tipo di tentazione, riceve in premio un onest’uomo che la sposa e la sottrae al mondo ignominioso dei vermi.

                                           LUCA TORRE

.

[1] Gina Algranati, Un romanziere popolare a Napoli, ed. Silvio Morano 1914.

[2] Francesco Mastriani, I Vermi, ed. Luca Torre, 1992.

[3] I Vermi, op. cit.