NOTA SUL ROMANZO STORICO DI FRANCESCO MASTRIANI

   Argomenti storici, con commenti estesi e lunghe descrizioni di luoghi e di personaggi, abbondano nell’opera narrativa di Francesco Mastriani. Sarebbe ora di cominciare a mettere un po’ in ordine (un ordine critico, tematico, cronologico) i numerosi lavori di questo laborioso dimenticato autore che a ben ragione possono definirsi “romanzi storici”.

   Sintagma complesso quest’ultimo per Mastriani, o almeno non scontato e perciò necessariamente fra virgolette. Dirò quindi subito qualcosa, sia sul sostantivo che sull’aggettivo per dar chiarezza ai commenti che seguono.

   Lascio da parte, per ora, lo spinoso argomento del dosaggio e della fusione di “vero” e “verosimile”; se ne parlerà in altra occasione e, in particolare, a proposito del romanzo I Vermi, studi storici su le classi pericolose in Napoli in cui i fatti narrati sono, dice Mastriani nell’introduzione, “la maggior parte veri”.

   Si può attendibilmente definire “storico”, per una prima ricognizione della vastissima opera dello scrittore napoletano, tutto quello che a lui come a noi appare tale.

   Si evita, con questa semplificazione, l’obbligo della distanza temporale della distanza dell’oggetto della narrazione che, codificato da Tasso [1], magari va benissimo per Manzoni, ma per Mastriani non avrebbe senso visto che egli, pur non disdegnando la storia antica, preferisce scrivere romanzi ispirati da eventi recenti e recentissimi.

   La storia di Mastriani è molto ampia: l’arco temporale che abbraccia le vicende narrate nei suoi romanzi va dai tempi biblici di Erodiade (opera del 1976) [2] a quelli romani di Messalina (1877) e di Nerone in Napoli (1875), al Rinascimento con Lo Zingaro (1870-71), al Barocco con La Comare di Borgo Loreto, all’Illuminismo, con Matteo l’idiota (1857) fino all’età contemporanea dello scrittore.

   La quale include certamente gli ultimi anni del ‘700 (l’ultimo in particolare, in cui nel giro di pochi mesi si accese e si spense la fiamma della Repubblica Partenopea) e via via tutte le date storiche successive, fino all’unità d’Italia ed oltre.

   La cruentissima repressione di Ferdinando IV di Borbone, con il nome di Ferdinando I, re delle due Sicilie, fece un non meno violento bis dopo i moti del ’21, e la altrettanto crudele reazione del nipote, Ferdinando II, ai moti del ’48 saranno in vario modo descritte in numerose opere di Mastriani, sempre con un ben avvertito e partecipe senso di attualità e anche con la palese, ambiziosa e pur umile, pretesa di insegnare “la storia” ai suoi numerosi lettori.

   Sebbene abbiamo oggi a disposizione l’ottima bibliografia di Emilio e Rosario Mastriani (coadiuvati da Cristiana Addesso), la classificazione per i generi letterari dell’intera produzione dello scrittore resta ancora da fare. e non solo per distinguere i romanzi storici dagli altri romanzi, ma anche, in qualche caso, per chiarire se l’opera in questione si possa o no definire “romanzo”. Prendiamo per esempio il Processo Cordier (1877); si può parlare di romanzo per la cronaca di un processo? Eppure l’opera, i cui meriti e pregi, creativi e stilistici, ho discusso altrove, è tutt’altro che un pezzo giornalistico.

   Nuovi studi sullo straordinario autore dei Misteri, dei Vermi e delle Ombre, come anche del Processo Cordier, aiuteranno a dipanare tanti dubbi e incertezze interpretative sulla sua opera magistrale.

   Mastriani è uno scrittore prolifico, ma non è né monotono né ripetitivo, anche se a volte cita sè stesso, riproducendo intere pagine dei suoi “studi storici, dai Vermi (1864) e dai Misteri di Napoli (1869-70) in particolare. Il fatto è che le ripetizioni, o le citazioni, in contesti stilistici diversi assumono significati e valori diversi. I nomi dei giochi d’azzardo o i termini che indicano i gradi nella gerarchia della camorra, per esempio, che incontriamo per la prima volta in Matteo l’idiota (1857), sono poco o più che degli incisi nel corpo della narrazione, mentre costituiscono l’argomento principale di un’intera sezione dei Vermi.

   Uno scrittore prolifico dunque, ma Mastriani è anche uno scrittore con grandi meriti stilistici. La sua opera mostra una fenomenale varietà di temi, di generi letterari e di forme di fiction (che potremmo definire sottogeneri o espressioni del genere romanzo).

   Facendo riferimento alla teoria dei generi letterari di Northrop Frye, ho identificato in Mastriani le quattro forms of fiction descritte in Anatomy of Criticism, ed ora vado a riconsiderarle in rapporto al tema della storia, ovvero alla presenza di luoghi, eventi e personaggi storici nei suoi personaggi.

   Il romanzo storico di Francesco Mastriani, in ultima analisi, sarà definito proprio da questo rapporto tematico-retorico. Brevemente, riassumo qui le definizioni dei miei termini di riferimento, che ho già descritto altrove e proprio a proposito di Mastriani. [3] Le forme di fiction sono anatomy, novel, romance, e confession o autobiography.

   L’anatomy è una forma di fiction che si avvicina molto al saggio. È usata per discutere di problemi esistenziali, religiosi, epistemologici. Mastriani la impugna nei suoi “studi storici” per mostrare, prova alla mano, ovvero con una gran varietà di esempi, gli abusi, le ingiustizie, i delitti dei potenti.

   Il novel è il “romanzo vero e proprio” (così tradotto nella edizione italiana di Anatomy of Criticism), cioè una forma di fiction incentrata sia sulla caratterizzazione psicologica dei personaggi accuratamente descritti nel loro ambiente sociale, e sia sull’intreccio narrativo. Sono queste le due forme più usate da Mastriani. Le rimanenti sono:

   Il romance, che costituisce una forma basata su una semplificazione mitico-psicanalitica, in cui gli archetipi principali sono figure stilizzate, personaggi con un ruolo da svolgere, ma senza un vero e proprio spessore psicologico. Archetipi tipici di questa forma sono l’eroe, l’eroina e il vecchio padre che deve morire perché s’instauri un nuovo ordine.

   La confession, infine, è l’autobiografia, di solito scritta in prima persona. Il racconto tocca qui problemi esistenziali, artistici e anche politici, ma sempre filtrati dalla singolare psicologia del personaggio.

   Queste forme allo stato puro sono altamente sperimentali e spesso tali da rendere ardua e disamina la lettura dei testi, ma sono più spesso riconoscibili in combinazioni varie che comprendono di solito una forma preponderante e una o due altre forme frammiste alla prima.

   Con Mastriani che, non dimentichiamolo, è giornalista prima che romanziere (cronologicamente almeno), la storia è innanzi tutto quella contemporanea. E, d’altra parte, uno che ha personalmente raccolto i dati più significativi delle rivolte popolari dal ’48 al ’60, che ha incontrato Garibaldi nel suo ingresso a Napoli il 7 settembre, che ha fatto parte della Guardia Nazionale… di eventi storici (allora come oggi ritenuti “storici”) ne avrà parecchi da raccontare.

   A titolo esemplificativo, e in ordine cronologico, presento un elenco dei romanzi sicuramente “storici” che ci permettono di esprimere qualche preliminare e fondato giudizio.

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   1854 – La Comare di Borgo Loreto

   1857 – Matteo l’idiota

   1864 – I vermi

   1865 – I lazzari

   1867 – La figlia del croato

   1868 – Le ombre

   1869 – Il figlio del diavolo

   1869-70 – I misteri di Napoli

   1870 – Luigia Sanfelice

   1870-71 – Lo zingaro

   1873 ‒ Arlecchino

   1875 – Nerone in Napoli

   1876 – Erodiade

   1876 – Jelma, o la stella di Federico II si Svevia

   1877 – Processo Cordier

   1877 – Messalina

   1877 – Homuncolo. Cronaca napoletana del sec. XVII

   1881 – La Medea di Porta Medina

   1886 – Cosimo Giordano e la sua banda. episodi di brigantaggio

   1887 – La figlia del birro, ovvero la polizia napoletana sotto il regno di Francesco.

 

   Pur con tutta la prudenza cui ci costringe la inevitabile approssimazione, il numero stesso dei romanzi è impressionante perché indica che circa il 20% dell’immensa opera omnia del romanziere napoletano è occupato da romanzi storici.

   Quando si dice e scriva che il romanzo storico dopo Manzoni, Grossi e D’Azeglio non ha ampia diffusione in Italia bisognerebbe riflettere su questi dati.

   Fra i romanzi storici che ho elencato scelgo di parlare di quelli che mi sembrano qui, in questa occasione, più rappresentativi.

   Innanzi tutto, comunque, è bene tracciare un netto spartiacque fra i romanzi che sono scritta prima e quelli che sono stati scritti dopo l’unità, ovvero dopo la “liberazione” di Napoli del 1860. Prima di quella data, nel mio elenco compaiono i due romanzi La Comare di Borgo Loreto del ’54 e Matteo l’idiota del ’57 su cui offro qualche spunto di lettura.

   Puntigliosamente, come sempre nelle prime pagine in ognuno dei suoi romanzi, anche nella Comare di Borgo Loreto, Mastriani subito dichiara la data d’inizio degli eventi narrati, ovvero “l’anno di grazia donde noi cominciamo questa narrazione […] 1617”.

   Un romanzo dunque, come quello del Manzoni 14 anni prima in edizione definitiva, di argomento seicentesco. E anche qui, come nei Promessi sposi si fa riferimento alla guerra del Monferrato (alla prima, mentre in Manzoni don Gonzalo è sotto le mura di Casale nella seconda guerra).

   Il romanzo ha due trame che s’intrecciano: una è ristretta alle vicende di un giovinetto, Carmine Bruno, che viene salvato da morte sicura dalla Comare (termine che qui sta per maga buona), e l’altra, tutta politica, è relativa a una congiura del viceré di Napoli, il duca di Ossuna, ordita per impossessarsi nientedimeno che della Repubblica di Venezia. Fatti storici, , leggende, ipotetiche alleanze e inimicizie tra personaggi reali e personaggi di invenzione si sommano e si addensano in questo romanzo condito di giudizi, di valutazioni e di commenti moralistici di un narratore sempre molto presente, il quale senza ironia e con un tono tutt’altro che professorale, non nasconde intenzioni didattiche. Si fondono bene qui, con pari rilievo, le due forme dell’anatomy e del novel, ovvero saggistica e intreccio romanzesco. Offro qualche esempio, scelto non perché particolare nel tessuto narrativo, ma perché piuttosto comune.

   Ecco una sentenza morale:

   L’uomo è spesso il tiranno di sé medesimo: egli si stanca della sua stessa felicità; e, quando le cose che il circondano non mutano d’aspetto, egli si studia di crearsi un tormento, e il cerca sovente in quelle stesse passioni che gli furono larghe di gioia e di contentezza. [4]

   Ecco un dato storico:

   il 19 luglio 1616 il duca di Ossuna arrivava a Napoli a prendere possesso della sua autorità di Viceré di questo Reame. [5]

   Ed ecco il tono didattico di Mastriani:

   Miserevole sovra ogni dire era lo stato di questa bella ed estrema parte d’Italia, che già da qualche tempo era stata soggetto al lontano governo spagnolo. Straniere genti di ogni favella per lunghi secoli avevano signoreggiato queste terre isterilite da barbare contese e da feroci fazioni.

   La serena giocondità delle nostre spiagge, il ridentissimo cielo, la ferace natura del suolo, la naturale bontà e pieghevolezza degli abitanti, adescavano la cupidigia dei potentati d’Europa, che su i nostri campi venivano a disputarsi il terreno con le armi.

   La gleba insanguinata rimaneva infruttifera, l’aratro giaceva abbandonato, e gli strumenti ordinati a dare vita, schiudendo il seno ubertoso della terra, divenivano talvolta strumenti di morte. E quando la lotta si era decisa in favore di una novella dinastia, gravi balzelli e concussioni di ogni maniera doveano rimborsare le spese di guerra. Il popolo napolitano, sempre facile ad armare ed a porre in oblio le sue sventure, si attaccava con fiducia ad ogni novello signore, e dimenticava, nella naturale sua benigna indole e spensieratezza, i mali sofferti. È ben vero che sorgea di tempo in tempo qualche monarca con animo inchinato a bene fare, che rifaceva il disfatto, colmava i vuoti della finanza, riannodava a conciliazione gli animi per opposte parti avverse e, con equi leggi, i beni de’ soggetti amministrava. Guglielmo il Buono, terzo dei Normanni, Federico II le Svevo, Alfonso d’Aragona, segnarono tre ere meno infelici per le sebezie contrade.[6]

   Qualche rapido commento su affinità e differenze fra Mastriani e Manzoni: il più necessario credo possa essere sul concetto di identità, ovvero di patria, nazione e cultura di appartenenza. Manzoni cita in continuazione Giuseppe Ripamonti, segretario del cardinale Federico Borromeo e autore di una Storia patria tutta ambrosiana. La grandezza del cardinale Federico risplende a Milano e soltanto a Milano. Quando il dovere lo chiama a Roma egli si annulla con la sua umiltà, rifiutando le offerte politiche di che gli dichiara la propria alleanza per l’ascesa dell’ultimo gradino della gerarchia ecclesiastica.

   Roma è estero, è un’altra nazione per lo scrittore dei Promessi sposi. Per questo nel suo Seicento egli non parla di Roberto Bellarmino, o di Gregorio XIII e della riforma del calendario, di Federico Cesi e dei Lincei, o di Claudio Acquaviva e dei rapporti entusiastici che arrivavano a Roma dalle missioni più remote d’Oriente e d’Occidente (lettere annue dei gesuiti pubblicate dalla stampa civile, vere e proprie storie di avventure intellettuali e di scoperte meravigliose). Per Manzoni questa è “un’età sudicia e sfarzosa”.[7]

   Mastriani insegna un’altra storia, un altro Seicento, pur nella comune disgrazia della dominazione spagnola. Anche per lui Roma è estero, e Milano poi è certamente più lontana di Parigi o Londra dalla Napoli delle sue pagine. La storia patria di Mastriani è quella di un regno antico che da tempi immemorabili ha subito il dominio di diversi signori, ma pure ha mantenuto il suo splendore, “la serena giocondità delle spiagge, il ridentissimo cielo, la ferace natura del suolo, la naturale bontà e pieghevolezza dei suoi abitanti” su ricordati.

   A questa visione “serena” della storia (ma più fatalistica, forse, che serena) di uno scrittore che di lì a poco avrebbe militato nella Guardia Nazionale dell’Italia garibaldina e unitaria, si potrebbe forse opporre il peso di un condizionamento negativo della cultura (e della censura) borbonica.

   Il fatto è che Mastriani nella cultura borbonica degli anni di Ferdinando II non ci stava malissimo, e non mi pare giusto presentarlo come un voltagabbana perché avesse qualche incarico di traduttore a corte o perché lavorasse (malissimo pagato) più come correttore di bozze che come opinionista di un giornale di regime.[8] Questo non vuol dire che non fosse animato da autentico spirito patriottico. L’unità d’Italia per lui ha comunque un senso solo dopo i fatti del ’60 (perchè “cosa fatta capo ha”), e diventa allora il sogno di un’Italia culturalmente unita. Il suo patriottismo è fondato sull’uguaglianza, sul diritto delle masse all’istruzione pubblica (perché cultura vuol dire scuola innanzi tutto) e sullo spazio sociale all’emancipazione individuale che essa crea.

   Non posso qui dilungarmi a parlare dell’altra opera pre-unitaria che presenta che presenta notevoli risvolti storici, ovvero Matteo l’idiota del ’57 (che leggo nella prima edizione in volume, Napoli: Tommaso Guerrero, 1856-57). Mi limito a presentare il suo incipit che offre un ottimo spunto per un confronto con l’apertura dei Promessi sposi:

   Tenendo a sinistra per quella strada che, ora è gran tempo da noi discosto, addimandavasi la strada de’ Profumieri, la quale si ebbe in appresso il nome de’ Guantari, che pur mo ritiene con l’aggiunta di vecchi, arrivasi al quel quadrivio che tiene a manca a Monte Oliveto, anticamnete nomato strada di Ribera, di fronte S. Maria la Nova, quondam d’Albino, e a destra la via del Castello o delle Corregge, siccome l’appellavano i nostri antecessori.

   Diremo per quelli de’nostri lettori che ignorano le antichità del nostro paese che la Chiesa S. Maria la Nova è così chiamata per la ragione che essa fu fatta edificare da Re Carlo I d’Angiò in sostituzione di altro tempio fatto da lui demolire che s’intitolava S. Maria Assunta ovvero S. Maria Palatio, e che era nel sito dove ora è Cartel Nuovo. Un’antica torre, fortezza della città fu ceduta dal Re Angioino a’Frati Osservanti di S. Francesco per costruire il convento annesso alla detta Chiesa di S. Maria la Nova. Un’osteria, o meglio, una taverna era in su quella strada, a ridosso della quale era l’antica torre che oggi è convento. Questa strada pigliava il suo nome dalla taverna detta del Cerriglio, da un tale cui si era appiccato un tal soprannome non sapremmo dire per quale ragione. Era famosa questa osteria nel tempo, donde prendiamo le mosse per questa nostra istoria, vale a dire nell’anno 1750 o in quelle circostanze di tempo. [9]

   È una bella prosa, ricca, distesa, ornata, affettuosamente descrittiva della città di Napoli e della sua storia. Anche in questo romanzo, come nel precedente, troviamo una ben dosata combinazione di elementi saggistici e romanzeschi per intreccio e caratterizzazione psicologica dei personaggi. Il protagonista del titolo, il (finto) idiota e umile Matteo, è come una sonda, uno strumento d’indagine sia della cultura degli aristocratici, che di quella dei malavitosi.

   Fra gli altri romanzi storici del periodo post-unitario scelgo di dire qualcosa su La figlia del croato, uno dei romanzi più esili e ingenui del Mastriani, ma anche quello che più chiaramente indica le speranze italiane di un intellettuale napoletano nell’anno di grazia 1867. Il romanzo è di quell’anno e i fatti narrati che si svolgono in dieci giorni, risalgono all’anno prima. La storia ha inizio dichiarato, infatti, il giorno 10 giugno e, nella zona finale, troviamo il proclama di Vittorio Emanuele II agli italiani del 20 giugno 1866.

   È esilissimo, e diciamo pure assente, l’intreccio in questo romanzo che comunque, in fine, presenta una scena madre notevole con agnizione e chiusura della storia (la figlia del croato, travestita da uomo, svela la sua identità al fidanzato, soldato italiano, e al padre, capitano nemico fatto prigioniero, che benedice l’unione).

   La volontà dell’allargamento dell’ambiente da descrivere (Venezia e Trieste) è notevole in questo romanzo senza toponimi napoletani. Siamo negli anni Sessanta dell’Ottocento e forse Mastriani pensava che con l’unificazione, con il patriottismo, con il nuovo Regno d’Italia ci sarebbe stata una felice condizione di uguaglianza socio-culturale.

   La delusione non si fece aspettare, e se ne ha una testimonianza già in Eufemia, il segreto di due amanti, del 1868, cioè dell’anno dopo quando egli scrive: “Palermo e Napoli sono al certo le due città d’Italia che più si sono sacrificate sull’altare della unificazione italiana”. [10]

   È un giudizio storico a caldo. Non ci sono rimpianti per la scelta unitaria, ma all’esaltazione patriottica della Figlia del croato si è sostituito il dolore della scoperta di una non comune, non condivisa, idea di patria e di nazione. È l’inizio della più pesante, dura e duratura questione meridionale, l’inizio di un’altra “storia” come andremo a verificare in altra occasione (un volume monografico in corso di stampa) e in altri romanzi.

                                                                                                                   FRANCESCO GUARDIANI

  

[1] Per Torquato Tasso la storia, come contenuto del “romanzo”, deve essere storia abbastanza moderna da essere ricordata e abbastanza antica da permettere varianti (il cosiddetto “verosimile”) che ne esalti il valore simbolico. E così, per esempio, lo scrittore fa durare sette anni la crociata di Goffredo di Buglione (ben sapendo che in effetti, storicamente, si concluse in tre anni) per fare un riferimento simbolico, palingenetico, ai sette giorni della creazione del mondo.

[2] Il romanzo è stato scritto nel 1876 e non nel 1976 (nota di Rosario Mastriani).

[3] Mi riferisco a Le forme dei romanzi di Francesco Mastriani, «Critica letteraria» numero 134, 1(2007): 95-113.

[4] La comare di Borgo Loreto. Napoli, Bideri, 1955, vol. II, pag. 79.

[5] Ibidem pag. 107.

[6] Ibidem pag. 108.

[7] Cap. 22. P. 300 ediz. Garzanti 1980.

[8] Mi riferisco a una nota di Antonio Palermo nel suo Da Mastriani a Viviani. Per una storia della letteratura a Napoli fra Otto e Novecento. Napoli. Liguori, 1987.

[9] Matteo l’idiota, Napoli, T. Guerrero, 1857,  pag. 8

[10] Eufemia, Napoli, L. Gargiulo, 1868, pag. 293.

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   FRANCESCO GUARDIANI, Mellon Foundation Fellow e Full Professor of Italian Studies (University of Toronto) è autore di numerosi libri e articoli su vari periodi della letteratura italiana con un’impostazione metodologica fondata sui dioscuri canadesi della teoria della critica e della cultura di massa. Northrop Frye e Marshall McLuhan. Fra i lavori che attestano la varietà dei suoi interessi vanno ricordati uno studio sulla lingua del Marino, La meravigliosa retorica dell’ “Adone” , l’edizione di una Breve relatione d’alcune missioni de’ Padri della Compagnia di Giesù nella Nuova Francia, di Padre Giuseppe Bressani, la rivista «McLuhan Studies» fondata e diretta insieme a Eric McLuhan.