IL CORRIERE DI NAPOLI DELL’8 GENNAIO 1891

  Questo povero vecchio che si è spento ieri, oscuramente, carico di anni e di dolori, affranto da un duro ed incessante lavoro che gli lesinava il pane, tormentato da un’ invincibile miseria, non soccorso dalla fredda speculazione giornalistica che lo ha tanto sfruttato, soccorso dalla segreta pietà di poche anime buone, questo martire della penna era, veramente, fra i più forti e più efficaci nostri romanzieri. L’opera sua, formata da cento e più romanzi, appare grezza, disuguale, talvolta ingenua nella scarsezza delle risorse artistiche; e negli ultimi romanzi suoi è la fretta, lo stento, l’intima straziante pena di chi deve guadagnare, ogni giorno, quelle tre o quattro lire che gli davano: ma da tutta quanta l’opera sua, considerata insieme, emana una così fervida potenza d’invenzione che ha rari riscontri. Francesco Mastriani, attraverso una vita umile, modesta, solitaria, senz’aver viaggiato, senz’avere appartenuto a nessun cenacolo artistico di quelli che riscaldano, anche artificialmente, le immaginazioni, senz’aver goduto giammai, possedeva una fioritura di fantasia tutta spontanea; egli era il raccontatore nato, vario, diverso, instancabile, inesauribile: egli era il narratore per istinto, che non ha visto il mondo, ma che ha un mondo di persone nella mente, che non ha bisogno di prender da nessuno la gran messe delle sue istorie, che trova in sé naturalmente, tutti i bizzarri racconti di strani casi avvenuti a personaggi singolari. Egli era come gli antichi e forti comici della commedia dell’ arte, che sopra il più monotono dei canevacci, di sera, innanzi al pubblico, improvvisavano la commedia più brillante di spirito e talvolta più drammatica di passione: e ciò facevano, ogni giorno, per una vita intiera, senza mai stancarsi. Salvo che il Mastriani trovava anche in sé stesso il canovaccio; salvo che la sua improvvisazione, massime quella del giovane e quella dell’uomo maturo, ha maggiore importanza letteraria che il fugace sorriso o la fugace lacrima della commedia dell’arte; salvo che in questa esuberante immaginazione che a ogni nome scritto sopra la pagina bianca, trovava subito una istoria da svolgere, vi erano delle qualità così simpatiche che lo rendono molto più ammirabile di tutti quanti i Sue, i Gaboriau, i Montèpin che il pubblico francese ha amati, ha adorati e che ha immediatamente consacrati all’obblio.

   La qualità simpatica nell’opera di Mastriani, specialmente nei romanzi scritti con calma, con serenità, nel suo buon tempo, la qualità che più lo fa amare dal pubblico popolare, la qualità che tanti artisti, di lui cento volte migliori, non possiedono, è l’emozione. O voi che mi leggete, rammentate, rammentate nella Cieca di Sorrento, in quella istoria semplice e dolente, la scena in cui il dottore Oliviero Blackman fa l’operazione della cateratta alla infelicissima fanciulla; rammentate il brivido di sgomento e di ansietà, provato da chiunque ha cuore, innanzi al dubbio della riuscita e all’agitazione dell’operatore; rammentate il grande grido di salvazione, di ringraziamento, di tenerezza che sgorga dal petto della creatura a cui è stata ridata la vista, e dite se tutti voi, come me, come chiunque ha letto, non ha pianto di quella emozione. E la malinconica figura di Ugo Ferraretti nel Federico Lennois e nel Mio Cadavere che languisce e agonizza, circondata da un’aureola di mortale tristezza; e la signorina di Massa Vitelli, nei Misteri di Napoli, che spasima sotto il peso di una trista fatalità che niente vale a vincere; e la misera Blandina dei Vermi che emerge da quella atmosfera di vergogna e di delitto, come vittima rassegnata; e la bella e potente principessa nella Comare di Borgo Loreto, che è la trascrizione umana della leggenda della Bella mbriana, tutte queste figure, e tante altre, hanno per sé l’attrazione del dolore, hanno per sé la profonda pietà di cui le circonda l’autore, hanno la pietà di chi legge; e non possono essere dimenticate, e non può essere dimenticato il libro che le racchiude. Certo che il concetto del bene e del male era molto rudimentale in Francesco Mastriani, e le sue persone romantiche avevano una tinta assoluta di bontà o di perversità: cogliere la nota media, approfondire la bontà della perversità, trovare la malizia nella bontà, è opera della acuta, lunga e dolorosa arte moderna, mentre egli non era che un candido narratore dei fatti, mentre egli non era che un galantuomo che avea delle lacrime per i sofferenti, appartenessero pure al mondo fittizio della fantasia, e l’orrore per il vizio. Il suo mondo morale avea pochi e ingenui criterii, semplici come quelli di un fanciullo: e al mite lume che portavano nel suo spirito, è sorto, nei suoi romanzi, l’eterno dissidio fra gli oppressori e i deboli, fra i carnefici e le vittime. Ma così schietto è il sentimento di chi scrive che la vittima s’irradia di una irresistibile simpatia e l’emozione vince il lettore, soprapponendosi al suo giudizio critico; e ciò che non si salverebbe innanzi all’arte, si salva innanzi al sentimento. Chi piange acconsente.

   Tutti sorrisero, allora, quando Francesco Mastriani, nel solo momento di orgoglio della sua umile esistenza di romanziero, scrisse di aver voluto, prima di Emilio Zola, fare il romanzo popolare verista, come si diceva, tutti sorrisero alla spacconata del povero Don Chisciotte della romanzeria napoletana, ma egli non aveva assolutamente torto. Aveva torto di volersi misurare con Emilio Zola, ma attraverso tutta la rettorica delle sue idee e delle sue narrazioni, attraverso quel concetto ristretto del bene e del male, fiorisce una certa verità popolare, che sarà, poi, il punto di partenza onde i sociologi e artisti trarranno il grande materiale del romanzo napoletano. Piccola verità popolare, invero e che consisteva soltanto nel chiamare coi loro veri nomi i tetri frequentatori delle bettole, col loro nome esatto e con la loro topografia i vicoli sordidi e lugubri dove si annida in Napoli l’onta, la corruzione, la morte; piccola verità affogata nella frondosità fastidiosa del romanziere che ha cominciato a vedere, ma che non ha forza, coraggio, tempo di vedere tutto; piccola verità, dirò così, esteriore, che la falsità bonaria, del resto annega, ma che è verità, ma che è uno spiraglio di luce, attraverso la tenebra, ma che è la fioca lampada nella notte profonda che altri vedrà e che li condurrà alla loro strada, a tutta quanta la verità com’è, nuda, schietta, tutta piena di strazio, ma non senza conforto. Or dunque morendo Francesco Mastriani, è morto un romanziere che senza metter cattedra, senza professar teorie artistiche, senza parlare dell’ideale, del reale, del temperamento, e dei documenti umani, avea visto il principio d’una strada, e le sue forze, le sue qualità, non gli hanno permesso che di additarla agli altri, bonariamente, semplicemente: è morto un romanziero da cui tutti quanti, umili o superbi, sinceri o artifiziosi, sdegnosi o rassegnati, abbiamo imparato qualche cosa; è morto, non un maestro nell’ampio senso della parola, ma un iniziatore, ma un’anima che non poteva contenere tutta la potenza di quella rivelazione e ha dovuto limitarsi alle prime massime. Egli aveva la fede, l’entusiasmo, sentiva che Napoli era l’ultima città caratteristica degna di passare nel trionfo dell’arte: egli sentiva il dramma e la farsa agitantisi nel popolo del nostro meridionale paese, egli ne amava i costumi e le leggende; egli era napolitano, impregnato di napoletanità; e se non ci ha dato – e quale artista vero l’ha data? – l’opera magistrale, lo tentò, lo volle, gli mancarono certe forze e sopra tutto gli mancò la pace necessaria a tale imponente lavoro. Non ha egli scritto le sue ultime appendici sul suo letto di morte? Non è egli passato dalle pagine di un romanzo al gelo della tomba? Egli non ha avuto riposo che nell’ultimo sonno: noi pensiamo a lui, pieni di un profondo rammarico, poiché la sua sorte fu troppo amara, poiché la penna finisce per essere, per tutti quanti, anche una croce.

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   MATILDE SERAO (Patrasso 1856 – Napoli 1927) è stata una scrittrice e giornalista italiana. Nacque dal matrimonio tra l’avvocato napoletano Francesco Saverio Serao e Paolina Bonelly, nobile greca decaduta. Il padre, avvocato e giornalista, aveva dovuto lasciare la sua città nel 1848 perché ricercato come anti-borbonico. Durante l’esilio in Grecia, dove aveva trovato lavoro come insegnante d’italiano, conobbe e sposò Paolina Bonelly, che sarà il modello della giovane Matilde.

   La Serao è stata la prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, «Il Corriere di Roma», esperienza successivamente ripetuta con «Il Mattino» di Napoli insieme ad Edoardo Scarfoglio che diventò poi suo marito. e «Il Giorno».

   Negli anni venti fu candidata sei volte, senza mai ottenerlo, al Premio Nobel per la letteratura.