PREFAZIONE

   [Ne Il Largo delle baracche Mastriani] fa dire ai suoi personaggi, popolani e borghesi immischiati nei fatti del 1848 e perciò tenuti d’occhio dalla polizia borbonica – e qui emerge la figura del suo capo, Orazio Massa –, parole e sentimenti che erano sulla bocca d’ogni napoletano, Re compreso.

                                               CARLO ALIANELLO, La conquista del Sud

  Parole, sentimenti e fatti, aggiungiamo, veritieri e verisimili. Se la storia d’amore di Peppiniello e Marietta (peraltro secondaria rispetto alla trama del romanzo) è ovviamente fittizia, non altrettanto lo sono i fatti e i personaggi della politica napoletana che formano il nucleo della narrazione. Per questo è importante (ri)leggere – assieme ad altri romanzi storici di Francesco Mastriani (1819-1891), che l’editore D’Amico sta meritevolmente riproponendo – Il largo delle baracche, che contiene molti ricordi personali dell’autore, testimone diretto di vari fatti narrati, giacchè allora lavorava presso la Direzione di Polizia del Ministero degli Interni [1].

   Mastriani, di gran successo ai suoi tempi e poi ingiustamente dimenticato, è stato rivalutato soprattutto per i suoi romanzi sociali, ma non di minore importanza sono quelli storici (che peraltro contengono sempre elementi di critica politica-sociale) e che ritraggono un interessantissimo spaccato della Napoli ottocentesca.

   I maligni sogliono sottolineare che la produzione principale dello scrittore napoletano si siti quasi esclusivamente dopo l’Unità e che prima Mastriani si dedicava ad una letteratura più amena, dal feuilleton strappalacrime La cieca di Sorrento (1851), al primo noir (e non primo “giallo”, come viene talvolta erroneamente definito) Il mio cadavere [2] (1851) e alla sua continuazione, Federico Lennois (1852)[3].

   Forse, il fatto di avere un impiego ministeriale presso il “mal” governo borbonico non gli dava il tempo (né la necessità) di dover scrivere a profusione, come gli sarebbe accaduto dopo la “liberazione” sabauda, che – assieme a molto altri danni – comportò anche una notevole inflazione, costringendolo, per mantenere la famiglia, a profondersi nel lavoro di scrittura.

   Mastriani stese Il largo delle baracche nel 1881 (lo stesso anno de La Medea di Portamedina), nel periodo della sua più intensa (e faticosa) attività: si pensi che nel solo triennio 1880-1882 realizzò almeno 18 romanzi e nei nove anni successivi le produsse il doppio, fermandosi solo a causa della morte [4].

   Quando scriveva, dunque, erano passati soltanto vent’anni dalla caduta del regno delle Due Sicilie e i ricordi di cui è infarcito il libro erano ancora ben chiari nella mente dell’autore, che di alcuni fatti doveva essere stato testimone diretto, lavorando, come detto, presso il Ministero di Polizia presso il quale si svolge buona parte del romanzo.

   I fatti raccontati sono dunque veri o verisimili e costituiscono il maggior valore dell’opera. Una volta superato il deprecabile servilismo cui Mastriani era costretto o si costringeva, culminante negli sperticati (quanto inutili, essendo il ministro camorrista morto nel 1867) elogi a Liborio Romano («uomo della provvidenza, eroe di patriottismo e di abnegazione inimitabile»)[5], e che passa – non dimentichiamolo – per la descrizione entusiastica della “battaglia” del 5 settembre 1848 (con offese gratuite alla bandiera: «caro ed antico lenzuolo candido con la regia frittata nel mezzo»[6]), del vergognoso assalto “patriottico” ai commissariati del 28 giugno 1860 [7]. Nonché dall’incensamento di figuri come Pisacane e, ovviamente, dell’immancabile terzetto Vittorio-Garibaldi-Cavour (Mazzini questa volta è citato solo di sfuggita)[8]. Per fortuna, Mastriani ha almeno il buon gusto di sospendere il giudizio su Agesilao Milano…[9]

   Lasciando da parte questa (superflue[10])adulazioni, ciò che risulta da queste memorie romanzate è sia il senso di subordinazione all’Inghilterra che la decisione sovranazionale (vogliamo definirla complotto internazionale?) di far cadere il Regno delle Due Sicilie.

   Partiamo dal primo punto, la subordinazione all’Inghilterra. Come è possibile che un camorrista (pardon, agente speciale) inglese – anch’egli un personaggio storico [11] – possa dettare legge nel Ministero degli Interni napolitano, facendo scarcerare i sediziosi arrestati e addirittura pretendendo (ed ottenendo) la rimozione del direttore di Polizia Orazio Massa, recandosi a Caserta e svegliando il Re nel cuore della notte [12]?

   Come è possibile che l’ambasciata britannica possa imporre la nomina di un direttore di polizia a lei gradito[13]?

   Come è possibile che i marinai inglesi possano offendere le popolane napoletane, ma se una di esse si ribella scoppi un caso diplomatico? Ecco il resoconto di Mastriani:

   «Un giorno avvenne nella contrada Santa Lucia una rissa tra quei popolani, tutti devotissimi al re, e i marinari d’un naviglio inglese ancorato nelle acque di Cartel dell’Ovo.

   Quattro Luciani furono messi fuori di combattimento per terribili ammaccature ricevute da quei formidabili pugilatori che sono i Jack-tars, ovvero i marinari della vecchia Albione. Uno di questi pertanto ebbe un dente spezzato da una di quelle megere di Santa Lucia.

   Poco mancò che questo dente spezzato del Jack-tars non mandasse a rotoli la dinastia borbonica e il trono delle Due Sicilie. Ci furono fulminanti richiami da parte del segretario della Legazione inglese Carlo Murray; si richiese una soddisfazione pronta e immediata; e don Orazio [Mazza], che avrebbe dato volentieri un premio alla strega di Santa Lucia la quale aveva fatto saltare il dente al marinaro inglese, dovette invece farla arrestare e sacrificare per sottrarre il governo napoletano ad un gravissima complicazione».[14]

  

   Lasciamo da parte il tono, onde sembra che Mastriani parteggi per i marinai inglesi e non per i popolani napoletani (ma è comprensibile: non sono quelli a lui simpatici o che tali deve far apparire, come i liberali dei Quartieri; sono i pescatori reazionari di Santa Lucia, fedelissimi del Re[15], quindi hanno certo meritato le ammaccature ricevute, a differenza degli ubriaconi marinai albionici, che devono essere liberi di malmenare, ma che se hanno la peggio vanno immediatamente a piagnucolare dal loro rappresentante) e che definisca la “luciana” megera e strega: quello che stupisce è come una volgare rissa portuale causata dalla schiuma inglese possa addirittura creare una «gravissima complicazione» al governo napolitano.

   È ovvio – e qui passiamo al secondo punto – che un simile caso non può avvenire se non c’è un disegno organizzato, che da un lato prepari le famigerate (e false, checché se ne continui a dire) propagandistiche lettere di Gladstone, e dall’altro sfrutti ogni occasione (la rissa portuale, il battibecco a teatro) per indebolire l’avversario.

   Così commenta Carlo Alianello l’episodio della deposizione del Direttore di Polizia, Orazio Mazza: «La notte stessa, col suo stecchino in bocca, che non si toglieva neppure al cospetto del Re, era corso alla reggia e aveva scagliato uno dei tanti fulmini britannici sull’indisciplinata colonia (non ufficialmente, s’intende) del Reame delle Due Sicilie»[16].

   Ecco cosa era diventato il Regno (e già dal 1799): una colonia (di fatto) della corona inglese.

   Una colonia – va aggiunto – in cui la propaganda aveva ulteriormente indebolito le strutture vitali – già debilitate dalla politica dell’amalgama[17] –, riuscendo a far divenire la maggioranza della popolazione (almeno nelle grandi città) liberale come quella dei Quartieri e non più tradizionalista come quella di Santa Lucia, convincendola che il bene consistesse nel cambiare governo, passando da quello “esecrato” borbonico a quello “rigeneratore” piemontese.

   Alla debolezza causata dalla politica dell’amalgama si sommano le usuali scelte suicide, come i cinque punti[18] dell’atto sovrano del 25 giugno 1860, di cui soltanto il primo – l’amnistia per i reati politici – avrà esecuzione. Questi i risultati immediati:

   «Dicemmo che nelle segrete radunanze che i popolani di Montecalvario tenevano fra i ruderi del palazzo Donn’Anna Posillipo era stato stabilito di dare l’assalto ai posti di polizia dei dodici quartieri di Napoli. questo disegno fu sventato dalle imprudenti parole di quei popolani nella taverna dei Pulcinelli sul Campo [di Marte]; le quali imprudenti parole cagionarono l’arresto dei cospiratori […]. L’Atto Sovrano del 25 giugno schiuse le prigioni politiche e quei bravi popolani, rimessi in libertà, deliberarono di effettuare ciò ch’era stato prima stabilito nelle loro assemblee a Posillipo[19]».

   Ecco perché la “sentenza” della setta («La rivoluzione decretò la caduta della dinastia»[20]) suona così tremendamente inappellabile.

                                                                       GIANANDREA DE ANTONELLIS

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[1] «Dal 1851 il Mastriani collaborò a fogli ufficiali, come Il Giornale del Regno delle Due Sicilie e L’Ordine, e nel 1858 fu chiamato a far parte della commissione di censura». TOMMASO SCAPPATICCI, voce Francesco Mastriani, Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. LXXII, Roma 2008.

[2] Il romanzo “giallo” o poliziesco, infatti, presuppone un mistero che si svelerà alla fine dell’opera: in questo caso, invece, il delitto del protagonista viene descritto senza misteri di sorta e il romanzo è invece incentrato sul feroce senso di colpa che attanaglia l’assassino.

[3] Gli anni indicati sono quelli di composizione, non di pubblicazione (i tre romanzi apparvero nel 1853).

[4] Dal 1876 al 1891, sottoponendosi ad uno sforzo estenuante, scrive ben 77 romanzi in 25 anni, quando precedentemente ne aveva scritti 35 in 27 anni (1848-1875).

[5] Cap. XXVI.

[6] Cap. XIV. Corsivo nel testo.

[7] Cfr.cap.XXV. Se ne legga, invece, la drammatica e ben più obiettiva descrizione nel romanzo attribuito a Giacomo Marulli Ernesto il disingannato (D’Amico, Nocera Superiore 2018) o in Inferno 1860. Un noir napoletano di Marco Lapegna 8Rogiosi, Napoli 2020).

[8] Cfr. Cap. XXIII.

[9] Cap. XXII, qui a p. 160. La sospensione del giudizio è peraltro ambigua (o, per meglio dire, cerchiobottista): «maledetto è chiunque sparge il sangue umano, sia un re, sia un soldato, sia un assassino, sia un tribunale. […] Il pugnale di un assassino è infame, com’è infame la guerra, com’è infame il patibolo» (ibid.). Il vile regicida e il tribunale che lo condanna sono messi sullo stesso piano.

[10] Superflue sia ai fini della narrazione, sia a quelli della carriera del suo autore, che nonostante tante prosternazioni non riuscì a farsi perdonare i trascorsi di censore né a farsi passare per “padre della Patria” in ritardo.

[11] Si tratta di Richard Bickerton Pemell Lyon (1817-1887), favorito della regina Vittoria, all’epoca membro “non ufficiale” dell’ambasciata inglese a Roma. Su tale figuro, cfr. BRIAN JENKINS, Lord Lyons: A Diplomat in an Age of Nationalism and War, McGill-Queen’s University Press, Montreal 2014.

[12] «Godeva di un libero accesso in tutti gli uffici di amministrazione, nelle diverse segreterie di Stato e nella reggia: era conosciuto dappertutto, e le autorità del regno obbedivano ai suoi cenni. Noi lo vedemmo sottrarre la Marietta dalle mani dei poliziotti del Commissariato di Montecalvario, e il giovane Vitalbi dai furori del Mazza. Ultimamente lo abbiamo veduto volare a Caserta e ritornare in Napoli con la destituzione del possente commendatore don Orazio». Cap. XIX.

[13] «Comprenderete benissimo che dopo l’offesa fatta al Fagan dal bilioso don Orazio, nel teatro del Fondo, la signora Inghilterra voleva avere una piccola soddisfazione, e non contenta di aver buttato giù don Orazio, pregò il re che alla direzione della polizia mettesse un uomo che non avesse gli stessi furori isterici contro gl’Inglesi». Cap. XXI. Corsivo nel testo.

[14] Cap. XI. Corsivo nel testo.

[15] Altrove sarà ancora più esplicito, definendoli «il popolaccio dei quartieri di Santa Lucia e del Mercato, luridi e cenciosi discendenti dei sanfedisti del ‘99» contrapposto ai «valorosi campioni della costituzione, cioè i popolani dei quartieri, come sono per antonomasia chiamati il quartiere di Montecalvario coi rioni adiacenti». Cap. XIV.

[16] Carlo Alianello, La conquista del Sud, Rusconi, Milano 1982, p. 20.

[17] Cioè dal perdonismo imposto dal trattato di Casa Lanza del 1815, con il quale si obbligò Ferdinando I a mantenere nei propri posti militari ed impiegati dello Stato che avevano fatto carriera nel periodo dell’occupazione militare francese, sotto Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat. Perdonismo contro il quale si scagliò il Principe di Canosa (Cassandra inascoltata e addirittura allontanata dal Regno) e colpevolmente reiterato (senza necessità di trattati) dopo il 1820-21 e il 1848.

[18]  Che erano: 1) amnistia generale per tutti i reati politici; 2) promessa di una nuova costituzione (denominata statuto); 3) promessi di un accordo con i Savoia; 4) adozione del tricolore (con lo stemma borbonico al centro; 5) promessa di istituzioni particolare per la Sicilia, il cui viceré sarebbe stato scelto tra i membri della Casa reale (unico punto positivo).

[19] Cap. XXV.

[20] Cap. XXIII.