Prefazione di «L’orfana del colera»

   Pubblicato a puntate sulle pagine del «Roma» tra il 1884 e il 1885, il romanzo L’orfana del colera narra le peripezie vissute da una giovane coppia di fidanzati per coronare il proprio sogno d’amore sullo sfondo di una Napoli colpita dalle epidemie di colera che, nel 1836 e nel 1837, decimarono la popolazione partenopea. La vicenda amorosa, costruita secondo le strategie tipiche della narrativa d’appendice,[1] mescola toni patetico-sentimentali ad una scrupolosa ricostruzione cronachistica delle due ondate del contagio, offrendo al lettore un quadro storico dettagliato in cui è possibile riconoscere meccanismi e comportamenti che quasi sempre hanno accompagnato la manifestazione collettiva di una malattia.

Sin dai tempi antichi, gli effetti fisici e morali delle epidemie sono stati descritti nei testi sacri, letterari e storiografici assumendo non di rado significati metaforici e didascalici.[2] Ricordiamo, ad esempio, alcuni passi biblici dell’Esodo (9.3, 9.15 e 12.29-30) e del Salmo 78.41-50 in cui la malattia è presentata come il castigo inflitto da Dio a causa della disobbedienza dell’uomo; il Libro I dell’Iliade in cui Apollo, supplicato dal sacerdote Crise, provoca una terribile pestilenza nel campo greco; il Libro II della Guerra del Peloponneso di Tucidide, in cui viene rievocata la peste che colpì Atene nel 430 a.c.; il De rerum natura in cui Lucrezio riprende la descrizione dei sintomi e della corruzione dei costumi ateniesi provocati dallo stesso morbo e naturalmente i grandi modelli letterari costituiti dal Decameron di Giovanni Boccaccio e dai Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Francesco Mastriani[3] con L’Orfana del colera si riallaccia a tale produzione riprendendone alcuni moduli. Non sembra priva di rilevanza a tal riguardo la scelta di inserire, in apertura di romanzo[4] e in altri luoghi dell’opera, un passo dell’Ecclesiastico al fine di sottolineare l’antichità della malattia con cui l’uomo in modo ineluttabile si è trovato a fare i conti nel corso dei secoli: «Vigilia et CHOLERA viro infrunito (Eccl. Cap. 31, versetto 23)».  Ripercorrendo le tappe che hanno scandito il dilagare del colera a Napoli, l’autore propone scene, temi e riflessioni che a partire dagli antecedenti letterari menzionati denotano l’esistenza di una sorta di «retorica del contagio», di «immaginario condiviso»[5] dagli scrittori che hanno affrontato il tema dell’epidemia. Ecco, allora, che nella narrazione mastrianesca delle due ondate del colera a Napoli è possibile riconoscere la presenza di motivi ricorrenti in simili esposizioni: l’incredulità dinanzi alle prime notizie del morbo, l’individuazione del primo caso, le domande relative alle cause, il verificarsi di sconvolgimenti naturali che acquistano valore profetico, il diffondersi di superstizioni, la ricerca di un capro espiatorio, la descrizione dei sintomi, l’enumerazione dei morti, l’illustrazione degli effetti sociali ed economici in un tetro contesto urbano, la confusione delle informazioni, le difficoltà della scienza e delle autorità nell’adottare provvedimenti risolutivi.

I capitoli iniziali accennano alla circolazione delle prime notizie delle stragi compiute dal cosiddetto “morbo asiatico” in Austria e in Francia. Pubblicate sul «Giornale del Regno delle Due Sicilie», tali informazioni in un primo momento destarono nella popolazione partenopea curiosità e pietà ma non ancora timore. Il male appariva distante, come una sventura «di popoli lontani ed […] estranei per favella e per costumi»[6] a quelli meridionali. Ben presto, però, quando nel barese si cominciarono a registrare alcune morti sospette, all’illusione e alla presunzione dei napoletani di restare incolumi al flagello subentrò la paura vera e propria. Eventi tragici e calamità della natura, come la morte improvvisa della regina Maria Cristina di Savoia, un incendio inspiegabile di parte della reggia e un’eruzione del Vesuvio, presero gradualmente ad alimentare l’immaginazione popolare presentandosi come “funesti auspici” di un’imminente catastrofe.[7]

Il 2 ottobre 1836 venne individuato il primo caso di colera a Napoli. La vittima era Gennaro Maggi, guardia doganale in servizio presso il Molo del Beveriello. La gente, frastornata dal terrore, cominciò ad interrogarsi sull’origine del contagio individuandola ora nella volontà di Dio di castigare gli uomini per i loro peccati ora in un complotto del governo teso a sterminare gli abitanti della città servendosi di poliziotti per spargere veleno sui cibi del popolo. Come ricordano le cronache, si organizzarono processioni e un intervento pubblico del sovrano Ferdinando II, il quale volle rassicurare personalmente i sudditi smentendo le ipotesi di avvelenamento e sostenendo che il male fosse una punizione divina.[8] Si registrarono diversi episodi di violenza ai danni di chiunque fosse sospettato di essere portatore della malattia e si diffusero assurde credenze. Circolarono voci sulla presenza di fantasmi; un medico, comparendo tutto ricoperto di pece sulla soglia di un balcone, fu scambiato per una personificazione del colera intento ad annunciare il suo incombere sulla città, mentre un altro professore di medicina fu malmenato perché creduto uno spargitore di veleno. La fantasia e la superstizione, dunque, alimentavano comportamenti irrazionali ed ingestibili dinanzi ai quali la voce narrante commenta amaramente: «il povero senno umano cozzava co’ fantasmi della paura, secondo la felice espressione del Manzoni».[9]

Il Maggi, come si è detto, fu «il primo tra centomila» a morire a causa della prima ondata colerica che ben presto trasformò Napoli in un lugubre teatro. Secondo un cliché delle narrazioni delle epidemie, l’autore procede nell’enumerazione dei deceduti presentando al lettore mucchi di cadaveri ammassati sui carri e nelle fosse scavate in fretta e furia. L’accumulo progressivo dei defunti funge da «referente» visivo dell’avanzare rapido del contagio che accomunò la collettività in un triste destino.[10] Diversi passi indugiano nella descrizione delle strade deserte, delle attività commerciali interrotte, dei campanelli che annunciavano il passaggio della “processione dei pianoforti”, «come per ingegnosa similitudine» il popolino chiamava le barelle su cui venivano trasportati i corpi al «novello cimitero, che in quella occasione si era aperto alle spalle del Camposanto Vecchio». L’autore, con tono critico, si sofferma sulla semplificazione dei processi di inumazione previsti nel periodo di emergenza, sottolineando il verificarsi di una sorta di reificazione degli estinti, ridotti a «pezzi» numerati e ristretti «in una strana fratellanza della umana creta». La partecipazione emotiva dello scrittore è viva e testimoniata dal ricordo che tra i sepolti si trovavano persone a lui care, tra cui la madre morta di colera proprio nel 1836. Di qui l’invito a preservare la dignità dell’ «astuccio» che accolse lo spirito di coloro che non c’erano più e a conservare un atteggiamento caritatevole nei confronti dei superstiti desiderosi di piangere sulla tomba dei propri defunti:

E noi vorremmo che, per quanto è possibile, la carità che pure anima i magistrati municipali verso le famiglie orbate di cari congiunti dallo inesorabile morbo, si estendesse eziandio verso gli estinti, rispettando nel cadavere la dignità dell’uomo e l’astuccio in cui ebbe sua dimora un’anima redenta dal sangue del Cristo. Vorremmo che la carità dei municipii trovasse modo di risparmiare ai cuori degl’infelici superstiti lo strazio di non poter mai più ritrovare sulla terra dei morti la fossa che racchiude i diletti congiunti.[11]

Le parole del narratore suscitano commozione nel lettore e sollecitano una riflessione sul contrasto che quasi sempre, in tempo di epidemia, si osserva tra i bisogni privati e i provvedimenti di carattere pubblico. Ciò emerge anche nella rievocazione di una serie di decisioni adottate dalle autorità per arginare il dilagare della malattia: poco dopo aver ordinato la chiusura del Molo e incendiato il casotto abitato dal Maggi mediante «la combustione di paglia, zolfo e bitume per isperdere gli effluvi colerosi», apprendiamo che furono organizzati dei cordoni sanitari e isolate le persone infette; si iniziò a fare abbondante uso di cloruro di calce, cloruro di ferro e acido fenico con lo scopo di «allontanare le pestifere correnti d’aria». Tali misure, però, secondo il narratore non servivano che a «molestare» una popolazione già travagliata dal «flagello di Dio» e addirittura a danneggiarne ulteriormente la salute con sostanze nocive. Nella rievocazione dell’epidemia scoppiata nel 1837, poco dopo una breve interruzione della prima ondata, si accentua inoltre un certo scetticismo dell’autore nei confronti della scienza medica, incapace di fronteggiare adeguatamente la malattia e responsabile della circolazione di pareri confusi che favorivano il sorgere di interessi non sempre onesti nel proporre possibili terapie:

I medici smarrivano il capo; […] Pioveano opuscoli ed articoli dei cultori dell’arte salutare su la malattia corrente, ognuno proponeva come infallibile il suo sistema di cura; se ne immischiavano i segretisti, non tanto per amore del prossimo quanto per avidità di pronti guadagni. Ma la scienza si dichiarava impotente appo il letto dell’ammalato quando questo era pervenuto allo stato così detto di algidismo.

Non di rado, Mastriani paragona le epidemie del 1836 e del 1837 a quelle del passato mettendo in evidenza elementi di continuità e differenze nelle reazioni e nei trattamenti adottati. Non manca un raffronto con l’epidemia del 1884, anno vicino a quello della pubblicazione del romanzo, che evidentemente ha la funzione di attualizzare il tema della narrazione per introdurvi osservazioni di più ampia portata. In più luoghi della narrazione, infatti, l’autore passa dal piano medico a quello etico e civile per affrontare un tema caro alla sua scrittura, quello della giustizia sociale. Riportando alcune pagine dei Vermi (1863-1864),[12] egli condanna il persistere della miseria in cui versava parte della popolazione napoletana. A suo avviso non era tanto il colera ad uccidere gli abitanti quanto la fame unitamente alle precarie condizioni igienico-sanitarie dei quartieri più degradati.[13] Dinanzi al triste spettacolo della povertà dilagante in taluni luoghi della città, il narratore leva un grido nei confronti dei progetti di risanamento avanzati dai governanti del suo tempo: «Sventrate Napoli, ma fate almeno che questo Ventre non si gonfi d’aria e scoppi per mancanza di cibo!».[14]

La soluzione alla questione viene individuata nell’osservanza della «legge del Cristo» ossia nella carità e in una più equa ripartizione della ricchezza tra le diverse componenti sociali.  Nelle pagine del romanzo cogliamo un «respiro cristiano» che si fonde con l’attenta ricostruzione storica dell’epidemia, con le sue conseguenze e i suoi meccanismi «disordinati e distruttivi»,[15] ma anche con la rievocazione di episodi di solidarietà e l’inserimento di situazioni animate da una sincera pietas. Particolarmente suggestiva, ad esempio, è una scena dal sapore manzoniano[16] in cui la voce narrante si sofferma sul dolore di una madre che ha perduto la figlioletta ammalatasi di colera e che muore a sua volta ricongiungendosi per sempre alla sua creatura. Ispirati al capolavoro del Lombardo, appaiono anche alcuni personaggi che nell’economia del racconto incarnano valori positivi. Troviamo, ad esempio, Monsignor Ferretti, figura storica paragonata dal narratore a quella di Carlo Borromeo per la dedizione ai doveri di ecclesiastico e l’impegno nel soccorrere i bisognosi, e i giovani protagonisti, Marta e Liborio, due umili popolani che nel tortuoso percorso verso le agognate nozze preservano la propria integrità morale scontrandosi con le peccaminose voglie di un uomo prepotente ed un contesto segnato dal disordine sociale e morale. Marta, rimasta orfana, è una ragazza «timida e vergognosa» che, per soccorrere una donna uccisa dal marito, si trova involontariamente immischiata nel processo giudiziario che segue l’omicidio; scagionata dai sospetti di un suo coinvolgimento nel delitto, è accolta nella casa di una ricca benefattrice; qui diviene oggetto delle mire di un prete libidinoso dal quale riesce a fuggire grazie al suo coraggio ma anche alla protezione di Dio, il quale «vegliava» sulla sua innocenza. Si ricongiunge così all’amato Liborio, detto “petto di ferro”, un giovane irruento ma incorruttibile che non esita ad aiutare il prossimo e a soccorrere gli ammalati come «amoroso infermiere». Nel coronamento del loro amore, i fidanzati sono aiutati da aristocratici generosi, come il duca Alfonso d’A…, esempio positivo di uomo benestante ma dedito alle opere di bene. A questi personaggi virtuosi si contrappongono figure losche che approfittano dell’epidemia per trarre illeciti guadagni. Oltre ai già menzionati propinatori di terapie ingannevoli e ai divulgatori di false notizie, troviamo una lontana controfigura dei popolani che nei Promessi sposi si fingevano monatti per entrare nelle case altrui e «farne di tutte le sorte»[17]: si tratta di alcuni «lazzaroni» napoletani che, camuffati da preti, si introducevano nelle abitazioni delle famiglie colpite dal male per «cercare modo di scroccar quattrini».[18] Né manca una velata critica a coloro che, «come sempre è avvenuto» nelle epidemie, nel momento in cui il contagio andava scemando, tentavano per «ingordigia» di far durare nell’opinione pubblica il terrore. Lo scrittore ricorda, infatti, che non pochi si diedero ad attività fiorite in seguito al dilagare del colera, come ad esempio la costruzione di barelle.

La malattia, dunque, «mette allo scoperto la tenuta morale collettiva».[19] Come spiega il romanziere, «nelle grandi pubbliche sciagure» si rivelano «le anime grandi» e si smascherano «i cuori piccini».[20] La finzione letteraria, attraverso la semplice e commovente storia d’amore tra i due protagonisti, propone al lettore una «vicenda esemplare di destini, di scelte», di interrogazioni di senso, in cui «pubblico e privato, bene e male»,[21] destini individuali e responsabilità comuni interagiscono. Mastriani con questo romanzo riesce a cogliere nella Storia l’essenza di alcuni comportamenti umani che, dinanzi al contagio, si ripetono nei secoli: l’orrore, le dicerie, la negazione, il complottismo, il timore del contatto, l’irrazionalità, l’isolamento, la circolazione di bollettini che quotidianamente registrano l’aumento del numero dei morti. Rivolgendosi sovente al lettore e in particolare alle “leggitrici”, egli dimostra che «l’orizzonte della malattia contagiosa non è mai stato soltanto medico»[22] o scientifico, ma anche sociale, morale e politico. Dinanzi all’ineluttabilità della catastrofe e al riproporsi di talune reazioni, egli sembra infine esortare uomini e donne ad agire con compassione e coraggio. È significativo che nella trama i personaggi che restano sani fisicamente siano sani anche moralmente. Liborio e Marta, non a caso, ottengono il loro lieto fine (il matrimonio) dopo aver attraversato l’orrore continuando ad operare secondo giustizia e onore, mossi dalla generosità nei confronti del prossimo senza curarsi del pericolo di contagio.

Come accade spesso nella produzione di Mastriani, la serietà della rievocazione storica degli eventi e dell’indagine dell’animo umano si accompagna al racconto di avventure sentimentali ma anche all’inserimento di approfondimenti dal sapore folkloristico o di aneddoti dal tono comico.[23] Né mancano osservazioni sulla vita letteraria e culturale della Napoli dell’Ottocento.[24] Tali digressioni contribuiscono a calare il lettore nel tempo in cui è ambientato il romanzo, alleggeriscono la narrazione e intrattengono piacevolmente il pubblico a cui, come si è visto, lo scrittore indirizza un messaggio profondo e straordinariamente attuale: l’epidemia, ribadendo «l’universalità e la limitatezza sovratemporali della condizione umana»,[25] deve stimolare la solidarietà e la pietà quali uniche armi per fronteggiare le comuni avversità.

                                                  CHIARA COPPIN

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[1] Tra le strategie tipiche del romanzo d’appendice vi sono l’attesa, l’impiego di intrecci ricchi di motivi tragici e sentimentali, i colpi di scena, i delitti, i travestimenti e le agnizioni (Clara Borrelli, La Napoli tragica di Francesco Mastriani e altri studi da Bruno a Viviani, Napoli, L’Orientale Editrice, pp. 181-185).

[2] Sul rapporto tra letteratura ed epidemia si vedano i recenti studi: Le parole del contagio I, in «DNA-Di Nulla Academia. Rivista di studi camporesiani», vol. I, n. I, 2020; Emma Giammattei, Contagio. Tra metafora e letteratura, in «Corriere del Mezzogiorno, 17 marzo 2020, p. 11; Federico Fastelli, Incarnare il contagio. Destino e colpa nella letteratura della pandemia, in «Lea», 10, 2021, pp. 3-13; AA.VV., Il Mondo che verrà, in «Munera», 2, 2020; Sebastiano Leotta, La letteratura al tempo delle epidemie, in «Il Bo Live. Università di Padova», 27 febbraio 2020 (https://ilbolive.unipd.it/it/news/letteratura-epidemie-coronavirus).

[3] Sull’autore si vedano i seguenti studi: Gina Algranati, Un romanziere popolare a Napoli. Francesco Mastriani, Napoli, Morano, 1914; Antonio Palermo, Da Mastriani a Viviani. Per una storia della letteratura italiana a Napoli fra Otto e Novecento, Napoli, Liguori, 1974; Antonio Di Filippo, Lo scacco e la ragione. Gruppi intellettuali, giornali e romanzi nella Napoli dell’800, Lecce, Milella, 1987; Tommaso Scappaticci, Il romanzo d’appendice e la critica. Francesco Mastriani, Cassino, Editrice Garigliano, 1990; Id., Tra orrore gotico e impegno sociale. la narrativa di Francesco Mastriani, Cassino, Editrice Garigliano, 1992; Quinto Marini, I misteri d’Italia, Pisa, ETS, 1993; Francesco Guardiani, Le forme del romanzo di Francesco Guardiani, «Critica letteraria» XXXV, 134, 2007, pp. 95-113; Loredana Palma, Un pubblico non napoletano per Mastriani. Note biobibliografiche su alcuni periodici di età preunitaria, «Esperienze letterarie» XXVIII, 2, 2003, pp. 89-92; Cristiana Anna Addesso, Emilio Mastriani, Rosario Mastriani, Che somma sventura è nascere a Napoli: bio-bibliografia di Francesco Mastriani, Aracne, Roma, 2012.

[4] Il versetto è posto come epigrafe e ripetuto all’inizio di ogni dispensa nonché in alcuni passaggi della narrazione.

[5] Evira Passaro, La retorica del contagio da Boccaccio al Coronavirus: i casi della peste del ’300, del ’500 e del ’600 tra fonti storiche e letteratura, in Le parole del contagio, cit., p. 58.

[6] Francesco Mastriani, L’orfana del colera, Cap. II.

[7]Tra gli sconvolgimenti naturali che sembrano presagire l’epidemia del 1837, ricordiamo anche il riferimento all’avvistamento di una sorta di «lugubre meteora» (cap. XIX) che potrebbe vagamente ricordare la cometa a cui accenna Manzoni nel capitolo XXXII dei Promessi sposi.

[8] L’episodio è riportato anche da Gennaro Maldacea in Storia del colera della città di Napoli, Napoli, Guttemberg, p. 25. e da Giuseppina Guacci Nobile, in Storia del cholera in Napoli, o Di alcuni costumi napoletani del 1837, a cura di Carolina Fiore Nobile, Napoli, La Regina, 1978, p. 29.

[9] Francesco Mastriani, op. cit., Cap. III.

[10] Sebastiano Leotta, La letteratura al tempo delle epidemie, cit.

[11] Francesco Mastriani, op. cit., Cap. XI.

[12] Tra il 1863 e il 1864 Mastriani pubblica I vermi: studi storici sulle classi pericolose in Napoli, romanzo in cui denuncia le piaghe sociali della Napoli postunitaria.

[13] In particolare Porto, Mercato, Vicaria e Pendino. Emblematica a tal riguardo è l’accurata descrizione delle Grotte di Brancaccio in cui lavoravano perlopiù i formellai. Conducendo il lettore attraverso un reticolo di vie che disegnano parte della topografia della città partenopea, il narratore si addentra in luoghi luridi ove con gusto gotico ci mostra gli operai intenti a maneggiare parti del corpo di animali e persino ossa umane per produrre le anime dei bottoni mentre inalano esalazioni nocive. Come ricorda lo stesso narratore, la digressione sulle condizioni degli operai nelle Grotte di Brancaccio trova un corrispettivo nell’esposizione della situazione dei lavoratori delle Grotte degli Spagari, denunciata nel romanzo Le Ombre (1867-1868).

[14] Notiamo la vicinanza dal punto di vista terminologico al titolo del noto libro di Matilde Serao, Il ventre di Napoli, Milano, Treves, 1884.

[15] Gian Mario Giusto Anselmi, Il senso della letteratura per la vita e per l’etica civile, in Le parole del contagio, cit., p. 11.

[16] L’episodio potrebbe rievocare quello della piccola Cecilia e di sua madre nel capitolo XXXIV dei Promessi sposi.

[17] Alessandro Manzoni, I promessi sposi, Newton, Roma 2002, p. 484.

[18] Francesco Mastriani, op. cit., Cap. XX.

[19] Gian Mario Giusto Anselmi, art. cit., p. 13.

[20] Francesco Mastriani, L’orfana del colera., Cap. II.

[21] Federico Fastelli, art. cit., p. 6.

[22] Susan Sontag, Illness as Metaphor, New York, Farrar, Straus and Giroux 1978, p. 11.

[23] Notiamo anche la riproposta di un tema frequente nella produzione mastrianesca, ossia quello della morte apparente. Lo troviamo, ad esempio, in Matteo l’idiota (1855), nei Vermi (1863), nel Figlio del diavolo (1868), nei Misteri di Napoli, nella Catalettica (1872) e nella Sepolta viva (1877). Sulla ricorrenza di tale motivo si veda Patrizia Noce Bottoni, Il romanzo gotico di Francesco Mastriani, Firenze, Franco Cesati, 2015.

[24] Una particolare menzione riceve Costantino Amato, autore di una raccolta di novelle, e del quale vengono riportati anche alcuni versi (Francesco Mastriani, op. cit., Cap. XXI).

[25] Andrea Campana, Leopardi, La ginestra, il colera: storicizzazioni e divagazioni (con uno sguardo alla nostra attualità) in Le parole del contagio, cit., p. 182.